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GIORNALISTI: DIRITTO ALLE FERIE O DIRITTO AL LAVORO?

L’opinione del Corrierista

I giornalisti hanno il diritto di godere delle ferie come tutti gli altri lavoratori? L’ovvia risposta è: certamente sì. Ma hanno anche il diritto di rinunciarvi, previo un determinato pagamento? La risposta a questo secondo quesito non è invece affatto ovvia. O, almeno, non è ovvia di questi tempi, anzi è abbastanza complicata e difficile. Un tempo era semplicissima ma negli anni tutto si è mistificato, anche questa professione che non solo è stata inflazionata, ma è stata soprattutto omogeneizzata con altre: perfino con quelle un tempo sinonimo di inconcludenza, inerzia, pigrizia, assenteismo. È stato sempre normalissimo - spesso anche a torto -, indicare in certi uffici pubblici il ricettacolo di lavativi, scansafatiche, vagabondi, infingardi, disonesti.
Sulle ferie e in generale sul riposo dei giornalisti assistiamo perfino a dotte disquisizioni di pseudo-esperti che pontificano nelle facoltà di Scienze della Comunicazione e nei corsi di giornalismo, ma che non hanno mai messo piede in una redazione, non sanno come si fa un giornale, non concepiscono per quale motivo in altri tempi si intraprendeva questa professione. Che non era certo la prospettiva o piuttosto l’attuale illusione di diventare famosi istrioni della televisione, instancabili ripetitori di indovinelli, mielosi incensatori di scollacciate divette.
Delle vacanze dei giornalisti l’anno scorso si è interessata addirittura la Corte di Giustizia europea, perché oggi i politici e i burocrati europei pretendono di occuparsi di tutto, di disciplinare l’universo: oltreché per giustificare le loro prebende, lo fanno apparentemente per uniformare la legislazione nell’ambito dell’Unione europea, ma nella sostanza per mantenere diverse le condizioni economiche e sociali nei Paesi partner, proteggendo quelli più ricchi dalla concorrenza dei meno dotati, conservando ai primi vantaggi e privilegi e impedendo agli altri di raggiungerli.
E questo non avviene solo nel mondo del giornalismo ma in tutti i campi: specialmente nel centro-sud d’Italia non si lavorerebbe, la disoccupazione aumenterebbe, i redditi calerebbero se dovessero applicarsi alla lettera le direttive dell’Unione europea sulle condizioni e sulle modalità delle prestazioni lavorative. Traggo un esempio dal mondo poligrafico. In molte tipografie gli operai non indossano gli elmetti obbligatori, che sono invece posti in bella mostra, ben allineati, in prossimità delle rotative. Se si chiede ai direttori o ai gestori il motivo del loro mancato uso, ci si sente sibillinamente rispondere: “Ma lei vuole che si stampino i giornali oppure no?” “Che cosa intende dire?” “Che con l’elmetto il lavoro è più faticoso, i movimenti sono più lenti e impacciati, i tempi di stampa più lunghi, i costi maggiori, le entrate insufficienti. Lo stabilimento chiude” “Ma allora perché li tenete così in bella mostra?” “Per il caso che arrivi l’ispettore del lavoro”.
Secondo la Corte di Giustizia, la normativa europea sull’orario di lavoro è chiara: l’editore non può versare mese per mese nel corso dell’anno, oltre alla busta paga, un’indennità diretta a sostituire la retribuzione per le ferie annuali cui il giornalista rinuncerà; non è ammesso lo scambio tra la retribuzione e le ferie annuali in quanto ai lavoratori è dovuto un periodo minimo di riposo retribuito di almeno quattro settimane annue; il relativo compenso deve essere erogato in modo distinto e a ridosso dell’effettivo periodo di riposo; il pagamento delle ferie a titolo di indennità è ammesso solo alla fine del rapporto di lavoro.
Chi ha intrapreso e ha svolto o svolge la professione di giornalista per passione, per amore di questo mestiere - e non per fare denaro e carriere in altri campi, entrare in Parlamento, diventare rapidamente un manager o una diva -, assiste con tristezza a queste elucubrazioni valide a degradare ulteriormente quella che fu una nobilissima professione basata sull’impegno, il sacrificio, la fatica, l’umiltà e spesso, anzi nella stragrande maggioranza dei casi, nell’anonimità. Perché ad ogni dieci “firme” corrispondono almeno cento oscuri redattori.
Ma di chi è la colpa se anche il giornalista oggi è considerato, o meglio si fa considerare, un tradizionale mezzemaniche del Catasto o un portantino della Asl? La stessa categoria dovrebbe compiere un esame di coscienza, verificare l’azione del proprio sindacato, a cominciare dai comitati di redazione. Io ne ho conosciuto uno, - dal quale non mi sono mai fatto rappresentare - di cui ad oltre un quarto di secolo di distanza qualcuno, dello stesso colore politico, ne loda le gesta: quello degli anni bui del Corriere della Sera, a cavallo del 1980.
All’epoca più o meno tutti i giornalisti del Corriere avevano qualche giorno di ferie arretrate - chi 10, chi 20, chi 30 -, che prima o poi l’azienda avrebbe dovuto retribuire per un importo complessivo, considerati i circa 300 giornalisti dipendenti, di alcuni miliardi. Il comitato di redazione, che in quell’epoca si era sostituito a una sfortunata proprietà nella gestione politica del giornale, si arrogò anche la gestione finanziaria: propose alla redazione di farsi liquidare le ferie arretrate per un importo pari al 70 per cento della retribuzione cui aveva diritto, e senza alcun pagamento di interessi e rivalutazione per ritardato pagamento. Un regalo clamoroso all’azienda, senza alcuna contropartita tranne la riconoscenza al comitato di redazione.
Avevo ben 655 giorni di ferie arretrate, un’enormità dovuta al mio impegno per il Corriere e alla mia passione per il giornalismo. Fui chiamato ad accettare l’accordo sindacale sottoscritto dal comitato di redazione. Rifiutai una mediazione così sfacciatamente sfavorevole ai lavoratori, proposta addirittura dal loro sindacato. Chiesi l’intervento di un notaio per stilare l’atto di donazione che avrei fatto al Corriere della Sera di tutte le mie competenze, alle quali avrei rinunciato. I rappresentanti dell’azienda rimasero sconcertati: “Ma come? La liquidazione delle ferie arretrate non è stata concordata con il suo sindacato?”. “Appunto”, risposi, e considerai chiusa la questione. Nei mesi seguenti liquidarono gli arretrati, per il 70 per cento dell’importo, a tutti i colleghi. Non vi pensai più quando, un anno dopo, fui invitato dall’amministrazione a Milano: “Le abbiamo preparato l’assegno per le sue ferie arretrate”, mi dissero. “Ancora? Ma se vi ho rinunciato?”. “Non è giusto che lei non riceva le sue spettanze, al 100 per cento”, mi risposero. “E grazie del suo grande impegno nel lavoro”.

Tags: Corsera story Corriere della Sera Corrierista giornalisti Novembre 2007

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