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PER RIATTIVARE LA CRESCITA OLTRE AGLI SFORZI DEL GOVERNO OCCORRONO NUOVE RESPONSABILITÀ E UNA NUOVA LEADERSHIP

La ricerca di un equilibrio tra esigenze di austerità e bisogno di rilancio è chiamata a fare i conti con l’intensa dinamica competitiva che caratterizza l’attuale fase di globalizzazione dei mercati. Dinamica, si badi bene, non più limitata a una concorrenza tra aziende ma aperta alla sfida tra aree geografiche, Paesi e territori. Per ogni economia, tanto più se matura come la nostra, l’imperativo è quindi disporre di una «value proposition», convincente e distintiva, nei confronti del resto del mondo.
L’Italia ne possiede una? Sembrerebbe di no, come hanno dimostrato, nella prima decade dello scorso mese di marzo, i casi di disimpegno annunciati dalla British Gas o ventilati dalla spagnola Gas Natural Fenosa. Non solo stiamo manifestando incapacità nel contendere ad altri gli investimenti esteri - quelli che portano capitali freschi e know how, tanto per intenderci -, ma ci permettiamo persino il lusso di perdere quanti, nonostante tutto, sul nostro Paese avevano puntato.
Per quali motivi? La risposta è nota: non siamo attrattivi. O, almeno, non lo siamo quanto basta. Tacendo per carità di Patria i fenomeni legati alla criminalità organizzata e, come ci ricorda il giuslavorista Pietro Ichino, certe «inattitudini civiche», quel che mettiamo sul piatto sono infrastrutture fisiche non all’altezza, costi per l’energia proibitivi, un sistema di relazioni sindacali statico, processi decisionali pubblici farraginosi, una burocrazia ferma al Novecento e un potere di veto espresso localmente a più livelli.
Eppure, come stima il Comitato Investitori Esteri della Confindustria, non ci stiamo giocando una manciata di euro. Se l’Italia fosse allineata alla media europea, il flusso di investimenti privati da accogliere oscillerebbe tra i 30 e i 50 miliardi di euro all’anno. Una cifra rilevante che equivale a diversi punti di prodotto interno lordo, a centinaia di migliaia di posti di lavoro diretti e indiretti, a un incremento della produttività, delle retribuzioni, della domanda interna.
Possiamo davvero permetterci tutto questo? Possiamo ignorare un simile ammontare di ricchezza che bussa alla nostra porta? Ancora, la risposta è no. Non più. Non possiamo pragmaticamente, perché i tagli e la stessa spending review, conseguenza di un necessario risanamento finanziario, sono destinati a lasciare un segno in termini di risorse pubbliche destinabili agli investimenti. Perché un serio programma di crescita - che punti all’innovazione e alla creazione di valore nel lungo termine -, ne ha un bisogno assoluto. Perché, infine, non comprendere l’ordine di grandezza dell’arena competitiva in cui, piaccia o meno, ci stiamo muovendo sarebbe esiziale per la forza lavoro più debole ed esposta, e per le prospettive dei nostri giovani.
Fuori di retorica, l’Italia è il terreno fertile per eccellenza. Lo è per la sua ricchezza intellettuale e culturale, per tutto ciò che la sua classe imprenditoriale e i suoi cittadini hanno creato e portato per il mondo, per gli stessi risultati «in conoscenza» e per i traguardi tecnologici indotti in mezzo secolo di sviluppo dall’insediamento di capitale e di management stranieri.
Insieme ai propositi, senz’altro positivi, di un Governo impegnato nel difficile compito di traghettamento del Paese verso il ritorno alla crescita, abbiamo allora bisogno di un mutamento culturale che favorisca il sorgere di una nuova responsabilità e di una nuova leadership. A tutti i livelli, nessuno escluso. Ma il cambio di marcia, questo diventare tutti più consapevoli e «più intelligenti», non può che dipendere, in primo luogo, da ognuno di noi.

 

NICOLA CINIERO
presidente e amministratore delegato IBM Italia

Tags: ibm aprile 2012 Nicola Ciniero

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