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LETTERE AL DIRETTORE - EUGENIO BENEDETTI: DISINFORMAZIONE, UNA PIAGA ODIERNA

Eugenio Benedetti

A Victor Ciuffa, direttore di Specchio Economico Roma, novembre 2012
Caro Victor, sì, c’ero anch’io quella sera del 5 novembre 1958 al Rugantino, alla festa di Olghina di Robilant, quando lo spogliarello danzato da Aichè Nanà sulle giacche dei nobili romani stese a terra segnò l’inizio di quella «Dolce Vita minuto per minuto», da te così battezzata, sulle cronache della vita mondana, di cui tu eri il brillante Sacerdote. Da allora, chissà quante volte ci siamo incrociati senza saperlo e senza conoscerci, ma stavolta, vedendoti giungere appoggiato al tuo aristocratico bastone, al concerto dei miei «Cantòri napoletani», nel cuore della foresta di Soriano nel Cimino, per il battesimo del campanone della mia «ricostruita» abbazia di Sant’Egidio (miracolo dell’anastilòsi o sogno inseguito da una vita e infine realizzato?), stavolta voglio dialogare un po’ con te, anche a rischio che queste mie confidenze finiscano sulle pagine del tuo mirabile «Specchio Economico». E vorrei puntare il dito sulla piaga della disinformazione, che è uno dei tanti problemi dell’Italia di oggi, per cui gli italiani non si riconoscono più come il popolo che seppe dominare il mondo, cui Roma donò il Diritto: In dubio pro reo, Neminem laedere, Recte vivere, Suum cuique tribuere, Solve et repete. Al pretore romano in semplice tunica bianca, si inchinavano i re barbari ingioiellati e impennacchiati di manti variopinti, dalla Bretagna all’Arabia, dalla Mauritana all’Armenia; e la Lex Romana ovunque assicurava pace e rispetto. Ho vissuto quarant’anni oltre le cosiddette «Cortine» di ferro e di bambù, ed ho portato i macchinari italiani a costruire, negli anni Sessanta, la strada del Karakorum, da Gilgit a Kashgar, operando ai 5 mila metri del Passo Khunjerab, là ove l’acqua bolle a cinquanta gradi, e noi dovevamo far uscire l’asfalto bollente dai tamburi d’acciaio della Marini di Ravenna. Io ho equipaggiato con i cardiografi e gli encefalografi dell’Ote di Firenze la navicella di Gagarin, che al rientro dal suo volo nello spazio mi disse: «Grazie a te, l’Italia di Galileo e di Leonardo ha dato il proprio contributo al primo volo cosmico dell’Uomo». E quella sera dell’aprile 1961 io cenai col «Figlio del Pianeta Terra» nella Casa dei Pionieri di Mosca, e Nikita Kruscev era con noi, ed io ero l’unico italiano a partecipare a quella festa che ha marcato l’inizio di una nuova era nella storia. Kruscev mi conferì la medaglia di eroe dell’Urss, che per molti anni è stata coperta dal segreto di Stato. Ho equipaggiato gli elicotteri con a bordo le apparecchiature aerofotogrammetriche della Galileo-Santoni e dell’Omi-Nistri che nel lontano 1978 eseguirono i rilievi cartografici di mappatura delle montagne in Afghanistan, individuando, con gli spettrofotometri nucleari, montagne di metalli a cielo aperto, milioni di tonnellate di ferro, rame, nichel, piriti aurifere e minerali radioattivi, cassaforte del mondo di domani. E i cinesi oggi si stanno assicurando giganteschi contratti di sfruttamento di quei giacimenti. Potrei svelarti tante cose da me fatte, non sbandierate, ma non ne ho voglia perché non sono esibizionista e amo vivere tranquillo. Perché, se raccontassi la vera storia di quel gigantesco lavaggio di danaro sporco che accompagnò la messa all’asta del patrimonio dell’impero sovietico, forse accorcerei quei pochi anni che mi restano da vivere in santa pace. Ma consentimi, caro Ciuffa, di spezzare una lancia sul problema dell’omertà che non è tanto il segno distintivo della mafia, quanto l’abito mentale della politica italiana. Te lo dico io, da siciliano doc, che considero la vecchia mafia come una società di mutuo soccorso, nata per «assicurare» dai soprusi i nostri emigranti dell’Ottocento, quei poveri lazzaroni analfabeti e cenciosi che in apparenza assomigliavano agli immigrati dell’odierna feccia balcanica, ma che, a differenza da essi, volevano solo lavorare e produrre. E seppero «costruire l’America». Ebbene, l’omertà è un vizio della politica italiana, come l’invidia è il nostro sport nazionale, ed è di antica data perché sommerge persino il ricordo di tante storie la cui memoria dovrebbe sempre esser tenuta viva. Chi ricorda oggi lo scandalo della Banca Romana di Sconto, solo quando il capo del Governo Giovanni Giolitti, dopo la sua strana «fuga a Berlino» (per incontrare Bismarck in segreto?), comprese che il peso di quell’enorme massa di cambiali, firmate da 22 illustri uomini politici tra cui Francesco Crispi, stava per compromettere la credibilità del Parlamento, e persino far tremare il trono sabaudo? Dinanzi alla prospettiva di rivelare i destinatari dei prestiti elargiti dal governatore della Banca Romana Bernardo Tanlongo con il coinvolgimento di Umberto II fortemente indebitato con la stessa, sulla base di una colossale falsificazione valutaria pari a 50 milioni di lire dell’epoca stampate «in doppio», il processo penale fu archiviato: tutti assolti, nessun colpevole. Dopo 120 anni, nulla appare cambiato in Italia, i processi per le stragi degli anni Settanta si sono conclusi all’italiana, e tutti continuano a ricattare tutti, in nome dei supremi interessi della Patria. E che dire dell’oro della Hambros Bank in cui Vittorio Emanuele III convertì la tangente pagatagli dall’Anglo American Bank sotto forma di azioni, in cambio dell’impegno a non trivellare i giacimenti petroliferi di cui nei primi anni Venti si conoscevano perfettamente l’esistenza e la dislocazione nella Marmarica libica? Giacomo Matteotti si accingeva a denunziare il «fattaccio» allorché gli fu chiusa la bocca dai sicari di Benito Mussolini, ma lo stesso Duce era ben al corrente del tesoretto di Sua Maestà, ben investito a Londra, che fu poi congelato dagli eventi bellici, ma infine restituito ai Savoia alla fine della guerra. Sono fatti innegabili, caro Ciuffa, poiché Palmiro Togliatti, appena nominato ministro della Giustizia, promosse invano due giudizi, in primo e in secondo grado, innanzi ai Tribunali britannici, per ottenere che quel tesoretto non fosse dichiarato bene privato dei Savoia, ma potesse essere ricondotto in Italia, come ex proprietà della Corona, di legittima rivendicazione della Repubblica. Vogliamo cercare, caro Ciuffa, quelle due sentenze consecutive con cui la Giustizia inglese respinse i ricorsi presentati dal Governo italiano? Altre cose vorrei e potrei narrarti, ma chi mi ascolterebbe? Chi credi che leggerà questa mia lettera, se tu ardirai pubblicarla? Lasciami allora chiudere con l’additare alla vergogna quelle Banche, quelle grandi, grandissime Banche che celano le perdite causate dalle loro speculazioni sbagliate nell’Est, ed ora riempiono i loro forzieri con i miliardi, le decine di miliardi di euro che la Banca Centrale Europea fornisce loro a tasso pressoché zero. Ma che si guardano bene dall’iniettare liquidità nel sistema economico di quelle piccole e medie imprese che stanno morendo strangolate dal «credit crunch». È il vizio italiano, la disinformazione - o l’omertà? -, per cui nessuno ha il coraggio di dire che le grandi, grandissime Banche nulla hanno da temere, poiché detengono nelle loro mani i C.D.S., i Credit Default Swaps, quelle famigerate polizze di assicurazione contro i fallimenti grazie alle quali esse sarebbero totalmente esenti e indenni da qualsiasi default, largamente coperto da una serie di riassicurazioni. Quanti italiani sono al corrente di questo meccanismo? Esso consente ai grandi Fondi di compiere gigantesche speculazioni al ribasso, vendendo a piene mani titoli delle aziende pubbliche o private declassate dai rating che le spingono così a fallire, essendosi però riassicurati e coperti contro questo stesso rischio, mentre le assicurazioni si sono a loro volta contro-assicurate. Così nessuno subirà la conseguenza di un default, salvo a ricomprare gli stessi titoli quando toccheranno il fondo, e così superlucrarne il profitto emergente. Gli italiani non sanno che le grandi, le grandissime Banche hanno investito e perduto miliardi di finanziamenti concessi alle Banche dell’Europa Orientale? Mentre le Banche tedesche hanno comprato le fabbriche degli ex Stati socialisti, gettando così le fondamenta del loro Terzo Reich? Dimmi perché, caro Ciuffa, gli italiani non devono sapere il motivo per il quale le azioni dell’Unicredit il mese scorso sono scese dal valore di 13 euro ad appena un euro cadauna. Si tratta forse degli stessi motivi di realpolitik per cui sono scomparse le agende di Paolo Borsellino e di Carlo Alberto Dalla Chiesa? E il «tracciato radar» della rotta dell’aereo dell’Itavia abbattuto, non si sa da chi, nel cielo di Ustica? Le cartelle dei documenti segreti di Mussolini sequestrate a Dongo e finite non si sa dove? E perché Umberto II fu costretto ad abdicare senza aspettare il responso della Corte Costituzionale? E così via a non finire, fino alla confessione di chi nel 1977 lasciò evadere, rinchiuso in una valigia, il boia Herbert Kappler dall’Ospedale militare romano del Celio, mentre la Germania negoziava il maxiprestito «salva Italia» con il pegno dell’oro della Banca d’ Italia? Quante coincidenze e quanti misteri, caro Ciuffa. Poco prima di morire Mario Scelba confidò: «Salvatore Giuliano era la pistola puntata dagli Stati Uniti alla tempia dell’Italia. Tutte le volte che il presidente degli Usa Harrry Truman non era d’accordo con Alcide De Gasperi, Giuliano ucciderà tre carabinieri». Ma non si è fatta ancora luce sulla strage di Portella della Ginestra o sui retroscena dell’assassinio di Aldo Moro, della morte di Michele Sindona, di Roberto Calvi, di Enrico Mattei. E fermiamoci qui. «Oportet ut scandala eveniant», è la filosofia della nostra Santa Chiesa apostolica e davvero romana. Ma non credi anche tu che la misura sia ormai colma?
Eugenio Benedetti

Caro Eugenio, la vita ci ha insegnato che, quando la misura è colma, qui si ricomincia subito a riempirne un’altra. Non ci resta che aspettare il ritorno degli «antichi» Romani. Che sembrano ormai vicini. Cari saluti. Victor Ciuffa

Tags: Novembre 2012 Victor Ciuffa Savoia Dolce Vita

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