Terrorismo: roma nel mirino dei jihadisti?
A lanciare l’allarme è stato il ministro dell’Interno in persona, Angelino Alfano, con un’informativa urgente al Parlamento, nel settembre scorso, sul tema del terrorismo internazionale di matrice religiosa: Roma è nel mirino dei jihadisti dell’Islamic State (IS), una formazione terroristica di matrice sunnita, nota anche con la sigla Isis (acronimo di Stato islamico dell’Iraq e della Siria), guidata da Abu Bakr al Baghdadi, stella nascente del fondamentalismo islamico, che combatte nella guerra civile in Siria contro il presidente sciita Bashar Al Assad e che ha assunto il controllo di parti rilevanti del territorio siriano e iracheno, dichiarando la nascita di un califfato autonomo, amministrato secondo i dettami della Sharia.
Nata nel 2003 dopo la caduta di Saddam Hussein, prese dapprima il nome di Al Qaeda in Iraq (Aqi), successivamente quello di SI (Stato Islamico dell’Iraq), divenendo in quel Paese il braccio armato di Al Qaeda, dalla quale poi è stata espulsa per i metodi di lotta che praticava nei confronti delle altre formazioni di matrice sunnita. Si tratta di un’organizzazione molto particolare, che non ha precedenti nel terrorismo internazionale, con un’attività essenzialmente terroristica ma anche militare, nel senso tradizionale del termine; un’organizzazione spietata, che teorizza una guerra totale e interna allo stesso Islam, oltre che contro l’Occidente, con il proposito di annientare ogni minoranza etnico-religiosa.
In Siria ha cercato di sottomettere anche altri gruppi jihadisti come Jabhat al-Nusra, che rappresenta Al Qaeda nel Paese, dando vita ad una lotta aperta fra le diverse forze jihadiste in campo, sfruttando la guerra tra ribelli e governativi per reclutare militanti e rafforzare il proprio ruolo. I suoi metodi particolarmente violenti e brutali, contrari ad ogni principio di umanità, l’hanno resa famosa nel mondo. Basti pensare alle decapitazioni dei giornalisti statunitensi, James Foley e Steven Sotloff, e dell’operatore umanitario britannico David Haines, pubblicizzate attraverso video-shock diffusi in rete.
La pericolosità di tale organizzazione è stata stigmatizzata dal presidente Barack Obama, che ha definito l’Isis «un cancro da estirpare». A sua volta il primo ministro inglese David Cameron, in una intervista al Sunday Telegraph, ha affermato che l’Isis può arrivare a colpire le strade di Londra, se non verrà fatto nulla per fermare Abu Bakr al Baghdad. Il quale, in uno dei suoi discorsi e specificamente in un recente audio-messaggio diffuso in rete da siti jihadisti, non ha esitato ad evocare Roma come obiettivo della guerra santa.
Anche se alcuni analisti ritengono che la città eterna, culla della cristianità, di cui si vagheggia la conquista («conquisteremo Roma e il mondo intero») sia stata evocata con riferimento al suo valore simbolico, cioè in ragione della sua importanza millenaria nella storia del continente europeo e dell’intera civiltà occidentale, piuttosto che come concreto luogo fisico, è bene non sottovalutare l’episodio minimizzando e dando alle parole di Al Baghdadi un significato esclusivamente metaforico. Questo perché si deve considerare la platea a cui egli si rivolge e il rischio che menti deboli e facilmente influenzabili possano lasciarsi suggestionare dai suoi messaggi, interpretandoli alla lettera.
Ulteriori elementi di rischio riguardano, poi, la posizione internazionale del nostro Paese e la sua politica estera. Fin dagli attentati dell’11 settembre 2001 negli Usa, ha ricordato Alfano, l’Italia non ha mai fatto mancare il proprio appoggio alla lotta contro il terrorismo internazionale, schierandosi fra i Paesi maggiormente impegnati su questo fronte. Nessuna sottovalutazione, dunque, anche se al momento non si registrano evidenze investigative su concreti progetti terroristici nel nostro Paese da parte dell’Isis.
Sta di fatto che sui muri della capitale sono apparsi slogan e scritte in arabo che inneggiano ai guerrieri di Allah, con accanto il disegno della bandiera dell’Isis, divenuta ormai un’icona del terrore. Gli investigatori sono al lavoro per decifrare la matrice e identificare gli autori di quelle scritte: un’attività investigativa a largo raggio che riguarda anche altre città italiane e che non tralascia alcun segnale. L’attività di prevenzione e contrasto, insieme all’attività di intelligence, si è indirizzata principalmente verso il monitoraggio dell’estremismo islamico con particolare riguardo al fenomeno dei «foreign fighters» e a quello del reducismo.
Non v’è dubbio che l’Isis, a differenza di altri gruppi terroristici che combattono in Iraq e in Siria, abbia un grande «appeal» tra i giovani stranieri, spesso occidentali: tutti neo-musulmani convertitisi alla jihad e che attualmente, secondo una recente stima, sono almeno tremila, di cui 2.300 circa provenienti da Paesi dell’Europa, tra cui l’Italia che è interessata al fenomeno dei foreign fighters, sia pure in misura minore. Tale fenomeno, formato da quei giovani estremisti islamici, spesso appartenenti alla seconda generazione di immigrati, che, pur non avendo nazionalità siriana o irachena, generalmente dopo un periodo di auto-indottrinamento decidono di raggiungere i teatri bellici per unirsi ai combattimenti, ha infatti registrato un notevole impulso, proprio in seguito alla partecipazione dell’Isis alla guerra civile in Siria e dell’abile strategia comunicativa esercitata sul web.
Finora nell’esodo verso la Siria risultano coinvolte 48 persone collegate a vario titolo al nostro Paese, di cui 2 di nazionalità italiana, una delle quali era il 24enne genovese Giuliano Delnevo, convertitosi all’Islam e deceduto in combattimento nei pressi di Aleppo nel giugno dello scorso anno, mentre l’altra persona è un giovane marocchino naturalizzato che si trova attualmente in un altro Paese europeo.
Parimenti preoccupante è il fenomeno del reducismo, ossia il rientro dei combattenti dai teatri di guerra nei Paesi di provenienza. È fondato supporre che in questi reduci possa farsi strada la volontà di continuare l’attività jihadista nei Paesi in cui fanno ritorno, dando vita a una sorta di prosecuzione del conflitto in una forma diversa, attraverso uno stillicidio di attentati, secondo una strategia che viene definita «dei mille tagli», intesa come lento dissanguamento del nemico. Un riscontro oggettivo a questa ipotesi è già venuto dalla strage nel Museo ebraico di Bruxelles, compiuta nel maggio scorso proprio da un ex combattente nelle file dello Stato Islamico, e cioè il francese Mehdi Nemmouche, che è stato trovato in possesso della bandiera nera dell’Isis.
Questo specifico aspetto del reducismo riporta a ciò che venne diagnosticato dai nostri Servizi segreti già nel 2009, allorquando, nella relazione al Parlamento di quell’anno, venne indicata tra i principali fattori di rischio l’improvvisa accensione di cellule jihadiste dormienti, ossia di singole persone che, pur non facendo parte di associazioni terroristiche strutturate, sarebbero state pronte a risvegliarsi e a realizzare attentati aderendo al richiamo della jihad globale. Anche nel 2012 i Servizi misero in luce la pericolosità del fenomeno dei reduci, illustrando il caso dell’estremista franco-algerino Mohamed Merah radicalizzatosi in Pakistan e Afghanistan, il quale quell’anno eseguì una serie di attentati nelle città di Tolosa e Mantauban.
Altro dato preoccupante è rappresentato dal web che costituisce un mezzo potente di propagazione della minaccia costituita dall’Isis per il mondo occidentale. La capacità diffusiva della rete, anche se non è un fatto nuovo, costringe infatti a fare i conti con la dimensione pervasiva e di massa che ha assunto il fenomeno della cooptazione e del reclutamento attraverso internet, nel quale il contatto con l’aspirante jihadista non richiede né strutture né articolazioni organizzative complesse.
Sicché la minaccia pare assumere una «consistenza liquida», nella quale il dato strutturale dell’associazione criminale volta al compimento di atti di terrorismo in Italia o all’estero finisce con l’essere quasi surrogato dalla vastità immateriale della rete. Di qui la necessità di rafforzare gli strumenti normativi in materia di terrorismo per affrontare con più efficacia questo grave e insidioso fenomeno, elaborando nuove norme che tengano conto dell’evoluzione della minaccia medesima.
La proposta fatta dal ministro Alfano è quella di rendere sempre possibile contestare il delitto di partecipazione a conflitti armati o ad atti di terrorismo che si svolgano fuori dai nostri confini, anche quando il responsabile corrisponda alla nota figura del «lupo solitario», cioè non risulti appartenere ad alcuna associazione di stampo terroristico né abbia svolto il ruolo di reclutatore, ipotesi quest’ultima già prevista e punita dall’articolo 240-quater del codice penale.
Altra proposta è quella di includere tale soggetto tra quelli cui è possibile applicare la sorveglianza speciale con obbligo di dimora, vanificando così sul nascere il tentativo di recarsi nei teatri di guerra, sottoponendo l’aspirante terrorista a uno stretto controllo di polizia e applicando nei suoi confronti tutta quella serie di misure accessorie che lo priverebbero, di fatto, di ogni libertà di movimento.
Resta sempre in piedi il progetto di costituire una squadra multinazionale dedicata al fenomeno dei combattenti stranieri per favorire la cooperazione operativa, già accolto positivamente dal coordinatore europeo per la lotta al terrorismo Gilles de Kerchove, e che è attualmente in discussione nei gruppi tecnici del Consiglio e in particolare nel Police Working Group on Terrorism. L’obiettivo è quello di una più stretta cooperazione giudiziaria e di polizia anche attraverso il potenziamento degli strumenti di segnalazione degli spostamenti in tutta l’Unione Europea e lo sviluppo di un sistema basato sull’adozione del Passenger Name Record, un codice di prenotazione funzionale all’attività di monitoraggio che va comunque rafforzata.
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