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Cronache romane. Dopo secoli ecco incombere la rottamazione di cavalli e carrozze

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Sembrava una coppia affiatata rodata da secoli, che dico millenni, di convivenza, di lavoro, di tempo libero, e di tante cariche assieme con la lancia in resta. Ora è entrata in crisi, se irreversibile sarà un futuro a misura ambientalista a dircelo. Finita da decenni in cavalleria anche la cavalleria, il destino pare segnato.

 

Il cavallo, il destriero, il ronzino, l’equino, il maremmano, lo stallone, il baio ecc, per generazioni vissuti fianco a fianco con l’uomo, potrebbero staccarsi per sempre dalla stanga, almeno a Roma dove i cosiddetti animalisti ne invocano, a torto o a ragione, la liberazione dal giogo delle botticelle, delle carrozzelle. Lo vogliono pensionare ancora giovane puledro, confinarlo nei giardinetti dei parchi, mandare nelle case di riposo come allo zoo o al bioparco, mentre la carrozza potrebbe finire esposta nei Musei capitolini. Con l’omertà di alcuni amministratori locali ormai decisi al grande passo della rottamazione, è in atto una furibonda rivolta contro la plurisecolare permanenza nella piazza cittadina. Se ne vuole stracciare l’immagine simbolo di Roma, immortalata da milioni di filmati e scatti fotografici, e da primi piani nelle cartoline con alle spalle il Colosseo. Si irridono i sentimenti di nostalgia di un’epopea magnificata da poeti e cantori i cui motivi hanno scaldato i cuori di generazioni di romani. Il cavallo del «sa come andar se c’è una coppietta», dell’indimenticabile motivetto «come è delizioso andar sulla carrozzella» (1939, Filippini e Morbelli) sarebbe diventato una povera bestia sfruttata e stremata dalle fatiche del traino. La compatiscono come un’anomalia nell’epoca dei più potenti, scattanti, cavalli vapore. Di questo andazzo, nessuna meraviglia se rimanessero soltanto le statue equestri a futura memoria del quadrupede.
Se un cavallo scivola a terra su un macchia d’olio sotto gli occhi della gente in centro, come è successo purtroppo, insorge persino il popolo dei web con una levata di scudi, un coro di proteste e di «ora basta!», e di dalli all’untore contro i vetturini. Nessuno batte ciglio o si impressiona più di tanto se uno scooterista stramazza sull’asfalto a causa della nafta persa da un bus. Nessuno si indigna o si sconforta davanti a una nostra tragica realtà: Roma non solo detiene una serie di primati per l’alto tasso di inquinamento da idrocarburi, ma indossa la maglia nera come la capitale europea con più alto numero di vittime della strada nel corso di un anno: 123 morti e 12.500 feriti.
Cento anni fa le carrozzelle erano le regine incontrastate del servizio pubblico di piazza. Negli anni 50 dello scorso secolo ne circolavano 136. Dieci anni più tardi, ai tempi della Dolce vita, esplose l’ultimo grande boom del loro dominio sulla piazza. Crocevia via Veneto, trastullavano notte e giorni i grandi divi di un’epoca da favola. Oggi si sono ridotte a 40. Intorno a loro c’è un clima di alta tensione che qualche volta minaccia di sfociare nel peggio. I vetturini fanno buon viso a cattivo gioco, perché la loro attività è equiparata a servizio pubblico. Se mai si risolvono a reagire a colpi di denunce contro le intimidazioni, hanno scarsa eco da parte dell’opinione pubblica. Di fronte al moltiplicarsi degli ostacoli provocati dalla mutazione dei costumi e al crescendo delle voci contrarie, vuoi per convinzione vuoi per partito preso, in tanti sono stati costretti ad abbandonare, sono scesi di cassetta e si sono trasformati in tassisti cogliendo le opportunità offerte dal regolamento comunale. Con lo sviluppo della motorizzazione, hanno subito, sempre più agguerrita, la spietata concorrenza dei taxi.
Resistono testardi al loro posto soprattutto i figli d’arte che sono i più. Ne sono un esempio di fierezza e di vocazione la dinastia dei Manzone con alla testa il patriarca e capostipite di cinque generazioni di botticellari, Mario. Ultranovantenne, trasteverino doc, ogni giorno di buon mattino da ben 54 anni, raggiunge la propria meta preferita per la sua giornata di lavoro, da qualche tempo la stazione ippica/parcheggio sotto il Colosseo. Abita in vicolo del Leopardo sopra la vecchia stalla in disuso che custodisce i ricordi di una vita. Figli e nipoti ne continuano il mestiere: Stefano e Gianni, sessantenni i più anziani, e ancora Augusto, Fabrizio, Alessandro, Patrizio, Nicolas. Il più giovane è Manuel di 24 anni, in piazza da solo 2 anni, ben determinato, per ora, a non lasciarsi incantare dalla sirena del taxi. Sulla figura di Mario calza a pennello il sonetto scritto negli anni 30 da Peppino Partini e dal poeta dialettale Nino Scardala: «So’ quarant’anni che fo er vetturino/ e benché vecchio ancora je la scrocchio;/ giro per Roma assieme co’ ronzino/ che trotta come si tirasse er cocchio./ Si nun scajo la pijo cor destino/ però si abbusco mica fo er pidocchio,/ co’ mezzo pollo e un bon bicchier de vino/empio la panza e caccio via er malocchio».
Pur quasi tutti padroncini, i Manzone e i colleghi non vanno avanti a briglia sciolta, sono organizzati in cooperative e si riconoscono nella Naver, nuova associazione vetturini romani, che ne tutela e ne cura i risvolti sociali, fiscali e di immagine della loro attività. Ne è presidente Angelo Sed, 45 anni, promotore della modernizzazione del trasporto ippico, e che lavora con una vettura di ultima serie. All’apparenza, la carrozzeria della botticella dei nostri giorni sembra immutata e immutabile nel tempo. Di fatto, sono superaccessoriate e più dinamiche rispetto al passato, garantendo maggiore sicurezza e manovre più agevoli in mezzo al traffico. Oggi le carrozze e i pezzi di ricambio sono importati dalla Polonia al prezzo di 8/9 mila euro l’una. I veicoli sono dotati di tecnologie avanzate e funzionali: freni a disco, freno a mano a manovella e non più a tirante, clacson elettrico al posto della vecchia trombetta, luci posteriori, doppia targa di identificazione, le grandi ruote cerchiate di gomma piena antirumore, termometro per il controllo della temperatura ambientale (i cavalli non possono circolare quando fa troppo caldo). Completano le dotazioni di bordo: la tradizionale cappotta a mantice e l’ombrellone per la pioggia.
Da parte loro, i cavalli sono ferrati ma anche gommati per meglio sopportare la durezza dell’asfalto. Finora non ha ottenuto successo il motore elettrico aggiuntivo per sprintare la marcia della carrozza. La fretta mal si concilierebbe con l’aspirazione del passeggero/turista/forestiero di godersi in pace le bellezze della città e non a volo d’uccello. Peraltro, si perderebbe il piacere delle descrizioni in presa diretta dei monumenti, colorite e alla buona, offerte dai ciceroni canta/inventastorie a cassetta.
Scriveva Ceccarius nel luglio 1940: se un confronto può reggere, la botticella può paragonarsi alla gondola, unico mezzo nella tradizionale placida lentezza, per ammirare il gran quadro di Venezia, dei suoi palazzi e delle sue chiese, in confronto alla saettante velocità dei motoscafi che turbano la quiete dei canali e delle calli. Il botticellaro romano è un cicerone dallo spirito schietto e arguto e te le canta e te le suona come gli gira. Così lo raffigura Peppino Partini in un altro sonetto sulla visita alle fontane del Bernini in piazza Navona. Fra l’altro, filosofeggia così: «Come vedi mossiù, n’antra fontana/ uguale non ce stà ner mappamondo,/ non solo per l’effetto de’ lo sfonno,/ bensì per la bellezza soprumana/…..Er coccodrillo qui, a la destra tua,/ è la bestia che magna i propri fiji/ e poi se piagne li... antenati sua!».
Certo il lento procedere al piccolo trotto suscita l’irritabilità degli automobilisti costretti di malavoglia a rallentare dietro l’ingombrante ostacolo. Se potessero viaggiare a ritroso nel tempo, scoprirebbero che una volta le carrozze a ruote ferrate facevano un rumore infernale nelle strade strette, sconnesse e polverose, mentre oggi emettono poco più di un borbottio soffocato dal rombo delle macchine. Senza contare l’insopportabile olezzo delle strade lordate dall’andirivieni di tanti quadrupedi, diversamente dai nostri giorni che obbligano i cavalli da traino a portare una mutanda per raccogliere i loro bisogni. Se a volte le strade sono sporcate, lo si deve ai ricordini lasciati dalle cavalcature dei carabinieri e della polizia.
Il cavallo delle botticelle non è più in fondo alla scala sociale e il suo destino non è più il macello, come racconta l’indimenticabile film «Nestore l’ultima corsa» del 1994 con Alberto Sordi vecchio vetturino, che lotta invano per salvare il suo animale. È sindacalizzato e può lavorare al massimo 6 ore effettive e dietro licenza comunale. Ha al collo un microchip di identificazione come quello degli animali domestici. È iscritto all’Unire e viaggia con certificati di idoneità rilasciati dalle Asl. I suoi natali e le sue origini sono di nobile lignaggio. Sono ex trottatori da corsa che si sono esibiti nello scomparso ippodromo di Tor di Valle e alle Capannelle. Possono rimanere alla stanga dai 3/4 anni fino ai 20 se in buona salute. Almeno una volta all’anno, sono sottoposti all’esame clinico di un completo check-up (analisi varie e radiografia delle zampe) per verificarne l’idoneità sanitaria. Nel corso del 2015, si trasferiranno (sono oggi una settantina) da Testaccio nelle nuove stalle costruite dal Comune a Villa Borghese, vicino a piazza di Siena: box in legno che dovrebbero andare a vedere le associazioni degli animalisti per verificarne l’idoneità. In compenso l’Agenzia per la mobilità, in vena di modernità, ha messo a disposizione l’App digitale del chiama taxi e il telefono 060609.
Ogni sera e ogni mattino sono governati dai loro padroni con l’assistenza di quattro stallieri, due romani e due polacchi, per assicurarne fieno a sufficienza, lettiere pulite e rimozione dello stabbio. Quando smettono il lavoro, campano gli ultimi anni in un paradiso in terra, in una «Paddock paradise» equina dove vivono in pensione liberi e all’aria aperta senza pagare un centesimo. Sono grandi parchi-maneggi come quelli all’avanguardia della Manziana e, in particolare, di ben 17 ettari a Valmontone messi a disposizione dalla Provincia di Roma. I più in forma sono addestrati a far compagnia (ippoterapia) ai disabili e agli anziani.
Le botticelle e la loro storia sopravvivono ormai solo nel centro storico. Le stazioni/parcheggio in attività sono 10: piazza di Spagna, piazza del Popolo, Fontana di Trevi, Pantheon, piazza Venezia, Colosseo, piazza San Pietro, piazza Navona, piazza Corrado Ricci, Bocca della Verità. Le corse sono diventate esclusivamente di carattere turistico. I vetturini sono considerati titolari di impresa artigianale, possibile anche a conduzione familiare (aperta alle donne che finora non si sono mai cimentate). L’attività è disciplinata e burocratizzata come per i taxi. La tariffa è a trattativa e varia dalle 100 alle 150 euro a seconda della lunghezza del percorso. È grasso che cola che se una botticella riesca a fare due corse al giorno nella buona stagione. I clienti sono in stragrande maggioranza stranieri. Riescono ad arrotondare quando sono chiamati in occasione di cerimonie, matrimoni, riprese cinematografiche.
Nonostante loro si sentano in regola con le leggi e a posto con la coscienza, l’opinione pubblica cittadina è spaccata in due, fra i pro e i contro, sul conto delle botticelle secondo un sondaggio di Mannheimer. Le associazioni animaliste sono i più acerrimi avversari, ma ora un’altra insidia è apparsa all’orizzonte: la sleale concorrenza dei risciò importati dalla Cina e che scorazzano in lungo e largo abbordando i turisti al di fuori di ogni regola e di ogni disciplina amministrativa. Un nuovo affare in nero garantito da un cartello di abusivi.
La comparsa delle botticelle a Roma, così come ci appaiono ora, risale alla metà dell’Ottocento. Racconta Benedetto Blasi: «Verso il 1856 un bel mattino si videro percorrere le vie, carrozze di nuova forma ad un cavallo e furono dette timonelle le quali a poco a poco si trasformarono insensibilmente in quelle, che vennero chiamate botti avendo una pancia che le faceva rassomigliare a una botte». Sull’origine dell’appellativo, Costantino Maes, appassionato cultore della storia di Roma, propone una diversa interpretazione: «Le dissero volgarmente botti, perché i piscia botte o innaffiatoi delle pubbliche strade, erano tirati da un cavallo. Parve una degradazione, e il romanesco che aborre sempre le miserie e meschinità satireggiò il nuovo uso con quel motto sarcastico».
Peppino Partini, autore nel 1940 del libro «Dalla carrozzella alla botticella», è di diversa opinione: «Quando questo tipo di vetture si introdusse e quasi subito si diffuse, i francesi che popolavano Roma, la trovarono troppo modesta in confronto delle comode carrozze a due cavalli come si era usato fino allora e per dileggio lo dissero boite cioè a tipo scatola. Il romano tradusse botte il vocabolo francese». Pezzo d’antiquariato, ormai introvabile nelle librerie, il volume di Partini costituisce una miniera di notizie su storie, curiosità e aneddoti di una secolare vettura di piazza. A metà dell’Ottocento, in via S. Chiara, si affittavano vetture per i dintorni di Roma; in piazza Montecitorio per Tivoli, a sei paoli a persona. Fino ai primi del Novecento il noleggiatore più noto a Roma era il Sebasti rintracciabile in piazza Nicosia. Per diversi decenni di quel secolo, in via dell’Orso si incontravano stallieri e postiglioni addetti tanto al servizio di Posta, quanto a disposizione per privati e forestieri diretti in qualsiasi destinazione. Secondo una statistica del 1894, si contavano a Roma 3.231 carrozze private e ben 422 da rimessa.
Un’altra singolare testimonianza la offre Pietro Romano nel suo secondo volume sulle «Strade e piazze di Roma». Fino al 1920 si apriva in piazza del Biscione una scuderia a rimessa. Vi ricorrevano diverse famiglie romane, anche nobili, per le consuete passeggiate sul Corso Umberto o al Pincio, avendo rinunciato a tenere una propria costosa scuderia.
Pure Trilussa aveva la sua abituale carrozza a noleggio e ne ricorda il nome del vetturino: «Io so’ Pippo, er più di piazza in Piscinula, faccio vetturino de professione e so’ vostro estimatore...».
Pio Molajoni, scrittore e giornalista (Giornale d’Italia), in una delle sue tante monografie sociali degli anni 30 sulla vita degli umili a Roma, spezzò un lancia in favore del vetturino-padroncino, oggi tanto bistrattato, annotando l’affetto e le cure che riservava al suo cavallo-lavoratore dipendente: «Lo guidano con dolcezza, senza mai percuoterlo, cercando quasi di indovinare la stanchezza o di misurarne la forza». E ne tesseva le virtù con lodi sperticate: «È veramente interessante il vedere come si affratellino l’uomo e il cavallo, in questa condizione che tanto li ravvicina. Essi lavorano insieme tutto il giorno; essi dormono vicini la notte - lo stesso ambiente serve spesso da scuderia e da casa (era davvero così in Trastevere fino a una quarantina d’anni fa ndr); solo la differenza materiale tra loro è che all’uomo manca spesso quel nutrimento che non manca al cavallo, perché la prima parte del guadagno è per questo e non per quello; l’uomo, infatti, lavora ugualmente anche se mal nutrito, mentre il bruto si rifiuta e diviene passivo».
Tolte le spese, il guadagno del vetturino, specie nella stagione morta, è ridotto all’osso. Peraltro, il prezzo della corsa a trattativa è più facile che scenda al ribasso che salga al rialzo. Un tempo, le tariffe erano fissate da un tabellario. Nel 1863, per una corsa, dal levare del sole a un’ora di notte, baj (bajocchi) 15; un’ora di trasporto baj 30; le ore seguenti 25 ciascuna; dopo un’ora di notte al levar del sole, baj 20 a corsa; un’ora 40, le successive 30. Le tariffe venivano raddoppiate nella vigilia e nel giorno di Natale; dalla domenica delle Palme a Pasquetta; nei giorni di carnevale. Nel 1871, Roma diventata capitale d’Italia con tanto di amministrazione capitolina nuova di zecca, confezionò un rigoroso regolamento per le vetture pubbliche, stabilendo le nuove tariffe: ogni corsa di giorno 80 centesimi, di notte 1 lira; da qualunque punto della città alla stazione ferroviaria lire 1,20 di giorno, 1,40 di notte. Fra le nuove regole, il divieto di circolare senza licenza; posti fissi nelle stazioni di parcheggio; carrozze solide, comode, facili a salirvi, tappezzate decentemente e con buoni cuscini; cavalli forti e scevri di ogni difetto nocivo alla sicurezza e ributtante alla vista; obbligo per i vetturini di contegno onesto e cortese con rischio di pena per ogni atto villano, ogni grido clamoroso, turpiloquio. Si obbligavano, infine, i vetturini «ad essere decentemente vestiti, ad avere un buon orologio in saccoccia per mostrarlo a richiesta». Il tassametro, oggi scomparso, venne introdotto nel 1908: 50 centesimi di lira (di giorno) per i primi due km di percorso; per ogni 600 metri successivi (o sosta di 4 minuti) 10 centesimi. Nelle ore notturne aumento della tariffa di partenza.
Per decenni anche nel secolo scorso, la botticella ha rappresentato per famiglie e comitive un’occasione per le classiche gite. Nel suo libro di storie e curiosità sulle carrozzelle romane, Partini riproduce il resoconto di un giornale romano della fine degli anni 30: «Quest’oggi non si mangia in casa: ci si cucina solamente. Si va a mangiare fuori porta, oggi, in una di quelle tante osterie della vecchia periferia che offrono alla clientela domenicale tanto buon vino e così ridente ospitalità. La carrozza è pronta; il vetturino scalda al primo tiepido sole la sua vecchiaia, il cavallo scalpita, ripensando ai suoi tempi, quando era un superbo e aristocratico cavallo da carrozza padronale. Il capo della spedizione contratta. Quanto vuoi per portarci fuori porta? Discuteremo dopo. Ce semo sempre messi d’accordo, no? Salite! E la vettura parte, col suo carico d’economica, ma così autentica felicità».
Nel libro-immagini «Roma in botticella», l’autore Massimo Antonelli, raccoglie alcune testimonianze illustri. Luigi Barzini: «All’arrivo degli americani a Roma dopo la Liberazione, le botticelle erano ricercatissime, tanto che ne tornarono molte in circolazione. La foto sulla botticella era una delle cose da fare come la visita a S. Pietro e le monetine nella Fontana di Trevi». Pasquale Festa Campanile: «Abolire la botticella è come abolire di colpo gli alberi nella città». Giulietta Masina su Federico Fellini: «Fin da quando si guadagnava il pane in un giornale umoristico di Roma, parte del suo guadagno finiva nelle tasche del vetturino. Quando gli capitava di prendere la carrozza, dimenticandosi di non avere quattrini, conveniva con quell’onesto lavoratore compensi in natura, camice di seta, calzini, cappelli e cose varie». Paolo Stoppa: «Quando ne vedo una, rivedo Trilussa sulla botticella, Trilussa col cappello a larghe tese, da artista, come si usava una volta». Cesare Zavattini: « Si era nel 1944, i tedeschi facevano retate improvvise per mandare gli italiani nei campi di concentramento. Alberto (Lattuada) ed io ci salvammo solo in quanto eravamo in carrozzella. Eravamo a largo Magnanapoli. Cambi strada, dicevamo al vetturino che sterzò il cavallo verso il Qurinale. Non respiravamo neanche dalla paura e sembravamo, anche a quei soldati armati fino ai denti, misteriosamente mutevoli».    

a cura di Romano Bartoloni

Tags: Luglio Agosto 2017 Romano Bartoloni cronache romane Roma

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