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accoglienza e sicurezza inscindibili. ma come coniugarli?

GIUSTO SCIACCHITANO procuratore nazionale  antimafia aggiunto

L'accoglienza dei migranti e la sicurezza generale dei Paesi dove essi si dirigono o risiedono, sono diventati negli ultimi tempi una rilevante questione politica, soprattutto dopo le tragedie nel Mediterraneo e le stragi di Parigi. I due aspetti sono in realtà inscindibili, perché uno Stato moderno deve ben bilanciare la sicurezza del singolo e della collettività, dare attuazione agli accordi internazionali sul diritto del mare, sull’obbligo giuridico e morale di soccorrere chi è in pericolo di naufragio, sul diritto di asilo, ma anche sul diritto dei cittadini del proprio Paese di vivere senza minacce conseguenti all’accoglienza.
Negli ultimi anni le migrazioni hanno assunto dimensioni bibliche, e come non si possono bloccare gli eventi naturali (lo tsunami), così non è possibile fermare questo fenomeno umano. Prima degli eventi bellici in Siria, la migrazione aveva fondamentalmente carattere economico. Persone, nella maggior parte dei casi, partivano per trovare in altri Paesi condizioni di vita migliori di quelle lasciate nel Paese d’origine; per la stessa motivazione economica uomini e donne venivano spinti o invogliati a un lungo viaggio da trafficanti di uomini che prospettavano loro una vita migliore, mentre in realtà poi li costringevano alla prostituzione o al lavoro coatto in una situazione di nuova schiavitù. Relativamente minore era il numero di coloro che fuggivano dal loro Paese a causa della guerra.
Già quella situazione era grave, anche perché non si riusciva ad ottenere collaborazione dai Paesi di origine o transito né riguardo all’azione politica ed economica da intraprendere per arginare questa migrazione, né per combattere i trafficanti che lucravano sui risparmi dei migranti rimanendo sostanzialmente impuniti. Vi era quindi, già allora, la difficoltà a bilanciare il rapporto tra accoglienza e sicurezza, atteso l’obbligo di soccorrere chi è in pericolo in mare e l’impossibilità di una accoglienza generale non regolamentata.
Con gli eventi bellici e il terrorismo la situazione è notevolmente peggiorata. Le popolazioni fuggono da Siria, Iraq, Libia, Corno d’Africa a causa della guerra, o perché inseguite da organizzazioni terroristiche che vogliono annientarle a causa della loro diversa etnia, religione o altro. È così aumentata la richiesta di asilo nel Paese di prima accoglienza che, per i migranti via mare, è l’Italia. Contemporaneamente si è aggravata la minaccia terroristica in Europa, ad opera di chi era già cittadino europeo di seconda o terza generazione.
Non sfugge che, nel mondo, oggi dobbiamo fronteggiare tre sfide globali: terrorismo, criminalità organizzata, economia, che riguardano aspetti e materie diverse, ognuna con specifiche peculiarità, ma aventi punti di contatto tra loro, che è compito della società civile individuare e arginare; tutte e tre sono connesse con il fenomeno della migrazione, nella dimensione che oggi lo caratterizza. La realtà qui esaminata è contemporaneamente causa ed effetto di quelle forti mutazioni politiche cui assistiamo: gli Stati si separano o addirittura si sfaldano, i popoli si dividono ed essi, come le persone singole, sono affetti dall’incomunicabilità, nascono e crescono nuove realtà politiche, sociali e talvolta anche religiose come in Africa e America latina, il contrasto religioso è tornato ad essere virulento, il dialogo sembra cessato.
Alle tre sfide globali, sia pure circoscritte al fenomeno della migrazione, la società civile è in grado di dare una risposta globale? La risposta è ovviamente negativa. Dopo la strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013, il Papa e il Presidente della Repubblica stigmatizzarono quell’avvenimento bollandolo come «vergogna». E in realtà di vergogna si trattava, come ancora di vergogna si tratta allorché queste stesse stragi si ripetono. Certo la vergogna accomunava, e accomuna, tutti i Paesi e le Organizzazioni internazionali interessati ad affrontare il fenomeno migrazione; ma la domanda è: siamo sempre al punto di partenza nell’affrontare questi fenomeni epocali, e a quali principi occorre ispirarci per realizzare nuove e più concrete iniziative?
Bisogna riconoscere che le Organizzazioni internazionali - Onu, Osce, Ue - sono sempre state impegnate ad emanare risoluzioni, a predisporre convenzioni per contrastare il terrorismo e la criminalità organizzata. Soprattutto l’Ue è sempre molto attiva a richiedere ai Paesi membri una legislazione più adeguata, in campo sociale e penale, per assicurare alla giustizia i trafficanti e offrire assistenza alle vittime. Ciononostante, va osservato che molto spesso queste convenzioni e risoluzioni non trovano applicazione da parte dei Paesi firmatari, e le organizzazioni promotrici non hanno la possibilità di intervenire; non vi è cioè, in molti Paesi, la volontà politica di affrontare con la necessaria risolutezza la questione proposta.
All’Unione europea, però, può avanzarsi un altro rilievo. È evidente che il contrasto al traffico di migranti non può esaurirsi nel ristretto ambito europeo, essendo essenziale volgere lo sguardo oltre i confini europei, verso i Paesi di origine e transito, per ottenere da essi concreta collaborazione nell’interrompere il traffico e perseguire i trafficanti. Tutto ciò non avviene; ma l’Ue continua ad emanare norme valevoli al proprio interno, e non ha svolto un’azione politica comune verso i Paesi terzi: si pensi al grande traffico di persone proveniente dalla Nigeria, verso la quale è risultato finora vano l’intervento di singoli Paesi europei, Italia compresa.
La stessa Europa è ancora incapace a porsi il problema di verificare se gli accordi internazionali stipulati in passato - uno su tutti l’accordo di Dublino sui richiedenti asilo - siano ancora attuali e adeguati ad affrontare le nuove realtà sociali e giuridiche che si impongono con forza ineludibile, o non sia giunto il momento di una totale revisione di tali accordi. Anche i singoli Paesi europei non hanno sempre agito con la dovuta chiarezza in materia e comunque - salvo poche eccezioni tra le quali l’Italia - non hanno assunto concrete iniziative per la tutela e l’assistenza delle vittime. L’Italia, che pure tanto ha fatto e fa, sia nel campo penale che in quello sociale, contro i trafficanti e in favore delle vittime, ha puntato forse troppo nella richiesta all’Ue di partecipare al soccorso in mare e al risarcimento economico per le spese connesse al salvataggio dei migranti, che non a richiedere, con la dovuta forza, il cambiamento degli Accordi sopra ricordati non più rispondenti alla mutata realtà.
Si è appena accennato alla mancata applicazione dei principi delle convenzioni (basti pensare alla convenzione Onu contro la criminalità organizzata, cosiddetta convenzione di Palermo) da parte di Paesi d’origine e transito dei migranti; la domanda che a questo proposito sorge riguarda i motivi profondi di tale inadempimento, ossia se esso dipende da una temporanea incapacità, anche per motivi economici o altro, o se, invece, dipende da un metodo culturale e ideologico alla stessa convenzione che ne rende impossibile l’applicazione. In Nigeria, a maggioranza musulmana, è stato infatti osservato che quei principi, che riguardano anche il contrasto alle nuove forme di schiavitù e al traffico di migranti, sono per loro estranei e ritenuti una nuova forma di colonialismo culturale.
E in realtà oggi nel mondo si confrontano tradizioni culturali e antropologiche del tutto diverse tra loro, tra la cultura occidentale e le diverse culture dell’Asia, dell’Africa, dell’Islam, ponendosi così in discussione i nostri stessi principi, che riteniamo universali, ossia se essi sono davvero tali o se invece non hanno lo stesso valore in altre culture.
Qui si innestano tutti i problemi sorti dal terrorismo soprattutto di matrice islamica che, in tante parti dell’Africa e dell’Asia, e addirittura all’interno dei nostri stessi Paesi europei, sembra avere minato e cancellato l’antica cultura di convivenza anche tra persone di religione o etnia diversa, ma che sempre avevano vissuto nella stessa regione, e ci pone davanti al vitale problema se i valori e diritti umani da noi riconosciuti, siano davvero riferibili alla natura della persona umana, o se siano invece soltanto riferibili ad una determinata cultura o tradizione.
Ci dobbiamo ancora porre la domanda se le scelte compiute da molti Paesi occidentali per regolamentare la nuova realtà del multiculturalismo, sono state quelle idonee per armonizzare le diverse culture di popolazioni che si sono trasferite, nel tempo, nei loro territori, o invece hanno mancato tale obiettivo. Certamente la recente strage di Parigi, come quelle precedenti di Londra e Madrid, fa riflettere sulle scelte politiche compiute per ottenere una convivenza civile e duratura fra persone di etnia e religione diversa.
Qualche intellettuale del Medio Oriente sostiene che lo sguardo dell’Occidente è troppo impegnato nell’economia per prendersi il tempo di capire davvero il retroterra storico e culturale di quell’area; è come se la cultura occidentale fosse arrivata ad un tale punto di completezza da pensare che altri universi siano inutili. Ma già Benedetto XVI, nei suoi discorsi su religione e ragione, osservava che in realtà quello che va sotto il nome di interculturalismo sembra, in vaste proporzioni, mettere in discussione la razionalità occidentale in quanto non più adeguata a riferirsi anche ad altre culture.
Tutti sosteniamo con vigore la necessità di un dialogo sempre più ampio e approfondito; il dialogo però necessita di due interlocutori, altrimenti si configura un monologo che non è accettato anzi respinto. Il dialogo, a sua volta, richiede cultura. Certamente l’arretratezza economica e culturale è sempre terreno di coltura di ogni violenza: sia di criminalità organizzata che di terrorismo; è allora questo il campo su cui intervenire.
All’indomani della strage di Parigi, quasi tutte le autorità, nazionali e internazionali, hanno sottolineato la necessità di assicurare maggior sicurezza ai cittadini e approntare maggiori finanziamenti per realizzare un più soddisfacente inserimento degli immigrati nei nostri Paesi: tutto questo è assolutamente giusto e necessario. Credo però che non sia sufficiente, anche se proprio questo aspetto richiede tempi lunghi e una specie di rivoluzione culturale. L’obiettivo deve essere quello di allargare l’ambito di applicazione dei diritti umani; che essi non vengano percepiti come forma di colonialismo culturale; che la cultura islamica non si limiti a dichiarare che gli attuali fatti di terrorismo compiuti da musulmani sono in contrasto con il Corano, ma si spinga a spiegare perché sono in contrasto. Quest’ultimo tipo di intervento, che implica una interpretazione del loro Libro sacro diversa da quella enunciata dagli estremisti, forse non è ancora ampiamente divulgato tra gli stessi musulmani, ma è quello che meglio di ogni altro potrebbe innescare un circolo virtuoso per superare anacronistici steccati.
Molto possono compiere in questa direzione la cultura e la politica occidentale; debbono essere consapevoli che, se limitano i loro interventi alla sicurezza e all’aspetto economico, rimarrà sempre nell’universo islamico la separatezza e la diversa validità dei valori a cui qui ci si è riferiti.   

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