Marco Minniti: L’Intelligence antiterroristica ha bisogno di una «CASA» internazionale
Laureatosi in Filosofia, Marco Minniti cominciò la propria carriera politica in Calabria, sua terra d’origine. Deputato nella XIV, XV e XVI Legislatura, fu eletto senatore nella XVII per la Circoscrizione Calabria come capolista del Pd, partito in cui ha svolto negli anni ruoli di primo piano, tra i quali «ministro ombra» dell’Interno e responsabile nazionale per la verifica dell’attuazione del programma del Governo Monti. È stato sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri nel primo Governo D’Alema e sottosegretario con delega ai Servizi per le informazioni e la sicurezza nel secondo Governo D’Alema, coordinatore del Comitato interministeriale per la ricostruzione dei Balcani dopo la crisi del Kosovo, sottosegretario alla Difesa nel secondo Governo Amato, viceministro dell’Interno nel secondo Governo Prodi e sottosegretario alla Presidenza, delegato per la sicurezza nel Governo Letta. Oggi, in questa veste, descrive per i lettori di Specchio Economico l’intelligence italiana e le iniziative da essa avviate per tutelare l’Italia, quindi l’Europa, dal rischio di attacchi terroristici, sempre più prossimi al nostro Paese dopo le vicende di Parigi e Tunisi. Sono di buon auspicio per l’Italia la creazione del Casa, Comitato di analisi strategica antiterrorismo, e l’inserimento nei Servizi Segreti di nuovi talenti, i migliori, reclutati dalle stesse università in cui sono istruiti.
Domanda. Com’è strutturata oggi l’intelligence italiana e quanto si investe in Italia in questo settore?
Risposta. L’intelligence italiana è figlia di una grande riforma varata nel 2007, che poi è stata ulteriormente migliorata in Parlamento con un’altra iniziativa legislativa risalente al 2012. Entrambe sono state attuate con una grande maggioranza parlamentare, ciò significa che oggi disponiamo di leggi che conferiscono all’intelligence una collocazione precisa nella società, che va oltre i confini di un Paese che a volte sembra più diviso di quello che è effettivamente. Queste leggi sono state molto significative perché hanno consentito all’intelligence italiana di affrontare in tempo questioni che in Paesi più importanti del nostro sono state dibattute solo in un secondo momento. Emblematica è la vicenda «Snowden», che ha prodotto una gigantesca turbolenza, innanzitutto negli Stati Uniti e poi nel rapporto con i vari Paesi alleati, una vicenda che ha fatto riflettere molto sul rapporto tra potere e garanzie, che costituiscono un punto cruciale dell’Intelligence moderna. Da questo punto di vista noi abbiamo raggiunto un giusto equilibrio. Lo stesso decreto antiterrorismo ha consentito di apportare un ulteriore miglioramento, rendendo ancora più efficace l’azione dell’intelligence, sempre però nel quadro di quell’equilibrio cui ho accennato.
D. Come si rapportano i vari Servizi Segreti?
R. È necessario - e questo è il punto cruciale -, aumentare la cooperazione internazionale perché, di fronte a una sfida come quella lanciata dall’Is che ha l’ambizione irriducibile di creare un grande Califfato, è necessario costruire un’azione di contrasto che vada oltre i confini nazionali. Un esempio concreto: un evento come l’attacco di Parigi al settimanale satirico Charlie Hebdo, che ha profondamente turbato l’opinione pubblica europea e mondiale, ha rappresentato non solo un attacco terribile alla Francia, ma all’intera Europa.
D. C’è pericolo anche di un attacco all’Italia, e a Roma principalmente?
R. È evidentemente possibile. Non solo non lo sottovalutiamo, ma vi prestiamo la massima attenzione. Noi sappiamo che un fatto, una minaccia, può essere possibile, probabile o in atto. In questo caso siamo di fronte a una minaccia possibile, ma la reazione e la capacità di prevenzione messe in campo sono rapportate a una minaccia in atto, abbiamo cioè stabilito di muoverci come se la minaccia fosse attuale. Quindi c’è il massimo dell’attenzione; per questo è essenziale sviluppare una cooperazione a livello europeo, ma non solo.
D. Esiste questa cooperazione?
R. Sì, la collaborazione c’è, ma va ulteriormente potenziata. Ho un sogno e un obiettivo nella testa. In Italia abbiamo sviluppato un centro, il Comitato di analisi strategica antiterrorismo conosciuto come «Casa». Si tratta di un luogo che tiene insieme tutti i rappresentanti delle forze di polizia e dell’Intelligence, e nel cui interno è stata creata una sorta di «situation room» dove, giorno per giorno, si discute del quadro della minaccia e lo si fa condividendo tutte le informazioni. Il Casa è uno strumento basilare proprio perché, nell’azione di lotta contro il terrorismo, la condivisione delle informazioni rappresenta il centro di un sistema che in tempo reale è in grado di fornire elementi utili e sempre aggiornati. L’obiettivo è che l’Europa possa dotarsi di un «casa europeo», nel quale polizie e Intelligence abbiano una stanza simile alla nostra, per riunirsi e in tempo reale scambiarsi tutte le informazioni utili per combattere il terrorismo.
D. Quindi, ancora non esiste un comitato di analisi strategica antiterrorismo europeo?
R. C’è un’ottima collaborazione che va ulteriormente aumentata, ma un Casa europeo ancora non c’è. Va costruito per gradi, perché sappiamo che l’intelligence costituisce il cuore più profondo degli Stati Nazione.
D. Cosa significa oggi entrare nell’intelligence? E come si può farne parte?
R. Nel mese di aprile, per la prima volta 30 ragazzi selezionati direttamente nelle università italiane entreranno nei Servizi senza passare né dalle Forze armate né da quelle di polizia, e forniranno un consistente ricambio culturale alle agenzie. Questo è stato il risultato di un lavoro straordinario svolto nell’ultimo anno e mezzo con un vero e proprio «Road Show» nelle università italiane. Abbiamo eseguito oltre 15 tappe negli atenei per presentare l’intelligence agli studenti, che hanno risposto in maniera entusiasta, guardando a questo mondo con grande attenzione. Su tale base, attraverso il nostro sito internet, li abbiamo invitati a presentare domanda per far parte dell’Intelligence. Gli studenti frequenteranno una scuola e in base alle loro competenze entreranno a pieno titolo nel mondo dell’Intelligence: si tratta dunque di una rivoluzione copernicana per i Servizi Segreti italiani, che oggi potranno contare sull’assunzione di profili professionali assolutamente nuovi, arricchiti da conoscenza e padronanza delle lingue orientali, dell’arabo, di lauree in ingegneria informatica elevata ai massimi livelli. Abbiamo bisogno di avere, cioè, i migliori talenti, e questi si reclutano nei luoghi di formazione d’eccellenza, che sono costituiti, appunto, dalle università italiane.
D. Tornando alla minaccia del’Is, in che modo il sedicente Stato islamico ha stravolto il quadro del terrorismo?
R. L’Is ha cambiato il quadro della minaccia terroristica perché tiene insieme sia la parte simmetrica, ovvero quella propriamente delle campagne militari, che la parte asimmetrica, più affine al terrorismo in senso proprio. In questo quadro il meccanismo è così rappresentato: sul terreno simmetrico l’Is mette in scena vere e proprie operazioni militari e di occupazione del territorio. In questo caso è necessario contrastarle sullo stesso piano, quello militare appunto. La coalizione internazionale che si è costituita è molto ampia e molto robusta, visto che tiene insieme ben 28 Paesi. Stiamo parlando, quindi, di una cospicua parte del mondo che si è mobilitato. È stato molto importante tenere insieme grandi Paesi occidentali ed arabi per evitare che l’attività dell’Is venisse percepita come «una guerra di religione». Di fatto, accomunare Paesi che hanno orientamenti religiosi profondamente diversi scongiura questo tipo di analisi. Nel momento in cui si cade dentro la logica della guerra di religione, si concede loro un vantaggio perché gli si consente di rappresentare l’intero Islam. Ciò che emerge dalla coalizione, invece, è che non solo l’Is non rappresenta l’Islam, ma è un’interpretazione estrema e inaccettabile dell’Islam che per fortuna oggi viene respinta da gran parte del mondo islamico. La guerra intentata dall’Is non rappresenta neppure una guerra fra civiltà che si contrappongono. Consentire allo Stato islamico di agire in rappresentanza di una civiltà, intesa in senso lato, sarebbe un regalo, dato che non esiste nessuna civiltà nelle decapitazioni, nello schiavizzare le donne, nell’uccidere i bambini o nel costringere adolescenti a diventare boia.
D. Quali sono i loro reali obiettivi?
R. L’obiettivo delineato è la costruzione del «Califfato mondiale», lo «Stato islamico» senza limiti e confini. La paura e il terrore sono gli strumenti principi di questa strategia per indebolire il nemico. Bisogna tenere in mente due cose: in primo luogo, non dobbiamo sottovalutare la minaccia e il nemico che l’Is rappresenta. E poi non bisogna essere meri strumenti della propaganda del terrore. Mostrare e dimostrare potenza garantisce maggiore facilità nel reclutare i propri adepti, ed è per questo che l’Is punta anche sulla capacità di affiliazione dei combattenti che lasciano i Paesi europei per andare a combattere nelle milizie del Califfato. Per contrastare il terrorismo è necessario contrastare la loro produzione comunicativa tesa a creare preoccupazione e angoscia nelle opinioni pubbliche delle grandi democrazie, da loro considerate un punto di debolezza sul quale battere fino al collasso della struttura stessa. L’opinione pubblica per noi rappresenta invece un punto di forza su cui fondare una risposta concreta al terrorismo.
D. Come si inseriscono i «foreign fighters» nel panorama attuale?
R. Il fenomeno dei foreign fighters è particolarmente rilevante. Parte non piccola di questi provengono proprio dal vecchio continente. I foreign fighters svolgono all’interno del Califfato un ruolo niente affatto marginale, occupando postazioni chiave: parliamo di migliaia di combattenti che agiscono sotto le bandiere del Califfato, ma che non hanno nessun rapporto territoriale con esso. Costituiscono la più imponente legione straniera degli ultimi decenni.
D. E la minaccia più propriamente terroristica?
R. Ci troviamo di fronte ad un terrorismo che vede protagonisti singoli o piccoli gruppi. L’abbiamo chiamato «molecolare», nel senso che non c’è una direzione strategica che emana gli ordini, che decide dove e chi colpire, ma soggetti che si attivano autonomamente e che hanno nell’Is un riferimento generale, ne subiscono l’indottrinamento e sono imbevuti nella loro propaganda. Si tratta quindi di un fenomeno che ha alti tassi di spontaneismo e quindi di imprevedibilità. In questa partita conta moltissimo la prevenzione, in sostanza bisogna «prevedere» quello che appare «imprevedibile».
D. A tale proposito come si inserisce la questione libica?
R. Per quanto riguarda la Libia è chiaro che esiste un rapporto con l’Is. Nelle ultime settimane c’è stato sicuramente un salto di qualità della crisi libica, nella quale una situazione già particolarmente drammatica e complessa ha visto un ulteriore elemento di aggravamento proprio a causa dello Stato islamico. Naturalmente è chiaro che l’Is non controlla la Libia. Sicuramente c’è stata un’abile operazione di presa di posizione politica anche attraverso un’attività di propaganda pervasiva. Ha dato la sensazione di poter controllare quel territorio. La verità è che, al momento attuale, lo Stato islamico è presente solo in due città, seppur importanti, come Derna e Sirte ed ha punti di infiltrazione a Tripoli. È chiaro, a questo punto, che più la situazione libica si degrada e più la possibilità che l’Is prenda il controllo di pezzi più grandi è reale. Per questo è importante che il tentativo di riconciliazione nazionale intrapreso dall’Onu abbia successo. L’Italia in queste settimane ha sviluppato un’iniziativa diplomatica a 360 gradi per sostenere tale progetto. Si tratta tuttavia di una lotta contro il tempo: ed è chiaro a tutti che né l’Italia né l’Europa possono consentire il formarsi di una nuova Somalia a poche centinaia di miglia dai propri confini.
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