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Riccardo Illy: all’estero favorita, in Italia l’impresa almeno non sia osteggiata e tartassata

Riccardo Illy, presidente del Gruppo Illycaffè

Nato a Trieste nel 1955, Riccardo Illy appena diplomato cominciò a lavorare nell’impresa di famiglia, la Illycaffè, nella quale creò nel 1977 il settore del marketing allora inesistente e, assunto l’incarico di direttore commerciale, iniziò a sviluppare la distribuzione del prodotto per il consumo domestico e per gli uffici, proseguendo poi con la diffusione a livello internazionale. Dal 1992 al 1995 è stato amministratore delegato della società e successivamente vicepresidente; ha ricoperto anche il ruolo di vicepresidente dell’Associazione degli Industriali di Trieste. Fondata dal nonno paterno di origine ungherese nel 1933, la Illycaffè oggi è presente in oltre 140 Paesi. Riccardo Illy è giornalista pubblicista e autore di alcuni libri come «Dal caffè all’Espresso», «Polietica» con Paolo Maurensig, «La rana cinese» con Paolo Fragiacomo e «Così perdiamo il Nord». Eletto sindaco di Trieste nel 1993 a capo di un’Amministrazione di centrosinistra e confermato nel 1997, nel 2001 è stato eletto alla Camera dei deputati nelle liste dell’Ulivo. Come componente indipendente del Gruppo misto ha fatto parte della Commissione Trasporti, Poste e Telecomunicazioni; tra gli altri incarichi ha presieduto il Comitato promotore della Direttrice Ferroviaria Europea Transpadana. Vicino a Romano Prodi, non è stato mai iscritto a un partito. Dopo aver promosso la nascita della lista civica «Cittadini per il Presidente», è stato eletto presidente della Regione autonoma Friuli Venezia Giulia  il 9 giugno 2003 con il 53,1 per cento dei voti, alla guida di una coalizione di partiti e movimenti dell’Ulivo. Nel dicembre 2004 è stato poi eletto presidente dell’Assemblea delle Regioni d’Europa, che raggruppa 250 Regioni di 33 Stati europei. Si è dimesso nel 2008 dalla carica di presidente alcuni mesi prima della scadenza del mandato per consentire l’abbinamento delle elezioni politiche con quelle amministrative regionali, nelle quali ha riportato il 46,18 per cento dei voti. Non rieletto però, ha preferito dedicarsi all’attività della  holding di famiglia, il Gruppo Illy che presiede dal 2004.
Domanda. Cosa risponde all’interrogativo di attualità sulla possibilità di fare impresa in Italia?
Risposta. La domanda è ovviamente provocatoria; se non fosse possibile, l’Italia avrebbe già chiuso i battenti. Il problema però è che fare impresa in Italia sia più difficile di quanto necessario. In altri Paesi è più facile farla, costituirla, ottenere i permessi occorrenti, assumere e licenziare dipendenti, pagare i vari tributi che spesso sono minori dei nostri. In Italia manca la consapevolezza che la ricchezza e l’occupazione vengono create dall’impresa, la quale quindi merita non dico tutte le attenzioni delle istituzioni, anche se questo dovrebbe essere l’atteggiamento delle Pubbliche Amministrazioni, ma che almeno di non essere  osteggiata e tartassata.
D. Questo avviene per insensibilità o per interesse della classe politica?
R. È un problema culturale. La pubblica amministrazione vede l’impresa come un soggetto fastidioso che le chiede qualcosa e che obbliga il pubblico amministratore a svolgere più lavoro che questi preferirebbe non fare. Quindi l’atteggiamento è quello di chi ha il potere di concedere qualcosa a chi chiede come fosse un privilegio, ma non è così. L’impresa è il soggetto che crea ricchezza e deve farlo in un ambiente regolato, altrimenti ci troveremmo in una giungla; e giustamente esistono limitazioni e regolamenti che l’impresa deve rispettare, anche se sono moltissimi.
D. Sono il Parlamento o i burocrati che emanano le mille norme?
R. Questi ultimi devono farle rispettare. Purtroppo il Parlamento le fa male a causa sia di una pessima legge elettorale, sia di un’abitudine ormai consolidata di scrivere le leggi in maniera ambigua, in un linguaggio che definisco ipnotico, con il risultato che ciascuno può interpretare come vuole una frase, e che ogni forza politica può trovarvi il proprio interesse. È una pratica devastante perché, di fatto, le leggi approvate negli ultimi anni non sono praticamente applicabili, ma vanno comunque interpretate dai funzionari; e se poi qualcuno non è d’accordo sull’interpretazione, si ricorre alla magistratura che così acquista sempre più potere, non per volontà propria ma per colpa del Parlamento.
D. Lei conosce bene le leggi emanate dal 1990, ufficialmente a favore della semplificazione degli atti ma usate sempre per scopi opposti a quelli dichiarati. Da quell’anno le varie leggi varate nell’insegna dell’interesse del cittadino hanno eliminato tutti i controlli sulla Pubblica Amministrazione. Il segretario comunale, il Co.Re.Co., il prefetto sono stati o eliminati o svuotati, comunque usati per fini opposti a quelli per i quali erano stati creati. Sono trascorsi oltre 20 anni, non c’è stata alcuna riflessione in proposito, sono riapparsi i debiti fuori bilancio vietati nel 1889. Lei è stato amministratore, perché non se ne parla?
R. Rispondo con una battuta. Sa cosa feci quando entrò in vigore la norma che superava l’obbligo della firma del segretario generale sulle delibere di Giunta e di Consiglio comunale? Chiesi al mio di continuare a metterla perché, se le firmava, eravamo sicuri che erano fatte bene e che non sarebbero state bocciate dal Tar in caso di impugnazione. Ho sempre creduto nel detto romagnolo secondo il quale è meglio arrossire prima che impallidire dopo; cioè era meglio discutere con il segretario generale che non vedere una delibera annullata dal Tar. Quelle norme hanno inciso solo su alcuni aspetti formali, non hanno risolto alla radice il problema delle leggi scritte in linguaggio ipnotico, che c’erano prima e vi sono anche dopo. Il potere dei funzionari è rimasto, qualche settore è stato esentato dai controlli previsti prima; nei confronti di cittadini e imprese non è cambiato nulla.
D. Anzi si è aggravata la situazione se tutto ciò ostacola gli investimenti?
R. Abbiamo un ginepraio di norme inestricabile; l’unico modo per uscirne sarebbe abrogare tutte le norme approvate dagli anni 30, quando è iniziata l’incultura giuridica, fino all’ultimo periodo, quello delle maggioranze incapaci di raggiungere accordi sul loro contenuto. L’impresa in questi anni si è trovata bloccata perché ogni adempimento è soggetto a procedure estenuanti e cavillose.
D. È anche l’Europa ad obbligare lo Stato a non fare più investimenti a scopo anticongiunturale, come una volta?
R. Anche questa sarebbe una chimera. Con tutti gli ostacoli burocratici che abbiamo non saremmo in grado di compiere investimenti pubblici di tipo anticiclico. Le faccio un esempio. Divenuto sindaco di Trieste nel dicembre del 1993, un paio di mesi dopo l’Anas mi comunicò che un progetto per completare un’autostrada non era conforme alle norme e si doveva ripartire da zero; con l’appoggio imprenditoriale ci mettemmo subito all’opera, definimmo un nuovo tracciato, varammo un nuovo Piano regolatore. Per completare la nuova autostrada sono occorsi 15 anni, l’opera è stata inaugurata dal mio successore perché io non ero più sindaco. In che modo possiamo realizzare opere pubbliche in funzione anticiclica se si impiegano 15 anni per un’autostrada? Dimentichiamoci di investimenti pubblici per combattere le recessioni.
D. Se lo Stato non interviene perché non può e i privati non vogliono rischiare i loro risparmi, qual’è la prospettiva?
R. Le recessioni hanno tanti aspetti negativi, ma anche qualcosa di positivo, accelerano la morte delle imprese meno forti e capaci e favoriscono la nascita di imprese nuove. Ritengo sempre valido il pensiero di Joseph Schumpeter, secondo il quale per sviluppare l’economia in un Paese devono ricorrere alcune condizioni. Si dice che l’export sia la salvezza per l’Italia, ma quest’anno siamo vicini allo zero, l’export non è una soluzione. La disponibilità di fattori produttivi come le risorse finanziarie non c’è, le banche non danno risorse alle imprese se non hanno garanzie e certezze. Le uniche risorse disponibili sono quelle umane, ma spesso si sciopera per rinnovare i contratti di lavoro; nelle condizioni attuali si può pensare a scioperare per rinnovare un contratto quando in Germania si sono stretti accordi per aumentare gli orari e ridurre le retribuzioni? Con una disoccupazione ormai di oltre il 12 per cento, l’unico fattore disponibile sono le risorse umane.
D. Quali sono in dettaglio le condizioni per fare impresa?
R. La prima condizione, quella economica, è negativa. La seconda è quella giuridica. Occorrono la certezza del diritto e il buon funzionamento dei tre poteri dello Stato, legislativo, esecutivo e giudiziario. La certezza in Italia è quasi pari a zero. Il potere legislativo, come detto, approva leggi scritte in linguaggio «ipnotico». Il potere esecutivo è continuamente boicottato e ricattato da qualche componente minoritaria della maggioranza. Il potere giudiziario impiega 20 anni per emettere una sentenza definitiva nella giustizia civile. La quarta condizione è psicologica: per far crescere un’economia occorre che il popolo abbia almeno una prospettiva di attesa positiva nel futuro; in Italia siamo depressi, anche a causa del mal funzionamento di uno dei poteri, quello esecutivo. Una volta vigeva la pessima politica degli annunci, che almeno faceva sperare. Oggi ne vige una ancora peggiore. Da quando si è insediato l’attuale Governo, quante conferenze stampa si sono svolte per annunciare un rinvio delle imposte? L’Imu è un esempio da manuale di quello che non bisogna fare. Quando un cittadino non ha la certezza delle imposte che dovrà pagare, cosa fa? Risparmia, anche perché prima o poi dovrà pagarle. Di fronte all’incertezza sistematica e quasi scientifica del Governo, la risposta del cittadino non può essere che il risparmio, cioè «non spendo»; quella dell’imprenditore «non investo». Esattamente questo è successo.
D. Quindi come uscire dalla crisi?
R. La prima cosa da fare, a costo zero, era ed è tuttora smettere di creare incertezza da parte del Governo; la seconda, fattibile come ci aveva spiegato un uomo di grande cultura, il premio Nobel dell’economia Franco Modigliani, è la riforma previdenziale, parte della quale è stata fatta con il passaggio al metodo contributivo, per cui abbiamo il miglior sistema previdenziale del mondo. Poiché però gli oneri previdenziali incidono per oltre il 40 per cento sul costo del lavoro, è qui che bisogna incidere. Completando la riforma, seguendo anche le linee guida di Modigliani, tutto questo è fattibile. Poi ovviamente va risolto il problema della burocrazia: se vogliamo che le imprese crescano in ricchezza e occupazione, bisogna slegare le loro mani da una burocrazia asfissiante e semplificare abrogando leggi, non aumentandole.
D. La crisi deve mordere ancora di più per poter risolvere qualcosa?
R. Non occorre impegnarci tanto. Decine di migliaia di lavoratori sono in cassa integrazione, e molti in cassa integrazione in deroga, cioè fuori da ogni regola, senza limiti di durata; prima o poi, questi lavoratori appartenenti ad imprese più deboli, quindi destinate a chiudere, passeranno in mobilità e poi da questa alle liste di collocamento e finiranno disoccupati. Poiché non c’è una prospettiva di crescita significativa da parte delle imprese nuove, e tutt’al più sarà timida e modesta, temo che quei cassaintegrati andranno ad aumentare la disoccupazione che si avvicinerà al 15 per cento del totale. Se non riusciremo prima a ridurne gli effetti, la crisi peggiorerà. I sindacati hanno grandi responsabilità, sono i difensori di quella che è diventata in Italia la casta dei lavoratori, di quelli cioè a tempo indeterminato che sono in minoranza perché sono ormai più numerosi i contratti atipici; e li difendono in base al principio dei diritti acquisiti. Mi piacerebbe vedere i sindacati discutere invece del nuovo mercato del lavoro, di economia globale, di accelerata innovazione tecnologica che comporta apertura e chiusura di imprese, di cambiamento da parte dei lavoratori, di quattro o cinque imprese nell’arco della vita lavorativa.
D. A proposito di magistratura, l’ex presidente del Consiglio Romano Prodi ha proposto addirittura di abolire la giustizia amministrativa perché ritarda le decisioni e danneggia le imprese e l’economia in generale.
R. Lo scopo della giustizia amministrativa è esattamente quello di tutelare le imprese dall’arbitrio della Pubblica Amministrazione. Ma abolire la Giustizia amministrativa sarebbe come gettare il bambino insieme all’acqua sporca. Piuttosto il problema sta nelle leggi scritte male, ma questo dipende dal Parlamento.
D. Però con il sistema elettorale che c’è stato fino ad ora, e con una preparazione dei politici non garantita in quanto vengono cooptati e non scelti, non si riduce sempre di più il numero dei capaci?
R. Sono d’accordo. L’ultima legge elettorale, ad esempio, oltre a non privilegiare la governabilità del Paese a causa della scarsa rappresentatività degli eletti, ha disincentivato i politici addirittura a candidarsi. Con questa legge elettorale io non avrei mai accettato di candidarmi. Ho concorso alla Camera nel 2001 con una legge elettorale che prevedeva il collegio uninominale. Ma se mi avessero invitato a inserire il mio nome in uno dei primi posti della lista, avrei rifiutato. E con me l’avrebbero fatto tanti altri. Le persone di valore che hanno accettato simili candidature sono diventate un semplice numero, mentre i cittadini non sono stati in grado di scegliere. Questo metodo riprovevole ha ulteriormente peggiorato la qualità media del parlamentare italiano. Non ho più speranze che questo Governo faccia delle riforme radicali di cui avremmo bisogno per far ripartire il Paese; dalle prime battute si è visto che l’obiettivo era quello di «tirare a campare» e di farsi qualche favore a vicenda. Ho un’unica speranza ancora, che almeno approvino una nuova legge elettorale, perché il fenomeno del Movimento 5 Stelle è stato reso possibile proprio dalla vecchia legge elettorale, e molti esponenti politici di questo movimento o sono inesperti, o non conoscono la Costituzione, o sono totalmente irrispettosi di ogni istituzione e di ogni regola dello Stato. Il loro è un voto di protesta raccolto da una persona che è riuscita a convincere anche vari imprenditori. Tutti parlano dei costi della politica, ma i veri costi di essa sono costituiti da quanto i politici non sono capaci di fare e che fanno male, sono i danni invisibili. Arrivo a una provocazione: pagherei volentieri un importo doppio di imposte per un Parlamento che funzioni, anziché la metà per un Parlamento che continui a non fare nulla.
D. L’evasione fiscale aumenta se agli inasprimenti delle imposte non corrisponde anche un incremento dei redditi?
R. Certo, dovrebbe esistere quanto meno un equilibrio.   

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