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L’evoluzione della minaccia jihadista

Gilles de Kerchove, responsabile antiterrorismo dell’Unione Europea

Dalla relazione sulla politica dell’informazione per la sicurezza presentata al Parlamento emerge un quadro davvero preoccupante della evoluzione della minaccia terroristica di matrice jihadista, che ha fatto registrare nel 2014 un trend crescente, culminato nel gennaio 2015, nei sanguinari attentati di Parigi. Secondo i Servizi gli eventi francesi evidenziano l’attualità e la concretezza di una minaccia che trova il profilo di maggiore insidiosità nell’estremismo «homegrown», un’area di consenso verso il jihad violento che spesso riflette processi di radicalizzazione individuali ed invisibili. Le numerose operazioni di polizia condotte in Europa e anche in Italia dimostrano come lo spazio comunitario risulti permeabile alle attività di proselitismo e reclutamento di aspiranti mujahidin, incoraggiati ad arruolarsi nelle file jihadiste operanti in Siria e in Iraq e recentemente anche in Libia.
Lo scenario libico può trasformarsi in una minaccia diretta per l’Italia, come piattaforma per proiezioni terroristiche, pericolo per gli approvvigionamenti energici, snodo per l’immigrazione clandestina. Per l’Italia, sottolineano i Servizi, la Libia è un teatro di assoluta importanza per cui è apprezzabile l’impegno a sostegno e in armonia con l’azione delle Nazioni Unite a scongiurare la frammentazione e a sostenere un processo politico di transizione inclusivo nel quale possano pacificamente e democraticamente riconoscersi tutte le componenti di quel popolo.
Altrettanto preoccupante è il fenomeno dei «foreign fighters» che in quest’ultimo anno ha assunto dimensioni del tutto inedite. Al riguardo, si richiama la Risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite n. 2178, approvata il 24 settembre 2014, che evidenzia la crescente minaccia rappresentata dai combattenti stranieri associati alle organizzazioni terroristiche dell’Isis e di Jabhat al Nusrah ed altri gruppi affiliati o ispirati ad al Qaida, sottolineando l’importanza della prevenzione nell’attività di contrasto all’estremismo violento e, in particolare, della sensibilizzazione delle comunità maggiormente esposte alla radicalizzazione ed al possibile reclutamento di nuovi combattenti da impiegare nei teatri di crisi.
Gli Stati membri sono chiamati a predisporre ed attuare specifiche normative volte ad impedire che cittadini o stranieri stabilmente presenti, ovvero in transito sul territorio dello Stato, possano lasciare il Paese al fine di compiere atti di terrorismo; raccogliere fondi per finanziare i viaggi dei foreign fighters; offrire supporto logistico/organizzativo agli spostamenti dei combattenti diretti verso quei teatri di guerra.
Nella relazione si richiama, inoltre, il Memorandum de L’Aja-Marrakech sulle buone prassi per una risposta più efficace al fenomeno dei «foreign terrorist fighters», adottato in seno al Global Counter Terrorism Forum il 23 settembre 2014 che individua nei seguenti quattro campi d’azione i principali ambiti su cui concentrare l’attenzione a livello internazionale per rafforzare il contrasto al fenomeno dei combattenti stranieri: estremismo violento; reclutamento e instradamento; capacità dei terroristi di viaggiare e loro expertise bellica; reducismo.
A livello europeo, si sottolinea che il Consiglio dell’Ue, riunito nel formato Giustizia e Affari interni il 4 e 5 dicembre del 2014, muovendo dal Rapporto annuale sull’implementazione della Strategia Ue antiterrorismo predisposto da Gilles de Kerchove, coordinatore europeo per la lotta al terrorismo, in tema di «foreign fighters» si è focalizzato su due settori chiave: l’aggiornamento del quadro normativo e il rafforzamento della «information sharing». Apprezzabile in questo contesto, la richiamata proposta della Presidenza di turno italiana di adottare specifiche iniziative quali, ad esempio, la costituzione, in partenariato con l’Europol, di un network di punti di contatto sui «foreign fighters».
In ambito G7, ove il contrasto al terrorismo internazionale è oggetto di costanti sforzi a livello politico e diplomatico, soprattutto per il tramite del Gruppo Roma-Lione, si richiama la dichiarazione congiunta dei ministri degli Esteri a conclusione della riunione del 25 settembre scorso, nella quale si è espressa particolare preoccupazione per la brutale violenza perpetrata dallo Stato islamico (IS), da contrastare con un approccio omnicomprensivo che tenga soprattutto conto del massiccio flusso di combattenti stranieri e delle ingenti risorse finanziarie di cui dispone tale organizzazione terroristica.
Stando ai dati in possesso dell’Intelligence sono almeno tremila i mujahidin partiti dalla sola Europa, di cui 500 provenienti dalla regione balcanica, dove operano diverse filiere di arruolamento dei volontari. La regione balcanica è sempre stata un punto nodale per il radicalismo di matrice islamica, in virtù dell’incessante attivismo di individui e gruppi estremisti di orientamento salafita, sempre più coinvolti nel reclutamento e nel trasferimento di jihadisti in territorio siriano ed iracheno. Particolarmente attivi sono alcuni gruppi presenti in Albania, Bosnia-Erzegovina, Kosovo, Montenegro e Serbia, che ruotano attorno a leader perlopiù bosniaci e di etnia albanese.
La condivisione del know-how operativo acquisito sul campo, unitamente alla rafforzata rete di conoscenze e contatti, potrebbe accentuare, secondo i Servizi, il pericolo rappresentato da quella indefinibile percentuale di reduci che, sulla spinta di una forte motivazione ideologica intendano compiere atti terroristici sul suolo occidentale, autonomamente o su input delle organizzazioni terroristiche a cui si sono associati. Nell’ottica di tali formazioni, i «foreign fighters» di origine europea presentano, del resto, il profilo tatticamente più pagante grazie alla elevata capacità di mimetizzazione, alla facilità di spostamento all’interno dello spazio Schengen, agli utili contatti di base in Europa che fungono da «trait d’union» con i gruppi armati attivi nei territori siro-iracheni.
Per quanto riguarda l’Italia, secondo la nostra Intelligence, la specifica minaccia deve essere valutata non solo per gli sporadici casi nazionali, ma anche e soprattutto tenendo presente l’eventualità di un «ripiegamento» sul nostro territorio di estremisti partiti per la Siria da altri Paesi europei, anche in ragione delle relazioni sviluppate sul campo tra militanti di varia nazionalità. Il nostro Paese resta sempre un potenziale obiettivo di attacchi pure per la sua valenza simbolica di epicentro della cristianità evocata, di fatto, dai reiterati richiami alla conquista di Roma presenti nella propaganda jihadista.
Criticità all’interno dei nostri confini possono derivare, altresì, dal fermento manifestato dalla diaspora turco-curda presente in Italia e, in particolare, dal segmento di simpatizzanti del PKK turco, per le incursioni delle milizie jihadiste nei territori curdi in Iraq e Siria. La tensione emotiva sembra, infatti, destinata a crescere soprattutto a seguito dell’appello lanciato dal leader storico Öcalan - da tempo detenuto in un carcere di massima sicurezza turco - per una mobilitazione di massa contro lo Stato Islamico. In questo contesto, non può escludersi che in ritorsione alla resistenza opposta dai militanti curdi all’avanzata dei terroristi in Siria e in Iraq, esponenti della comunità curda nazionale possano subire provocazioni e aggressioni da parte di simpatizzanti del gruppo terrorista islamico.
L’intervento militare della coalizione internazionale in Siria ed in Iraq, avviato nel settembre scorso, ha offerto, infatti, nuovi spunti alla propaganda jihadista, focalizzata a far convergere le forze jihadiste in un’azione comune contro «gli invasori», attraverso un’incalzante pressione intimidatoria nei confronti dei Paesi considerati «nemici». Significativi, a questo proposito sono: l’appello all’unità sottoscritto a metà settembre da al Qaida nel Maghreb Islamico (Aqmi) e dall’organizzazione Aqap (Al-Qaeda in the Arabian Peninsula), che hanno offerto all’IS una sorta di patto di alleanza contro la diabolica coalizione; il messaggio audio diffuso on-line il 21 settembre, nel quale il portavoce dell’IS al Adnani esorta i mujahidin sparsi nel mondo, soprattutto nei Paesi occidentali, a colpire gli infedeli con qualunque mezzo disponibile; il messaggio minatorio antioccidentale postato in rete a fine settembre dal leader di Jabhat al Nusrah, Abu Mohammad al Julani; il video diffuso in novembre dalla casa di produzione dello Stato Islamico, al Hayat (intitolato «What are you waiting for?») nel quale tre combattenti francesi, dopo aver bruciato i propri passaporti, esortano i connazionali ad attivarsi; il numero 13 della rivista Inspire del 24 dicembre, curata da Aqap, nella quale si incitano all’azione i musulmani residenti nei Paesi europei; il numero 6 di Dabiq, periodico ufficiale dell’IS, diffuso il 28 dicembre, che in esordio si rivolge ai potenziali «lupi solitari» presenti in Europa.
La richiamata praticabilità di azioni terroristiche con gli strumenti offensivi più disparati (armi da fuoco e da taglio, ordigni fai da te, veleno, «car jihad», vale a dire autovetture lanciate contro il bersaglio, etc.), rappresenta di per sé un moltiplicatore del rischio, che accentua la possibilità di azioni anche emulative, da parte di soggetti più permeabili al messaggio radicale.
Si moltiplicano i segnali di cooptazione ideologica di aspiranti mujahidin, attratti da un «progetto politico» nuovo e pervasivo, che si è concretizzato nella «proclamazione» del califfato da parte di al Baghdadi e che ha visto il terrorismo «farsi Stato», coniugando l’attività di tipo asimmetrico con l’intervento militare condotto con l’impiego di un esercito «irregolare» e di un armamento pesante finalizzato alla conquista e al controllo del territorio.
Ciò è stato possibile anche a causa delle ingenti risorse finanziarie di cui dispone lo Stato islamico, senza precedenti nel panorama del terrorismo internazionale, provenienti soprattutto dall’azione predatoria ed estorsiva esercitata sulle aree controllate, dal contrabbando di greggio e dal commercio clandestino di reperti archeologici, capaci di assicurare, tra l’altro, compensi, logistica ed un equipaggiamento di prim’ordine alle proprie reclute. Il tutto, accompagnato da una sofisticata strategia di comunicazione e propaganda, testimoniata da una copiosa produzione multimediale che spazia, come si è visto, dal magazine al video-messaggio.
A queste finalità risponde anche la diffusione on-line delle immagini che testimoniano le efferatezze compiute sul campo siro-iracheno, funzionale ad accreditare il ruolo-guida dello Stato Islamico contro i miscredenti, promuovendo ed alimentando una jihad combattente che associa pratiche militari a tecniche di guerriglia ed azioni suicide e che non manca di coltivare forme avanzate di cyberterrorismo.   

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