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JEAN-PAUL FITOUSSI: LA RIPRESA COMINCIA DAI CONSUMI, NON DALL’AUSTERITÀ DI POCHI

Professore di Economia all’Istituto di Studi politici di Parigi dove insegna dal 1982 e del cui comitato scientifico è presidente, Jean-Paul Fitoussi dirige l’Osservatorio francese per la congiuntura economica. Cominciata la carriera accademica nell’Università di Strasburgo, ha insegnato nell’Istituto Europeo di Firenze, nell’Università di Los Angeles, nella Scuola Normale Superiore di Parigi. Divenuto membro del consiglio economico del primo ministro francese e membro della Commissione economica della nazione francese, ha collaborato come esperto economico nel Parlamento europeo, ha presieduto il Consiglio economico della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo. Autore di numerose pubblicazioni, è articolista economico dei maggiori giornali francesi e stranieri. È specializzato nelle teorie sull’inflazione, la disoccupazione, il commercio con l’estero, il ruolo della politica macroeconomica. Le sue valutazioni, spesso critiche nei riguardi delle politiche economiche seguite da alcuni Stati, compresa la Banca Centrale Europea, prima o poi si dimostrano lungimiranti e gli procurano il riconoscimento di economisti e politici e, soprattutto, sono confermate dai successivi avvenimenti che inevitabilmente finiscono per registrarsi nel mondo dell’economia.

Domanda. A che punto sono, nel superamento della crisi, le economie dei cinque principali Paesi d’Europa: Germania, Francia, Inghilterra, Spagna e Italia?

Risposta. Direi che sono in un momento di grande incertezza perché, se pure si è registrata una ripresa tecnica dovuta, dopo l’aggiustamento verso il basso della produzione dovuta alla crisi, alla ricostituzione delle scorte da parte delle aziende, in questo momento e più esattamente dal secondo trimestre 2010, sembra che la crescita sia diventata più evanescente, più morbida. Bisogna notare che siamo in un momento in cui sono ancora attivi piani governativi per il rilancio dell’economia. Per cui, se pensiamo che tutta l’Europa e in particolar modo i cinque Paesi citati hanno deciso di praticare l’austerità, notiamo che nel 2011, ormai alle porte, esiste una grande incertezza nell’individuazione dei possibili motori della ripresa. Infatti i consumi sono notevolmente bassi e gli investimenti sono deboli. In tale situazione è logico chiedersi da dove può venire la crescita.

D. Che cosa ha fatto l’Unione Europea per contrastare la crisi?

R. In un primo momento l’Europa ha praticato una politica espansionista come le altre regioni del mondo. Questo momento è dietro di noi. Adesso l’Europa aspetta la crescita dall’aumento delle esportazioni, ed è questa la ragione per cui ha deciso di attuare un piano generale di austerità. Ma il problema è che le altre regioni del mondo reagiscono a una strategia di questo tipo, e l’hanno dimostrato con l’indebolimento delle loro monete. Supponiamo che le esportazioni possano costituire un fattore di crescita; questo sarebbe possibile solamente se gli altri Paesi accettano passivamente tale strategia. Ma non è il caso e l’apprezzamento dell’euro ne è una testimonianza. Di fatto è la strategia europea che è all’origine della guerra delle monete. Tra i cinque Paesi citati ve ne è solo uno che può affrontare la guerra della moneta, l’Inghilterra, che non partecipa all’euro. Non possono farla né la Francia, né l’Italia e la Spagna, ma neppure la Germania, perché fanno parte della cosiddetta euro-zona. Il solo modo per i Paesi di Eurolandia di evitare tale guerra è di avere politiche espansioniste.

D. Quale di questi cinque Governi dell’Unione si è mosso più rapidamente ed efficacemente?

R. Nel secondo trimestre del 2010 la Germania ha registrato una crescita molto robusta, dovuta sia alla ripresa mondiale in atto, sia alla sua capacità di esportazione. Ma, se si ricorre un po’ all’aritmetica, si comprende il problema attuale: se aumentano le esportazioni di un Paese, non possono aumentare anche quelle degli altri. Per cui siamo in un periodo di incertezza sia per questo fattore, sia anche e soprattutto perché è sta cambiando l’atteggiamento davanti alla crisi. Nel primo periodo, infatti, dinanzi alla crisi sono state attuate politiche basate sulla cooperazione; tutti i Paesi hanno fatto fronte comune sia nella politica budgetaria sia in quella monetaria; ma la seconda fase, attualmente in atto, è molto diversa, perché ogni Paese cerca di uscire dalla crisi aumentando la propria competitività, e questo riduce la cooperazione e induce ogni Paese a pensare e ad agire da sé. Il risultato è che, dinanzi a uno shock comune, si abbandonano le strategie comuni. Questo è il vero problema della situazione attuale.

D. Che cosa occorre fare, allora?

R. O lasciamo che nell’Europa dell’euro-zona la quotazione dell’euro continui ad aumentare, ed allora non si può sapere da dove possa venire la crescita; o diciamo finalmente che non è più tempo di applicare una politica di austerità generalizzata. Ma quest’ultima non è la strada che stiamo seguendo, perché ormai l’austerità è stata decisa anche a livello parlamentare e dunque essa continuerà. In questa situazione può cavarsela un grande Paese europeo come la Germania, perché ha il vantaggio delle esportazioni che non dipendono soltanto dai prezzi. Ma questo avviene a spese degli altri Paesi.

D. La ripresa in atto in Germania non può avere l’effetto di trascinare le economie degli altri Paesi?

R. Se tale ripresa, dipendente dalle esportazioni, viene seguita da un aumento della domanda interna, potrà innescarsi un «effetto locomotiva» negli altri Paesi. L’aumento della domanda interna comporta, infatti, un aumento delle importazioni, ma non possiamo prevedere se questo avverrà e quando avverrà. Sappiamo solo che, se la crescita in Germania è sostanziosa, a un certo punto si assisterà a un aumento della domanda interna, dei consumi e delle importazioni. Ma il primo effetto di una ripresa tedesca basata sul surplus delle partite correnti è negativo per l’economia degli altri Paesi, perché comporta un aumento del disavanzo delle loro partite correnti e questo contribuisce negativamente alla loro crescita.

D. Quanto può influire sulla ripresa l’aumento della domanda interna?

R. Siamo in una situazione in cui la crescita dovrebbe dipendere proprio da essa; se facciamo qualcosa affinché si riprenda, si riavvierà anche il commercio internazionale, perché la domanda interna fa crescere le importazioni e quindi anche le esportazioni. Ma la crisi non è oggi affrontata da questo versante, bensì da quello opposto. Al momento sappiamo anche che gli Stati Uniti non possono più essere i consumatori di ultima istanza di un tempo, perché anche loro hanno bisogno di ridurre il disavanzo delle loro partite correnti.

D. Che ruolo hanno in questo processo i Paesi emergenti?

R. Teoricamente si potrebbe contare su un considerevole aumento delle esportazioni verso i Paesi emergenti, nei quali si prevede un progressivo aumento dei consumi e quindi della domanda. Ma la realtà è diversa, perché anche questi Paesi hanno la necessità di esportare. Siamo dunque in una situazione di impossibilità aritmetica. Il problema consiste nel fatto che in Europa vengono adottate politiche economiche basate su teorie, non sulla pratica.

D. In che senso, precisamente?

R. In Europa si bada al disavanzo finanziario e al debito pubblico e non alla disoccupazione. Si sa bene che in un contesto di austerità generalizzata la prima spesa che si taglia è quella per gli investimenti pubblici, ossia per quei settori e per quelle attività che potrebbero e dovrebbero aumentare la produttività del Paese e preparare il futuro. Se non si fanno questi investimenti, si fatica a trovare un sistema capace di accrescere la produttività più dinamico dell’attuale.

D. Non possono supplire gli investimenti privati?

R. Il privato non investe, ed è normale che non lo faccia; se non c’è domanda, perché investire? Per accumulare stock di merci invendute? Siamo di fronte alla necessità di coordinare le politiche nazionali, un’operazione che non si compie a livello mondiale ma che era auspicabile si compisse almeno a livello europeo. Ma in Europa si è deciso esattamente il contrario, ognuno fa pulizia nella propria casa senza considerare i guasti che questo tipo di politica può avere sugli altri Paesi.

D. C’è pericolo di un riaccendersi dell’inflazione?

R. Il pericolo non è l’inflazione, che al momento è ferma; è la deflazione. Anche le banche centrali finalmente l’hanno capito. La FED, per esempio, ha detto: «Sarebbe bello se potessimo promettere un’inflazione futura, ma non è possibile in un tempo di incertezza così forte; i giapponesi hanno provato ad attuare una politica espansiva, ma senza risultato. Non sono riusciti a sottrarsi alla deflazione; da più di dieci anni sono ancora nella stessa situazione perché, se si cade nella deflazione, è difficile uscirne».

D. Come si è giunti a tanto?

R. Questo pericolo esiste perché i responsabili non svolgono il loro compito, non adottano le necessarie politiche economiche. Il problema oggi è sapere se la politica monetaria europea deve essere ancora più vicina a quella americana, il che eviterebbe un ulteriore apprezzamento dell’euro. Devo riconoscere che la Banca Centrale Europea ha avuto il coraggio di attuare una politica non convenzionale, acquistando titoli pubblici. C’è sempre una possibilità di uscire da questa crisi che ci fa paura: basta che le banche centrali comprino titoli pubblici per evitare l’aumento dei tassi di interesse. Questa è una possibilità reale, perché mai i tassi di interesse sui titoli pubblici sono stati così bassi come in questo momento, mentre noi ci comportiamo come se fossero molto alti.

D. Perché l’Europa non incoraggia la domanda di beni e prodotti?

R. L’Europa non ha avuto una politica budgetaria molto espansionista per il timore di un aumento del debito pubblico medio dell’euro-zona. Il disavanzo pubblico è dovuto specialmente agli stabilizzatori automatici, al calo delle entrate fiscali dovuto alla crisi e al calo del prodotto interno; oggi il reddito medio europeo pro capite è di 4 punti più basso rispetto a quello del primo trimestre del 2008. Nell’Unione Europea il problema è costituzionale nel senso che le decisioni riguardanti la politica budgetaria devono essere prese all’unanimità per cui è sufficiente un solo Paese per bloccare le politiche comunitarie. Il più grande Paese d’Europa, la Germania, ha deciso che ormai la politica budgetaria deve essere restrittiva, pertanto gli altri Paesi non hanno altra scelta che seguire il patto di stabilità, che oggi si tende a rinforzare aumentando le sanzioni. Facciamo le cose a rovescio per cui, anche se i Paesi europei volessero attuare un’altra politica, non ne hanno la possibilità perché sono ormai legati da trattati che possono essere modificati solo all’unanimità.

D. Quindi ci sarà deflazione?

R. La deflazione non è una certezza ma un pericolo, perché comporta un aumento generalizzato della disoccupazione con conseguenze negative sulla vita democratica. Abbiamo già visto che nei Paesi del nord Europa cresce il potere dei partiti estremisti. Ripercussioni si avranno in campo economico e politico. Un esempio un po’ caricaturale è costituito da un provvedimento in discussione in Gran Bretagna nel quale si è proposto di far lavorare senza retribuzione i disoccupati, un sistema poco democratico che può avere effetti perversi sull’occupazione in generale, perché, in presenza di lavoratori non pagati, anche gli altri finiscono per perdere l’occupazione.

D. È stata utile la crisi?

R. Assistiamo a ritardi incomprensibili. Credevo che la crisi fosse l’occasione per far capire a tutti che il mercato libero è un fantasma, che non funziona come alcuni sostengono. Invece oggi si fa esattamente il contrario, si attua l’austerità perché si ha paura dei mercati e delle agenzie di notazione. Come avviene in Gran Bretagna, si attuano politiche restrittive per aumentare la flessibilità nel mercato del lavoro, dare a questo ancora più potere. Il mercato si è rivelato una macchina piena di disfunzioni.

D. L’economia sommersa salva quella ufficiale?

R. Non si fanno miracoli, l’economia sommersa funziona quando c’è domanda, mentre in questo momento i redditi diminuiscono, la gente ha difficoltà ad alimentarla. In Italia la cassa integrazione guadagni costituisce un ammortizzatore sociale utile in questo periodo, ma se non c’è ripresa, non è sostenibile, vale solo per un breve periodo. Dall’inizio della crisi il Governo italiano ha attuato una politica budgetaria molto cauta, non espansiva, perché il debito pubblico è tra i più alti dei grandi Paesi. Il problema del debito pubblico è esagerato perché gli italiani possiedono un ricco patrimonio. Il patrimonio medio di un italiano supera di oltre nove volte il suo reddito; se si considera la ricchezza globale, si può dire che l’Italia è più ricca della Germania, e che il debito pubblico non costituisce un problema finanziario particolare. Spero che dopo questa crisi dovranno cambiare il modo di governare e le regole del mondo finanziario, ma non sono sicuro che avverrà.

Tags: Unione Europea Fitoussi dicembre 2010

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