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SISTEMA BANCARIO ITALIANO: CONFLITTI DI INTERESSE, OSCURI INTRECCI AZIONARI, TRUCCHI A CARICO DEI CLIENTI

Il sistema bancario si sente accerchiato da tutte le parti e non perde occasione per far presente che opera in maniera conforme alle norme e alle leggi, che agisce nell’interesse delle imprese e delle famiglie, che sta facendo di tutto per migliorare organizzazione e operatività. Tutto probabilmente vero ma, pur fermandoci a quanto avvenuto dall’inizio del terzo millennio, qualcosa non funziona. Un elenco del tutto incompleto evidenzia che si è partiti dalla vendita di titoli Parmalat, Cirio, Giacomelli, Argentina ecc. per giungere alla crisi dei derivati, a quella dei mutui, alla crisi generale attuale.
Un elenco, ugualmente incompleto, di interventi della Magistratura, dimostra che il consumatore ha vinto molte più volte di quanto ha perso, su anatocismo (capitalizzazione degli interessi), crack finanziari, vendita di derivati ecc. Se a ciò aggiungiamo che i prodotti bancari sono sempre più complicati, che i costi bancari sono sempre aumentati, che i conti correnti sono i più cari d’Europa, che per qualsiasi tipo di investimento le spese sono elevate ma il rendimento è talmente basso che tutti i risparmiatori avrebbero guadagnato di più investendo in buoni poliennali del Tesoro o in buoni ordinari del Tesoro, senza ricorrere ad alcun consiglio di «specialisti», il quadro non è ancora completo, ma lo sfondo è chiaro a tutti.
Manca solo un’ultima evidenza, i conflitti di interesse: partecipazioni tra banche, assicurazioni, imprese, giornali e lo stesso Stato, che rendono impossibile ricostruire una mappa della singola proprietà e che consentono di controllare ingenti conglomerati finanziari con percentuali risibili per qualsiasi comune mortale. Analizzare tutte le condizioni ingiuste che un cliente di banca deve sopportare sarebbe troppo lungo, e allora può essere più utile affrontarne solo alcune, esattamente tre: la prima di carattere generale, le altre due più operative.
Quando si manifestarono i primi crack finanziari e i risparmiatori cominciarono a perdere i loro soldi (complessivamente oltre 500 mila investitori e oltre 40 miliardi di euro), molti si inventarono difensori dei piccoli risparmiatori: studi legali, sindacati creati ad hoc, alcune associazioni dei consumatori, comitati spontanei. La mia associazione, l’Adiconsum, fece una scelta diversa; cercò di convincere le banche coinvolte nei vari crack finanziari a trovare soluzioni dirette o conciliative per consentire ai risparmiatori di recuperare le perdite che avevano subito.
La scelta era legata ad alcune considerazioni molto semplici: molti prodotti erano stati venduti male, anche se non tutti; intentare una causa, spesso per poche migliaia di euro, costava molto in termini di denaro e di tempo; alcuni investitori avevano scelto scientemente di rischiare i propri investimenti e non era giusto che usufruissero delle stesse tutele di tanti piccoli risparmiatori. La soluzione proposta consentiva di risolvere i problemi di decine di migliaia di cittadini; infine, ciò non toglieva la possibilità di percorrere, successivamente, la strada legale. Non so se la proposta fosse la migliore possibile, ma costituiva una potenziale via d’uscita per tutto il sistema bancario. Bene, solo alcuni gruppi bancari hanno avviato procedure conciliative, alcuni per un solo emittente, altri per più di uno, nessuno per far fronte al «fallimento Argentina», salvo creare una task force che ancora oggi, a cinque o sei anni di distanza, sta cercando di recuperare l’investimento di oltre 200 mila cittadini italiani. Ciononostante, oltre 40 mila risparmiatori hanno avuto indietro una parte o tutto (molto pochi) il loro investimento; tutti gli altri stanno ancora aspettando o intentando causa, o si sono rassegnati.
Un sistema bancario che si dichiara moderno, che tende, come dice la Costituzione repubblicana, a tutelare la propria clientela, non doveva avere bisogno di spinte e di suggerimenti, viste le responsabilità accumulate in quelle situazioni (emissioni all’estero per eludere la legge nazionale, mancato rispetto dei profili di rischio dei singoli investitori, vendite in periodi vietati); doveva immediatamente attivarsi a favore della propria clientela.
In questo «gioco» lo Stato e la giustizia hanno fatto la loro parte. Leggi non più utili, che dovevano riformare un sistema, sono state emanate solo dopo anni e in larga parte devono ancora essere totalmente applicate. L’onorabilità è rimasto un elastico che per alcuni può essere allungato quanto essi vogliono, tanto non si rompe mai. Nessun giudizio, tranne i patteggiamenti, è arrivato a definizione. In America i crack recenti sono anche più pesanti di quelli dei primi anni 2000, ma almeno con una legge approvata in soli sei mesi (Sarbanes Oxly), chi provocò quei crack è stato giudicato e già condannato ad oltre vent’anni di prigione.
Conclusione: dopo quei fatti, il sistema si è talmente ravveduto che solo due anni dopo ha inondato molti risparmiatori e piccole imprese (ed enti locali, ma questo è un affare del tutto diverso) di prodotti derivati che neppure un premio Nobel riuscirebbe a ricostruirli esattamente. Non è finita. La capacità inventiva non ha limiti, e così si passa a vendere prodotti strutturati nei quali non si riesce neppure lentamente a comprendere quale potrà essere il rendimento anche a breve termine: o, peggio, a vendere prodotti nei quali il risparmiatore non sa neppure cosa stia comprando: magari ritiene di acquistare un’assicurazione vita e invece si ritrova un’obbligazione Lehman Brothers.
Qualcuno può obiettare che gli investimenti non sono un’attività per tutti, che chi investe sa che cosa rischia, che nel lungo termine il guadagno è sicuro. Allora esaminiamo due prodotti che usiamo tutti e che sono della massima semplicità: il mutuo e la carta di credito. Il mutuo è semplice: compri casa e chiedi un prestito per pagarla; se la banca ritiene che tu sia in grado di rimborsarlo, ti fa un prestito, guadagnando una commissione (spread) e garantendosi con un’ipoteca (per un importo di due o tre volte il valore del prestito).
I problemi nascono quando la banca consiglia di chiedere un prestito a tasso variabile quando i tassi sono al minimo e non possono che aumentare. Il risultato è che la banca, capace di tutelarsi verso quegli aumenti, guadagna molto di più del semplice spread, mentre il mutuatario rischia di non poter più pagare le rate e quindi di perdere la «casa acquistata a rate». Ma non finisce qui. Arriva la crisi e veramente il mutuatario non può pagare le rate, e allora, pur frapponendo molte difficoltà e piangendo miseria, le banche accettano di rinegoziare i mutui; il problema è che con la crisi i tassi crescono e le banche suggeriscono non più il tasso variabile (quando finirà la crisi i tassi torneranno a scendere), bensì mutui a tasso fisso, giustificandosi con il fatto che sono i mutuatari a chiederlo.
In questo modo il mutuatario pagherà, salvo rinegoziazioni o surrogazioni non sempre facili, tassi elevati anche quando potrebbe risparmiare un po’. Inoltre è possibile guadagnare ancora anche in caso di rinegoziazione. Le rinegoziazioni possibili sono due, quella prevista dalla legge Bersani e quella della legge Tremonti. La prima è gratuita, ma le banche non sono obbligate ad accettare la richiesta presentata dal mutuatario; la seconda è obbligatoria, ma prevede un accantonamento per ogni singola rata e un possibile allungamento della durata del mutuo e la banca potrà guadagnare sull’accantonamento per tutta la durata del prestito. Neanche a dirlo, la prima possibilità di rinegoziazione è stata avversata dalla banca, mentre per la seconda hanno fatto una gran pubblicità. Fortunatamente i mutuatari si sono «fatti furbi» e solo 20 mila su oltre un milione 200 mila hanno accettato la seconda rinegoziazione.
Per maggiore sicurezza, però, una soluzione lucrosa qualche banca l’ha trovata anche per la «rinegoziazione Bersani». L’operazione comporta la rinegoziazione del tasso di interesse o della durata o di tutti e due, proseguendo secondo il piano di ammortamento iniziale. La geniale invenzione è stata di ricominciare da capo, in altre parole come se si trattasse di un nuovo prestito. Ciò comporta che tutti gli interessi pagati sino ad allora vanno persi, e si avvia nuovamente il piano di ammortamento che, secondo il «sistema francese», prevede rate formate inizialmente da un’alta quota di interessi e da una piccola parte di capitale.
L’ultima novità sui mutui è stata l’immissione sul mercato di un mutuo a tasso variabile ancora al tasso di riferimento della Banca Centrale Europea, scelta confermata, anche se dietro richiesta volontaria dell’interessato, dalle misure emanate dal Governo per fronteggiare la crisi finanziaria e per aiutare i mutuatari. Il contributo del sistema bancario è stato quello di prevedere uno spread più alto di quelli adottati dal mercato. Ciò che fa pensare non è tanto l’applicazione di uno spread più o meno alto, ma il fatto che, facendo la somma (tasso più spread), si giunge quasi sempre allo stesso risultato, per cui la scelta del mutuatario non conta assolutamente nulla, perché la banca ha già deciso «a monte» quanto guadagnare, a prescindere dal tipo di mutuo che offre.
Passando alle carte di credito, la situazione, se possibile, è ancora più complicata. Gli italiani da sempre usano denaro contante e assegni, due mezzi di pagamento che non sono del tutto sicuri, a causa dei reati possibili, né comodi. Mezzi che costano molto a chi li gestisce, le banche. Per questo motivo da anni il sistema bancario sta «spingendo» per l’uso delle carte di credito. Scelta pienamente condivisibile se si fosse prima insegnato a usarle. Se da un lato rende possibile il controllo continuo delle proprie spese (estratti conto e movimenti), dall’altro la carta di credito induce alla spesa perché non dà il senso del denaro.
Essa consiste in un prestito da parte della banca di ammontare massimo pari al plafond disponibile. In caso di carta con pagamento solo dilazionato (pagamento totale al ricevimento dell’estratto conto), le spese richieste - per l’attivazione, il rinnovo annuale, le commissioni e le tasse - sono molto basse; ma se la carta è una «revolving», ossia con pagamento rateale delle spese, ai suddetti costi per commissioni e tasse si aggiungono gli interessi. Le condizioni sono ancora più pesanti nel caso in cui, per i motivi più disparati, il possessore della carta decida di rimborsare solo la rata minima prevista dal contratto (solitamente il 5 per cento del debito o 50-75 euro). In questo caso il prestito molto probabilmente non finirà mai. Si provi ad immaginare un saldo di un milione di euro da rimborsare a 50 euro al mese, ai quali si sommano spese, interessi e tassi; interessi che sono mediamente del 14-15 per cento annuo, ma con punte fino al 22 per cento. Il tasso di usura per queste carte è di oltre il 24 per cento. Il rimborso durerà oltre il doppio di quanto previsto e sempre che non si facciano altri acquisti.
Per le banche è un guadagno notevole e certo; per questo la carta revolving è diventata la nuova frontiera dei mezzi di pagamento. L’acquisto con carta di credito è offerto a prezzo più basso dell’acquisto in contanti, le carte di credito si regalano con gli acquisti, si «accoppiano» con altri prodotti (grande distribuzione, carburanti, squadre di calcio, fini umanitari ecc.), si inviano a casa solo perché si è regolarmente pagato un proprio debito. Tutto legittimo, ma senza valutare assolutamente non solo se il cliente è in grado di comprendere bene lo «strumento» che ha in mano, ma anche se ha una reale capacità di rimborso. Ormai molti possiedono carte di credito, revolving, bancomat, il cui rimborso a fine mese si somma a quello del mutuo e, forse, a quello della macchina comprata a rate. Lo stipendio o la pensione è invece sempre lo stesso, anzi con un potere di acquisto sempre più basso.
La conseguenza è il rischio di sovraindebitamento e di usura. Situazioni in cui certamente il cittadino cade da solo, ma con una responsabilità morale di chi lo ha portato ad indebitarsi troppo e, probabilmente, per cose futili, se non inutili. Per concludere, una curiosità: non tutti sanno che, se per sfortuna la carta dovesse essere rubata, non solo il possessore rischierebbe seriamente di perdere i propri soldi a causa di prelievi fraudolenti, ma dovrebbe anche pagare per avere il duplicato della carta. Il massimo del sadismo.

Tags: banca Adiconsum banche conti correnti Fabio Picciolini banche popolari Gennaio 2009

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