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TERRORISMO, L’IMPATTO NEL MONDO: LA MAPPA DEI PAESI PIù COLPITI. ITALIA AL 67ESIMO POSTO

di ANTONIO MARINI

L'Istituto per l’Economia e la Pace-IEP ha pubblicato, alla fine dello scorso anno, un rapporto nel quale viene analizzato l’impatto del terrorismo in 158 Paesi, tra cui l’Italia, stilando una speciale mappa dei Paesi più colpiti dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti, nel decennio 2002 - 2011, valutandone anche la dimensione economica e sociale. L’Istituto per l’Economia e la Pace è un’organizzazione internazionale indipendente, apartitica, senza scopo di lucro, con sede a Sydney e a New York, dedita alla ricerca e all’analisi di tutti quei fattori culturali, economici e politici che favoriscono la pace nel mondo e, conseguentemente, delle cause che l’ostacolano o la mettono in pericolo, come il terrorismo internazionale. Come ha spiegato il suo presidente esecutivo Steve Killea, durante la conferenza stampa svoltasi a Londra il 4 dicembre del 2012, l’obiettivo della ricerca è stato quello di analizzare in modo sistematico l’impatto del terrorismo internazionale, esaminandone le tendenze e valutandone le conseguenze economiche e sociali in vista di più concrete e adeguate risposte politiche. Gli ha fatto eco il parlamentare inglese Khalid Mahomood, presidente dell’All Part-Group britannico, organismo che ha lo scopo di esaminare, valutare e sviluppare le politiche in materia di terrorismo; Mahomood ha affermato che il rapporto presentato dall’Istituto per l’Economia e la Pace costituisce uno strumento indubbiamente utile per monitorare e combattere il terrorismo a livello internazionale. Il rapporto si basa sui dati raccolti dal GTD ovvero Global Terrorism Database, ed elaborati dal Consorzio nazionale per lo studio del terrorismo istituito presso l’Università del Maryland negli Stati Uniti. Tali dati sono stati sottoposti a un’attenta analisi tenendo conto delle mutevoli tendenze del terrorismo nel tempo, delle sue diverse caratteristiche e dimensioni geo-politiche, dei metodi di attacco e del contesto nazionale e internazionale in cui si sviluppa. Per misurare l’impatto del terrorismo in ogni singolo Paese sono stati usati quattro indicatori: il numero degli episodi criminosi, il numero dei morti, il numero delle vittime e la dimensione dei danni materiali. Tali indicatori sono stati poi impiegati per creare una media ponderata, cinque anni per ciascun Paese, che ha tenuto conto degli effetti duraturi del terrorismo. Il punteggio assegnato a ciascun Paese indica quindi l’impatto di un attacco terroristico anche in termini di paura, e la successiva risposta di sicurezza. Significative sono le correlazioni tra l’indice di corruzione, la disoccupazione giovanile, la ricchezza, la forma di Governo e il terrorismo. Il primo dato di rilievo che si rileva dal rapporto è che il numero degli attacchi terroristici è aumentato costantemente dal 2002 al 2011, anche se le vittime sono diminuite del 25 per cento dal picco registratosi nel 2007. In questo decennio vi è stato un aumento del 460 per cento degli attacchi, del 195 per cento dei morti e del 224 per cento dei feriti. Il periodo peggiore si è registrato tra il 2005 e il 2007, quando l’indice globale è stato spinto verso i livelli massimi dall’intensificarsi degli attacchi in Iraq, che è divenuto l’epicentro dell’ondata terroristica seguita dagli attentati dell’11 settembre 2001 alle Torri gemelle di New York e ad altri obiettivi negli negli Stati Uniti. Solo nel 2011 sono stati compiuti 4.500 attacchi in tutto il mondo, con 7.453 morti e quasi 14 mila feriti. L’attacco con il bilancio più pesante è avvenuto nel Nepal dove nel 2004 sono morte 518 persone e 216 sono rimaste ferite. A guidare la graduatoria dei Paesi più colpiti c’è proprio l’Iraq, con un terzo delle vittime totali nell’arco del decennio preso in esame. I sette Paesi che hanno subito il maggior numero di vittime rappresentano quasi tre quarti dei morti nel decennio, con gli irakeni naturalmente tra i primi della lista. L’Iraq rimane anche il Paese più esposto a rischio terrorismo. E infatti, su un massimo di 10, risulta avere un indice di terrorismo pari a 9,56. Seguono il Pakistan, con un indice pari a 9,05, l’Afghanistan con l’8,67 e l’India con l’8,15, che sono diventate aree fortemente a rischio. Nel Sud-Est asiatico il Paese più «caldo» è la Thailandia con un indice pari a 7,09; in Europa la Russia con il 7,07; in Africa, la Somalia il 7,24, seguita dalla Nigeria con il 7,14. Fra i primi dieci posti di questa ingloriosa classifica risultano anche lo Yemen con un indice di terrorismo pari a 7,31 e le Filippine con 6,80. L’Italia si piazza al 67esimo posto con un indice di 2,44. Tuttavia nel 2011 la situazione è leggermente peggiorata, perché il nostro Paese è salito alla 57esima posizione. Ciò è stato determinato dall’intensificarsi della violenza anarco-insurrezionalista, caratterizzata dall’invio di plichi e pacchi esplosivi, secondo il modus operandi della F.A.I., la Federazione Anarchica Informale. Al riguardo, vale la pena ricordare che la F.A.I. ha fatto la propria comparsa nel dicembre del 2003 quando, in concomitanza con l’invio di una serie di pacchi-bomba a rappresentanti e a istituzioni dell’Unione Europea, tra cui Romano Prodi, fu divulgato il suo manifesto programmatico a firma di gruppi terroristici già in precedenza attivi nel panorama eversivo italiano, ai quali si unirono in seguito altri gruppi dell’area anarco-insurrezionalista che negli anni successivi hanno compiuto una trentina di attentati rivendicati per conto di tale associazione. Ma il principale fattore di rischio per l’Italia, anche nel 2011, è rimasto il terrorismo di matrice jihadista. Numerose sono state le operazioni antiterrorismo compiute dalle Forze dell’ordine nel corso dell’anno, che hanno portato alla neutralizzazione di cellule e ad arresti di soggetti pronti a compiere attentati contro obiettivi diversificati nel territorio nazionale, spesso usato come retrovia logistico-finanziaria e bacino di reclutamento per il sostegno di Al Jihad nei teatri di crisi. Contrariamente a quanto si può pensare, il Nord America è risultato la regione meno colpita dal terrorismo, con un tasso di mortalità 19 volte inferiore a quello dell’Europa occidentale. Dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, gli Stati Uniti sono passati dal primo al 41esimo posto della classifica, con un totale di 23 vittime in dieci anni. È interessante notare che i Paesi a basso reddito sono stati meno colpiti di quelli a medio reddito. Ciò dimostra che la povertà non è la causa principale del terrorismo. Gli obiettivi più comuni sono stati i privati cittadini e le proprietà, mentre solo il 4 per cento degli attacchi sono stati rivolti verso obiettivi militari, anche se la maggior parte di essi si sono verificati in una situazione di conflitto più ampio in aree di guerra. Quanto alla matrice terroristica, il rapporto ne individua tre diverse: ideologico-religiosa, politica e nazionalista-separatista. Va specificato che non si tratta di una divisione netta, dal momento che i vari gruppi legati al terrorismo tendono ad abbracciare tutte e tre le ideologie ponendo in essere una strategia che ha, come effetto, quello di allargare la base degli affiliati. Predominante è la matrice fondamentalista islamica, mentre la matrice politica sembra riguadagnare terreno rispetto al passato recente. Ma il dato più interessante, e nello stesso tempo più allarmante, rimane l’aumento del rischio di attentati, un rischio che diventa sempre più reale e concreto, per cui appare difficile prevedere dove il terrorismo potrebbe colpire. Non a caso il 3 gennaio scorso il presidente di turno del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, il pachistano Masood Kan, si è premurato di affermare che i punti principali del lavoro del Consiglio di Sicurezza di quest’anno riguarderanno la ricerca di una strategia sinergica per combattere il terrorismo globale, promuovendo la cooperazione internazionale a tutti i livelli. Masood Kan ha aggiunto che i lavori del Consiglio di Sicurezza si concentreranno anche sulle operazioni di peacekeeping guidate dall’Onu. La piaga del terrorismo resta, dunque, uno dei maggiori problemi da risolvere in campo mondiale. Anche il Papa ne è consapevole: nell’omelia della messa di Capodanno non ha mancato di accennare alle «diverse forme di terrorismo» che costituiscono un serio ostacolo al mantenimento della pace nel mondo. Già qualche mese prima, nell’udienza concessa ai rappresentanti degli organismi di polizia e di sicurezza dei 190 Stati tra i quali dal 2008 si annovera anche lo Stato della Città del Vaticano, che hanno partecipato all’81esima Assemblea generale dell’Interpol svoltasi a Roma nel novembre 2012, aveva avuto modo di definire il terrorismo «una delle forme più brutali della violenza», che «semina odio, morte e desiderio di vendetta». Un fenomeno che «la strategia sovversiva tipica di alcune organizzazioni estremistiche, finalizzata alla distruzione delle case e all’uccisione delle persone, si è trasformata in una rete oscura di complicità politiche, utilizzando anche sofisticati mezzi tecnici, ingenti risorse finanziarie ed elaborando progetti su vasta scala». In questo contesto non vi è dubbio che lo studio svolto dall’Istituto per l’Economia e la Pace rappresenterà uno strumento estremamente utile per ridefinire le strategie di lotta contro il terrorismo, contribuendo nello stesso tempo a spostare l’attenzione del mondo verso la pace. 

Tags: Febbraio 2013 terrorismo Antonio Marini

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