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Roma città aperta: forse un po’ troppo

Marco Barbieri

Non sono romano. La premessa è doverosa, anche se non credo sia decisiva per comprendere quello che segue. Risiedo a Roma da un anno e da sette la frequento regolarmente per lavoro. Quindi «civis romanus sum», ma non romano. Straniero residente a Roma, questo sì. E allora? Allora c’è che ho la sensazione di essere finito a Roma nel pieno del ciclone. Vigili urbani in malattia generalizzata l’ultimo giorno dell’anno; inchiesta Mafia capitale; scandalose vicende Atac a ripetizione, dalla metropolitana che viaggia a porte aperte agli scioperi selvaggi non annunciati; rifiuti che sembra la Napoli del 2008, quella città sommersa dall’immondizia che aiutò Berlusconi a vincere le elezioni; e sui rifiuti l’ennesimo scandalo e le ennesime presunte mazzette con o senza Malagrotta.
L’aeroporto internazionale di Fiumicino che in quattro mesi subisce incidenti che potrebbero essere ridicoli o tragici, a seconda dell’umore e del fatto di averne dovuto subire le conseguenze o meno: un condizionatore determina l’incendio di un intero terminal, i rifiuti nelle zone perimetrali all’area dello scalo si incendiano (o vengono incendiati, in questo caso poco importa) senza che nessun sistema di allarme possa scattare, finendo per bloccare l’attività per un giorno, un black out elettrico nei giorni di maggior traffico determina lo stop dei voli per quattro ore.
Al porto di Ostia viene arrestato il presidente e l’area viene posta sotto sequestro; peraltro a Ostia dovremmo fare una minuziosa cronaca delle documentate infiltrazioni mafiose nella gestione degli esercizi commerciali e balneari del litorale, così come della incomprensibile resistenza ad aprire varchi liberi al bagnasciuga, manco fosse proprietà privata; in un anno e mezzo si sono susseguite tre Giunte con lo stesso sindaco che ha il minimo storico (della storia millenaria) dei consensi dei romani.
La sequenza ricorda quella incredibile di John Belushi in «The Blues Brothers» che, in poco più di un minuto, per scusarsi con la ex fidanzata piantata in asso il giorno del matrimonio, sbotta in un crescendo indimenticabile: «Non ti ho tradito, dico sul serio... ero rimasto senza benzina, avevo una gomma a terra, non avevo i soldi per pagare il taxi, la tintoria non mi aveva portato il tight, c’era il funerale di mia madre, era crollata la casa, c’è stato un terremoto, una tremenda inondazione, le cavallette!». Realtà e fantasia. Speriamo che terremoto e inondazione vengano risparmiati alla città eterna. Tutto il resto sta accadendo.
E tutto questo accade sull’abitudine quotidiana al disagio: buche nelle strade, manifestazioni non programmate che bloccano il traffico automobilistico, accampamenti rom e non solo sulle rive del Tevere e nella stazione Termini, olandesi ubriachi che devastano Piazza di Spagna... Roma città aperta. Forse un po’ troppo. E ciò ha da sempre lo stigma di rappresentare tutto il Paese. Ma quasi sempre in negativo, almeno da quando l’Espresso pubblicò l’inchiesta di Manlio Cancogni sugli scandali immobiliari romani del dopoguerra, con un titolo che restò nella memoria: «Capitale corrotta=Nazione infetta».
Senza raggiungere quegli apici, Roma è rimasta vetrina (negativa) d’Italia. La cura per il territorio è svanita. In realtà anche nel Nord: parola di milanese (mi sono tradito: sono milanese). Ma uno spera che nella Capitale... invece no. È peggio.
Il caso della Barcaccia devastata dai tifosi del Fejeenord è emblematico. A nessuno sarebbe consentito di tirare una bottiglia alla vasca del Bernini. A un centinaio di stranieri sì. Ma questo è il Paese, non solo la città, che ha finito per confondere l’accoglienza con il disinteresse. Al cinismo comprensibile di una città che da duemila anni assiste al tour incessante del potere, si aggiunge l’assenza del potere. Roma sembra soffrire di questo: l’assenza del potere. Che fosse quello dell’Imperatore o del Papa-re, che fosse quello della politica o dei servizi segreti, il potere è stato per anni (secoli) il punto di ancoraggio della città. Per criticarlo (tra pasquinate vere o finte) o per accucciarvisi, servizievolmente. Senza il potere Roma implode, svanisce, si perde.
È quella Roma che rimpiange Carlo Verdone, fatta dai romani che oggi sono stati «deportati» non fuori delle mura aureliane, ma fuori del grande raccordo anulare, lasciando le case di Trastevere o della Suburra o del Tridente a turisti di passaggio, artisti sedicenti, professionisti di buona retribuzione e di manica larga. Quella Roma e quei romani si sentivano forse sotto assedio a casa propria, ma con la cinica consapevolezza che sarebbe bastato un turno di valzer nel cambiare connotati e accenti dei potenti di passaggio. Ed è proprio Verdone, nelle vesti di Romano, autore di teatro frustrato e fallito, protagonista del campionario di profili umani che hanno popolato «La Grande Bellezza», a spiegare controcorrente il successo dell’Oscar: «È stato bravo Sorrentino a scavare dentro questa Roma e a far vedere che sotto è sepolta la grande bellezza». Roba da archeologia turistica e artistica. Perché sopra, in superficie, «Romafaschifo» come sintetizza da qualche anno il blog omonimo che raccoglie e documenta storie di ordinario degrado capitolino.
Insomma il senso di novità dei mali di Roma deriva dal fatto che non è più possibile prendersela con qualcuno. Il potere è svanito. E il potere è nel Dna di questa città - come ricordava Alberto Sordi nei panni del Marchese del Grillo - e, per converso, negli antigeni dei suoi cittadini. A suo modo il colpo di grazia (sostantivo usato non a caso) l’ha dato Papa Francesco. C’è un vuoto anche nella Santa Sede. Sono rimasti vuoti, fisicamente, gli appartamenti papali nel Palazzo Apostolico, da quando il nuovo Pontefice ha deciso di restare insediato a Santa Marta. Non è un vuoto da poco. È un buco, una metafora dei tanti buchi delle strade romane. Quelli non riempiti dagli stradini, quello simbolico di un’assenza strutturale.
Lo stesso incombente Giubileo rischia di essere una grande «delusione» per la città eterna. Ci saranno i pellegrini, certo, in cammino verso la Porta santa, ma il Papa venuto dall’altro mondo ha tenuto a dire che si possono lucrare i benefici dell’Anno Santo anche altrove. Come dire: venite pure a Roma  ma, se non potete, non è un problema, vanno bene le Cattedrali, le Concattedrali, i Santuari di casa vostra. Una ragione in meno per coprire e tappare i buchi. Anzi una in più per lasciarli.
Per non parlare della politica. Duemila anni sono passati da quando Cesare Augusto disse: «Mi avete dato una città di pietra, io ve la restituisco in marmo». Poteri temporali ne sono passati tanti. Nulla in confronto al suo, terribile e vendicativo, tanto quanto dissimulante con la Pace ottenuta a colpi di spada; ma per restare al potere di casa nostra, nel loro piccolo i piemontesi prima, i fascisti, poi i democristiani, i socialisti e i post-comunisti, una volta conquistata Roma, ne hanno fatto centro di piccoli o grandi poteri.
Amata no, ma rispettata e ambita come preda sì. E una preda, quale Roma, è stata per secoli, dopo essere stata predatrice, non può non essere accudita: i romani, cinicamente, hanno capito che c’era qualcuno che a turno si sarebbe occupato di loro e di Essa. Si sarebbe detto che non era moglie, ma amante. Eccome. Ma oggi che le distinzioni di ruolo (e persino di genere) sono venute meno, anche Roma ne soffre. Perché Roma è una città che vive di teatro. Una messinscena continua. Non un teatro di strada, come quello di Napoli; ma vuole palcoscenico, ribalta, luci e fondali. Teatro con la T maiuscola. Ancora una volta teatro vuol dire ruolo, e il ruolo pretende il potere. Ci risiamo: la grande crisi del potere ha sfiancato Roma. La sta sfiancando. Non è la campagna stampa scatenata dal New York Times o da Le Monde che può ferire Roma. Gigi Proietti nei panni del dietrologo forse ha ragione nel dire: «Pare quasi che qualcuno abbia detto ‘Pronti-via’, dando così la stura al livore anti-romano che la più bella città del mondo si porta dietro, da sempre». Dietrologia che qualcuno spiega con la candidatura alle Olimpiadi del 2024. Altri la indicano come obiettivo sintetico di chi odia l’Occidente, decaduto, decadente, cristiano. Da aggredire. Da azzerare. Isis a parte, nel mondo serpeggia forte un sentimento anti-occidentale e anti-cristiano. Altri ancora, semplicemente per poter sperare di vedere calare i prezzi di una prossima Grecia, da comprare in svendita.
Tutte ragioni comprensibili. Ma allogene. Esterne. Tutte credibili. Ma altrettanto verosimile è questa ipotesi di corrosione dall’interno. In questo scenario il sindaco facente funzioni, Ignazio Marino, non è rilevante. O semplicemente è la persona giusta al posto giusto: il cerimoniere del vuoto; l’agitatore del niente. E in questo, da non romano, trovo anche irrilevante la non romanità del sindaco. E, tra poco, verremo alla non romanità del premier. Quella del Papa conta un po’ di più, ma ci arriviamo. Roma ha sopportato anche un sindaco milanese, Franco Carraro, dal 1989 al 1993. Quattro anni non indimenticabili, alla fine della prima Repubblica.
C’è chi insinua anche che la crisi incipiente della Capitale sia colpa del fiorentino che siede a Palazzo Chigi. E della sua non volontà di far firmare assegni in bianco per ripianare gli 800 e passa milioni di debito del Comune. Forse. Ma non è l’origine del potente di turno ad essere un problema. È la sensazione che stia venendo meno il potere. Una città come Roma a tutto potrebbe abituarsi - e a tutto si è abituata - tranne che ad essere marginalizzata, periferica. La giornalista del New York Times che ha dato la stura all’ultimo attacco alla Capitale ha spiegato che tanto interesse deriva dal fatto che «Roma è del mondo». Da essere del mondo a non essere di nessuno il passo è breve. Essere dei cittadini che la abitano è troppo poco per Roma. La proposta twittata da Alessandro Gassman di ripulire la città da parte degli stessi cittadini - al netto del fastidioso cinguettio di moda - è irricevibile per l’Urbe, prima ancora che per i suoi abitanti. L’hashtag #Romasonoio è quasi una contraddizione in termini. Irricevibile, prima che criticabile.
Per stare in Italia, Milano è cooperativa, nel senso che nasce e cresce come solidarismo civico per il vantaggio di tutti. Per spingersi al mondo, anche New York da città di gang si può scoprire cooperativa di convenienza. A Roma no. La cooperativa al massimo diventa affare. E si è visto di che tipo. Roma è potere, o non è. Giusto? Forse.
Roma accetta di farsi fermare per una settimana e più dalle troupe di 007 perché riconosce il potere del cinema e i vantaggi che gliene derivano. Roma si fa possedere dall’agente segreto di turno, per una, due, sette notti. Gli spilla qualche centinaio, di migliaia di euro per rifare qualche pezzo di asfalto, per cancellare qualche orrendo graffito. Gli affida l’ordine pubblico dal tramonto all’alba. Ne subisce il potere per affermare se stessa. Quando il potere non c’è più, la sfida di Roma è questa: può sopportare qualunque sindaco, purché comandi o purché sia l’uomo del comandante di turno; il caso di Carraro è illuminante, evocando Bettino Craxi.
Ma Ignazio Marino contestato (e nemmeno del tutto) da Matteo Renzi, no. Così si va in tilt. Roma non accetta le vie di mezzo, se non quelle che tracciano il cinismo dei suoi abitanti. Roma è una via di mezzo nell’eterno negoziato del potere. E con il potere. La considerazione vale ancor più per l’ultimo grande potere che risiede a Roma: la Santa Sede. L’Italia da anni vive un ruolo marginale. Ma la sua emarginazione rischia di diventare più acuta da quando il nuovo Pontefice ha ricordato di essere «solo» vescovo di Roma. Da quando ha usato la metafora dell’ospedale da campo per descrivere la Chiesa di oggi. Da quando ha decentrato per il mondo persino l’Anno santo. Per parafrasare l’Espresso di sessant’anni fa Italia emarginata=Roma malata. Irrimediabilmente.   

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