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Una nuova fase dopo il Jobs Act

TIZIANO TREU

Sono convinto che le norme riassunte sotto il titolo di «Jobs Act» hanno introdotto nel nostro ordinamento un insieme organico di riforme del lavoro in linea con le buone pratiche europee. Ne resto tuttora persuaso, anche se i detrattori del Jobs Act che non sono mai mancati, oggi stanno alzando la voce per motivi spesso non pertinenti. È significativo che il referendum sull’art. 18 sia stato dichiarato inammissibile dalla Corte costituzionale, e i due quesiti ammessi non riguardano le norme del Jobs Act, che restano intatte.
 Ma questo non significa né che il disegno ipotizzato con la legge delega sia compiuto, né tanto meno che quel disegno sia oggi sufficiente. Per completare le riforme lanciate nel 2014 mancano pezzi importanti, che non si esauriscono solo con altre norme di legge, perché richiedono investimenti in uomini e strutture organizzative e pratiche coerenti, a cominciare da una efficace organizzazione dei servizi all’impiego e delle politiche attive di lavoro.
In mancanza di queste politiche, le riforme di Renzi restano squilibrate e le flessibilità introdotte giustamente negli ultimi anni diventano pericolose; tanto più in tempo di crisi, alimentano paure e reazioni di larghi strati della popolazione. Rimediare a questa carenza è urgente anche per un Governo di transizione quale si ritiene quello di Gentiloni.
 Due sono le priorità: una è dare risposte ai «perdenti della globalizzazione». L’altra è fare di più per aumentare l’occupazione giovanile. Queste priorità non riguardano solo l’Italia, ma da noi sono più evidenti e drammatiche che in altri Paesi, per i nostri ritardi nell’affrontarle.
Garantire adeguati livelli di protezione ai lavoratori colpiti dalle crisi e dalla globalizzazione è una priorità riconosciuta da (quasi) tutti i Governi, compresi quelli moderati o di destra che stanno facendo concorrenza alle sinistre, spesso timide nel prendere le difese dei gruppi esclusi e più colpiti dalla crisi; che in effetti si stanno ribellando anche col loro voto.  Lo stesso FMI ritiene che una distribuzione più equa del reddito sia non solo socialmente ma anche economicamente necessaria. Per questo servono misure di protezione e messaggi capaci di rassicurare vasti gruppi di popolazione, comprese parti del ceto medio impoverito o a rischio di impoverimento.
Questo è un primo cambio di passo per la fase del dopo Jobs Act. Si tratta di rafforzare e rendere efficaci sia gli ammortizzatori tradizionali sia le nuove misure di prevenzione e di contrasto alla povertà. La legge sulla povertà approvata dal Governo Renzi va nella giusta direzione; ma il messaggio è ancora debole perché le risorse sono scarse e soprattutto appaiono sbilanciate agli occhi dei cittadini, non solo di quelli poveri, rispetto a quelle spese per i ceti più ricchi.
Il segnale redistributivo deve essere più forte e chiaro se si vuole che venga percepito. Va inoltre orientato verso i salari e verso il welfare, non solo o non tanto verso le pensioni.
Per altro verso sarebbe controproducente che questa redistribuzione si traducesse in mera assistenza, neppure sempre diretta ai soggetti più bisognosi, senza accompagnarsi con forme di attivazione e di promozione delle capacità delle persone interessate. La sfida è difficile specie per un Paese come il nostro che ha scarso spirito civico e che è poco attrezzato nel gestire politiche attive del lavoro e della formazione. Ma l’urgenza va affrontata di petto, tanto più se gli strumenti di protezione devono estendersi, come hanno fatto altri paesi, in senso universalistico, inclusa la sperimentazione di forme di reddito di inclusione sociale.
L’altro cambio di passo per il dopo Jobs Act deve riguardare le misure per la creazione di posti di lavoro «decoroso» e non precario, che sono il primo strumento per la crescita e per la stessa lotta alla povertà. La ricerca di misure efficaci affatica tutti i Paesi e non ci sono soluzioni rapide. L’obiettivo richiede anzitutto interventi strutturali per favorire la stabilità e sostenibilità dello sviluppo; tanto più nel caso italiano ove si tratta di recuperare il gap accumulato da tempo negli investimenti in innovazione, infrastrutture e competenze rispetto agli altri Paesi con cui ci confrontiamo.
Le misure legislative non possono fare più di tanto. È inutile o strumentale continuare a chiedersi quanti posti di lavoro ha creato il Jobs Act e insistere su altre modifiche normative.
Gli stessi incentivi hanno limiti evidenti, soprattutto se sono di durata episodica e dispersi in troppi rivoli. Le migliori esperienze dei Paesi vicini mostrano la necessità di incentivi stabili a regime e selettivi; con priorità per i gruppi più a rischio (giovani e disoccupati di scarsa qualifica). In quei Paesi i vari incentivi sono inseriti in un quadro organico di politiche diversi e comprensive di servizi di assistenza, formazione e riqualificazione professionale, accesso al credito (si usa talora la formula datata di «piano per l’occupazione»). E le varie misure non sono riservate al sostegno del lavoro subordinato ma estese al lavoro autonomo, alle PMI e alle start up innovative.
Le misure di incentivo finora varate dal nostro Governo vanno stabilizzate e riordinate se vogliono essere più efficaci e percepite.
Affrontare l’emergenza della disoccupazione giovanile è necessario per evitare un conflitto fra generazioni che sta esplodendo con effetti dirompenti anche sul piano politico.
Basti pensare come votano i giovani, che si dividono fra assenteismo e voto di protesta. Per fronteggiare questa emergenza non basta il pur meritorio impegno della «garanzia giovani». Occorre investire più risorse umane e organizzative per potenziare gli strumenti di sostegno alla transizione fra scuola e lavoro: orientamento, alternanza, tirocini e apprendistato, senza dimenticare il recupero di quelle migliaia di giovani che non hanno neppure una qualifica di base.
Le esperienze europee dimostrano che questi strumenti sono decisivi per migliorare le opportunità di lavoro dei giovani. Gli interventi per recuperare il nostro deficit sono diversi a seconda degli istituti: ad esempio l’apprendistato professionalizzante va reso più semplice, secondo un modello comune in tutto il territorio nazionale e reso meno costoso (in molti Paesi è privo di tutti gli oneri contributivi). L’alternanza per essere operativa presuppone un grande sforzo organizzativo e di avvicinamento culturale fra scuole e imprese. Il che implica tra l’altro formare con programmi specifici nuclei sia di tutor aziendali, in grado di guidare gli studenti coinvolti nelle esperienze di lavoro sia di docenti preparati a orientare i giovani nelle scelte e nell’utilizzo di tali esperienze.
Niente di questo si improvvisa. Ma un piano credibile di sostegno dell’occupazione giovanile include anche questo, anzi deve cominciare da questo: da un migliore raccordo fra scuola e lavoro.
E deve continuare nel corso della vita, con una educazione che permetta alle persone di tenere il passo con il cambiamento delle conoscenze e delle tecnologie. Anche qui l’Italia deve recuperare ritardi per migliorare e diffondere questo strumento come stanno facendo altri Paesi. Non con incentivi a pioggia e alle istituzioni formative, ma aprendo a scelte individuali, ad esempio mettendo a disposizione dei singoli conti personali di formazione spendibili in corsi qualificati. La Francia ha appena potenziato un simile conto (CPA) cui ogni lavoratore può attingere per finanziare proprie attività di formazione da 16 anni fino alla pensione.
 Gli investimenti in formazione sono essenziali anche per la qualità dello sviluppo dell’occupazione e dell’eguaglianza, perché se scuola e formazione non tengono il passo con le conoscenze e con le modifiche tecnologiche, il «risultato è l’ineguaglianza».   

IL CPA FRANCESE
Il CPA è uno strumento universale di tutela finalizzato a sostenere i percorsi professionali di tutti i cittadini con più di 16 anni, che convertirà in punti i diversi diritti connessi a un’attività professionale e/o connessi ad attività non professionali. Ciò consentirà di trasferire, in un mercato del lavoro sempre più frammentato e intermittente, un diritto acquisito, e non goduto», da un’attività professionale a un’altra. Inoltre i diritti convertiti in punti potranno essere utilizzati per diverse finalità, ad esempio nell’uso del «compte épargne temps» per finanziare la formazione del lavoratore.
A tal proposito si parla di fungibilità dei diritti In Francia, sviluppatasi collegando i diritti alla persona a prescindere dal suo lavoro e status professionale. Anche se tale idea non è mai stata attuata attraverso una riforma, a causa delle difficoltà giuridiche e tecniche, sono stati adottati strumenti particolari, come i conti personali, ad esempio il conto personale di formazione (CPF) e il conto di prevenzione per i lavori usuranti (C3P).
La novità, ora, è la connessione tra CPA e trasformazione del lavoro, che tiene conto dei percorsi professionali non più lineari bensi discontinui, che invero riguardano oggi quattro lavoratori su dieci in Francia, in maggiore parte giovani, lavoratori poco qualificati e anziani, categorie  meno tutelate.

Tags: Marzo 2017

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