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giuseppe vegas: politica ed economia per la ripresa, ma soprattutto buon senso

Giuseppe Vegas, presidente della  Commissione Nazionale per le Società e la Borsa

Giuseppe Vegas, milanese, laureato in Giurisprudenza, è stato prima funzionario del Senato, poi parlamentare di Forza Italia e del Popolo della Libertà, quindi sottosegretario e viceministro dell’Economia e delle finanze in vari anni dal 1995 al 2010. Studioso ed esperto di bilanci - è di questi giorni il suo libro «Il bilancio pubblico», edito da Il Mulino -, è stato direttore scientifico della Fondazione Einaudi ed ha al proprio attivo numerosi libri, saggi e articoli. Dal gennaio 2011 è presidente della Consob, Commissione Nazionale per le Società e la Borsa, l’Autorità amministrativa indipendente e dotata di piena autonomia, attiva nella tutela degli investitori e per l’efficienza, la trasparenza e lo sviluppo del mercato mobiliare.
Domanda. Quale ruolo e quali attività svolge oggi la Commissione Nazionale per le Società e la Borsa?
Risposta. La Consob svolge il ruolo e le attività che le sono state attribuite dalla legge, ovviamente adeguandosi costantemente alle mutate condizioni dei tempi e, di conseguenza, dei mercati. L’azione di vigilanza si è oggi dovuta intensificare perché, nel momento in cui sono maggiormente avvertiti gli effetti della crisi economica, è anche logico che il risparmiatore debba essere più tutelato. Infatti, da un lato aumentano le difficoltà per tutti, dall’altro si fanno anche strada le tentazioni di adottare comportamenti meno ortodossi. Consob ha intensificato l’azione di vigilanza con risultati concreti. Ha poi mantenuto una presenza attiva negli organismi internazionali di cui fa parte - Esma, Iosco, Fsb - proprio perché le regole sono sempre più di origine internazionale. Ne consegue che molte delle attività di regolazione dei mercati si svolgono prevalentemente in sedi multilaterali e non più a livello nazionale, anche se poi è proprio in ambito nazionale che vanno emanati i regolamenti attuativi e le norme di dettaglio. Consob svolge anche una terza attività, assolutamente nuova: se si vuole regolare e tutelare il mercato, bisogna che questo ci sia. Per questo, insieme alla Borsa Italiana, al Fondo investimento strategico italiano, alla Cassa Depositi e Prestiti, all’ABI e alle banche, Consob sta operando per far crescere il mercato dei prodotti finanziari, a cominciare da quelli indispensabili per finanziare lo sviluppo delle piccole e medie imprese.
D. Cosa state facendo per questo?
R. Abbiamo approvato un protocollo denominato «Più Borsa» diretto a creare un meccanismo che consenta alle imprese di media dimensione di crescere per fronteggiare la concorrenza internazionale attuata da soggetti esteri molto più grandi di quelli nazionali, ponendosi ad un adeguato livello di competitività. Nella fase attuale la concessione di credito bancario è assai ridotta, perché le banche devono da un lato adeguarsi ai coefficienti patrimoniali richiesti dall’accordo di Basilea 3, dall’altro sono sottoposte all’«Asset quality review» funzionale alla Banking Union, e ad altri condizionamenti. Con minori finanziamenti bancari si rischia di non fare sviluppo. Occorre pertanto trovare in tempi rapidi un meccanismo efficiente che ponga il risparmio direttamente in rapporto con l’economia reale.
D. Quale tipo di meccanismo?
R. Fondi di investimento specializzati, capaci di attrarre capitale da destinare al finanziamento delle medie imprese e se queste saranno in grado, cosa che noi auspichiamo avvenga nel tempo più breve possibile, di portarle verso la Borsa. Anche attraverso la previsione di canali specifici e ad hoc, che consentano di progettare un iter con requisiti ed obblighi ridotti.
D. Com’è cambiata la Consob con la sua presidenza? Lei la guida come politico o come economista, vista la sua esperienza in entrambi i campi?
R. Risponderei semplicemente: come persona di buon senso. Credo infatti che non sia tanto una questione di politica oppure economia. Occorre soprattutto buon senso. Ritengo che quello che si acquisisce in lavori come questo, è soprattutto la consapevolezza degli effetti sulle persone delle decisioni che si adottano. Forse un esasperato tecnicismo non fa considerare questi effetti: si guarda alla bellezza della norma o della decisione, ma poi non ci si rende conto se la gente ne esce più o meno povera. È invece essenziale capire quello che succederà dopo.
D. Come giudica lo stato di salute della nostra economia?
R. È come parlare di un malato serio. Ma, oggi, con le cure dovute, il paziente si sta riprendendo. Bisogna vedere se la ripresa sarà duratura e solida, o se insorgeranno altri problemi. Ma i segnali sono incoraggianti, si nota un risveglio di attenzione soprattutto degli investitori stranieri e di alcuni fondi, principalmente nord-americani, che investono da noi capitali cospicui. Gli stranieri si sono resi conto che l’Europa non è una vecchia signora da buttar via, ma che oggi è in condizioni migliori rispetto ad altre zone del mondo, che hanno invece notevoli problemi da risolvere. Quindi abbiamo questa opportunità; bisogna approfittarne, una volta varate riforme indispensabili e da troppi anni rinviate. Se le riforme non si fanno, anche questa opportunità verrà persa.
D. Quindi la politica del presidente del Consiglio Matteo Renzi sta già dando dei frutti?
R. È presto per dirlo, però il Governo è giovane, ha voglia di fare, sta cercando di fare qualcosa che è stato rinviato per troppi decenni. Ma ne parleremo dopo, non è prudente emettere giudizi in un articolo.
D. La sua ricetta per rilanciare il mercato mobiliare?
R. Occorre ampliare il più possibile il mercato azionario, cioè la Borsa; è un mercato ancora piccolo, ha un valore pari a circa il 30 per cento del prodotto interno, e questo è ancora poco. Il valore è cresciuto un po’ recuperando quanto è stato perso dalla crisi ad oggi, ma non è ancora sufficiente. Non possono crescere solo i valori delle azioni quotate, bisogna ampliare la «torta» e cioè il numero delle società quotate, è ciò che noi cerchiamo di fare è rendere il mercato più «amichevole». Ma per far questo bisogna che la legislazione e il Paese siano attrattivi verso l’estero. L’Italia deve essere un Paese in cui i risparmiatori vengono volentieri a portare i propri capitali, quindi ad investire. Ma se possediamo una legislazione complicata, si determina un effetto «respingente», nel senso che, per esempio, se per ottenere una sentenza di un tribunale civile si devono aspettare dieci anni, l’investimento sia estero sia nazionale finisce per essere disincentivato. E paradossalmente si spingono verso l’estero anche gli stessi italiani.
D. Ritiene conveniente investire in Italia? Sarà più incisiva la vigilanza sul mercato esercitata dalla Consob?
R. Che la vigilanza sia diventata più incisiva è un dato di fatto. Sull’opportunità di investire, oggi i valori sono alquanto bassi, quindi i prezzi sono convenienti e lo vediamo dai molti investimenti anche esteri. In questo attraversiamo una buona fase. Sotto alcuni aspetti, investire oggi è come una scommessa: se il nostro comportamento sarà razionale, è una scommessa che dovrà essere vinta.
D. Non è vero che le nostre leggi favoriscono le scalate internazionali a scapito delle aziende italiane?
R. Non direi. Le scalate internazionali ci sono state perché si sono presentati gli stranieri con i capitali. Si sono poi verificati episodi in cui si è manifestata un’attenzione nazionale verso determinate imprese a rischio di acquisizione, ma poi le cordate italiane hanno deciso di non intervenire finanziariamente e quindi non se ne è fatto nulla.
D. Adesso è in programma una scalata internazionale per l’Alitalia?
R. Non solo per questa impresa. Ma se le imprese italiane non hanno risorse finanziarie sufficienti e arriva una società straniera che investe, che crea occupazione e ricchezza, sia benvenuta. Se, invece qualcuno viene per depredare, la risposta è diversa. Allo stato attuale si assiste ad una presenza straniera che, tranne alcuni casi, non sembra predatoria, ma funzionale. È crollato quel sistema di capitalismo di relazione esistente all’epoca di Enrico Cuccia, nel quale, quando un’impresa incontrava difficoltà, Mediobanca imponeva ai componenti del «salotto buono della finanza» di partecipare al suo finanziamento. Adesso non è più possibile perché la crisi ha creato un contesto diverso, che ha fatto esplodere queste contraddizioni.
D. Era giusta, secondo lei, quella politica di Cuccia? E come mai quelle aziende sono finite così?
R. Era una politica funzionale in un periodo storico che è vicino da un punto di vista temporale, ma lontano un’era geologica dall’attualità. E forse quelle aziende sono cadute perché erano state viziate. Non attribuisco la colpa al periodo; forse allora era giusto fare così, ma il mondo era completamente diverso, l’economia era sostanzialmente chiusa e se si difendevano le imprese nazionali in un ambito interno, tutto sommato andava bene. Non ci si rendeva conto che il mondo stava rapidamente cambiando, e che difendere le imprese nazionali con quei meccanismi, o sostenere l’economia nazionale con il sistema delle svalutazioni monetarie competitive, ad esempio, non sarebbe durato, e soprattutto non avrebbe permesso alle imprese nazionali di modernizzarsi. E questo si è poi puntualmente avverato.
D. Le nostre aziende ormai sono quasi tutte vendute. Come mai noi non compriamo mai all’estero?
R. Qualche cosa all’estero si compra, certo le dimensioni sono diverse. Occorrerebbe più coordinamento, perché la mentalità dell’imprenditore italiano è ancora chiusa e questo sistema non mostra risultati apprezzabili. Faccio un esempio banale: l’ipotesi di aggregare alcuni produttori di Barolo per costituire una società per l’esportazione, si è arenata presto essendo prevalso in alcuni il timore che la neonata società potesse in qualche modo interferire con la logica della concorrenza tradizionale tra produttori di eccellenza e potesse mettere, sostanzialmente, un produttore contro l’altro.
D. Lei parla della diffusione di una mentalità un po’ provinciale?
R. Direi, più che altro, individualista. Il titolare di un’impresa che preferisce gestire al cento per cento una piccola impresa anziché il trenta per cento di una grande impresa, sbaglia, perché l’impresa piccola non dura; bisogna modernizzarsi e avere manager validi e al passo con i tempi. Nell’attuale situazione economica le Borse si stanno aggregando su scala mondiale; il riferimento non è più quello di una Borsa in ogni città, né in ogni singolo Paese. La Borsa italiana, ad esempio, è aggregata con quella di Londra, la borsa di Parigi insieme ad altre si è aggregata con il New York Stock Exchange. Questo perché oggi le Borse devono essere strutture più attrattive, soprattutto verso l’estero. Chi gestisce una Borsa deve cercare imprese che investono, cosa che hanno fatto gli inglesi. Occorrerebbe guardare ai Paesi dall’altra parte dell’Adriatico con cui si potrebbe lavorare, e fare un po’ di scouting.
D. Lei ha parlato di «approccio culturale» nello stimolare l’afflusso del risparmio, che cosa intende dire?
R. Il fatto che i più ricchi imprenditori italiani abbiano imprese mono-personali dimostra una sfiducia nel rapporto tra impresa, comunicazione e condivisione della gestione, necessaria nelle grandi imprese. L’impresa mono-personale ha dei limiti, se non altro fisici. Tuttavia si è visto in casi di quotazioni di imprese che una volta erano personali, che le quotazioni hanno prodotto maggiore conoscibilità nel mondo e maggiore trasparenza dell’impresa. Questo può anche non essere gradito a qualcuno, ma il più delle volte fa sì che l’impresa sia molto più conosciuta e reputata meno rischiosa per gli investitori. Quindi questo è un fattore di crescita. Credo che ciò sia utile anche perché, con la restrizione del credito bancario, se si vuole crescere in qualche modo bisogna affrontare il mercato. E sotto il profilo culturale non nascondo che siamo ancora un po’ indietro.
D. In Italia è diffuso un «allarme banche»: si afferma che non circola più il denaro e che la mancanza di liquidità porta al blocco dell’economia. Si può parlare di una vera «questione bancaria»?
R. È una questione osservabile da due parti: chi chiede denaro in prestito lamenta che le banche non eroghino credito e quindi le accusa di comportarsi male e di operare solo nel proprio interesse; le banche sostengono di essere obbligate, giustamente, ad incrementare i loro requisiti patrimoniali perché la crisi è dipesa dal fatto che esse hanno prestato troppo e il sistema bancario è andato in crisi; tanto che molte banche sono state salvate dai rispettivi Stati. Inoltre gli Stati hanno provveduto ad una regolazione più stretta del mercato, proprio per mostrare a consumatori ed investitori che sono tuttora solide. Per l’Italia forse si è un po’ esagerato perché il sistema bancario era solido rispetto, ad esempio, a quello nord-americano; però è anche necessario che questa maggiore solidità sia visibile, e questo ha comportato alcuni effetti.
D. Può fare qualche esempio?
R. Se le banche devono impiegare le proprie risorse finanziarie per rafforzare il proprio patrimonio, possono prestare di meno, per cui diminuisce la quantità di credito erogato. Le banche non hanno tutti i torti; dall’altra parte è anche vero che il credito richiesto non sempre è buono, possono esservi imprese che lo chiedono ma se le condizioni del mercato e dell’impresa non sono affidabili non sarebbe giustificato concederlo. Quindi la ragione e il torto stanno in entrambe le parti. La questione fondamentale non è «di chi è la colpa», ma il fatto che l’Italia non può più essere un sistema bancocentrico, nel quale lo sviluppo avviene grazie al finanziamento bancario. Oggi non può più essere così, bisogna rivolgersi al mercato.
D. Come si fa a bilanciare quello che è giusto e quello che è errato?
R. Non si può fare un bilanciamento dall’esterno con un atto autoritativo; sono meccanismi che devono aggiustarsi da soli. Il fatto che la Banca centrale abbia adottato politiche di finanziamento un po’ all’americana agevola, ma bisogna stare attenti, perché, se non ben impiegato, il credito potrebbe alimentare un’altra «bolla», le cui conseguenze sarebbero gravi.
D. Si parla tanto dell’euro e del ritorno alla lira. Cosa pensa?
R. Una volta adottato l’euro, il tema del ritorno alla lira non esiste; durante la crisi del 2011-2012 si parlava della possibile uscita dall’euro, ma si è visto che questo è impossibile. Qualcuno ancora ne parla, ma il problema ormai è superato; è come sostenere che un defunto possa resuscitare; chi è morto non resuscita.
D. Secondo lei è stata una scelta giusta adottare una moneta unica?
R. Io ero d’accordo ma, come in tutte le scelte, alcune cose vengono realizzate bene, altre male. La moneta unica da sola non basta, e non a caso adesso si sta procedendo verso l’Unione bancaria cui dovranno seguire altri passi verso l’omogeneizzazione economica. È un passo fondamentale per giungere ad un’area economicamente omogenea. L’euro, è pur vero, ha comportato dei costi, ma questi dipendono anche dal mancato aggiustamento dei singoli Paesi e dai singoli interessi ed egoismi nazionali. I ragazzi di oggi non vedono più nell’Europa i valori che le erano stati attribuiti dai fondatori, cioè il ruolo di area di pace dopo le due guerre mondiali combattute, ma la considerano un fattore limitante il loro tenore di vita. Se anche ciò fosse vero, non è colpa dell’Europa e dell’euro. È colpa di quello che non è stato fatto dopo l’introduzione dell’euro, per adeguarsi alla nuova situazione. A mio parere, nello stato attuale, i costi per tornare indietro, sarebbero talmente devastanti, tanto da doverli assolutamente scongiurare.
D. Non è stata ben venduta la parità della lira rispetto all’euro?
R. All’epoca si è posta la questione della quotazione e delle sue implicazioni, e questo può essere stato possibile. Ma quello che è fatto, è fatto. Allora ci si chiedeva anche se l’euro avrebbe comportato la necessità di un aggiustamento e di un’accelerazione della nostra economia. Questo non è accaduto come lo si pensava. Forse noi italiani avremmo dovuto essere meglio informati sulla materia: nel 1861 fu unificata l’Italia e in quella occasione la lira piemontese fu diffusa dalla legislazione piemontese, ma l’economia dell’Italia del Sud era diversa rispetto a quella del Nord. Per certi versi, le regole non sono state adeguate per consentire all’economia del Sud di svilupparsi adottando la stessa legislazione del Nord. Praticamente si sono create quelle che poi sarebbero diventate le «gabbie salariali» e quindi investire nel Sud è stato ed è troppo costoso. Se continueremo ad essere il Sud dell’Europa e ad avere meccanismi troppo costosi, non saremo in grado di competere. E ciò non dipende dal costo del lavoro ma soprattutto dall’entità e dal ritmo del processo di liberalizzazione.
D. Cosa diverrebbe lo Stato se tutto fosse liberalizzato? Se ogni azienda diventasse privata, dove starebbe il potere dello Stato?
R. Lo Stato deve tornare ai suoi «fondamentali»; deve badare alla difesa dall’esterno, deve offrire i servizi fondamentali, non a tutti, ma a chi non è in grado di pagarli, inoltre deve garantire la sicurezza del territorio. Lo Stato ha circa quattro milioni di dipendenti pubblici. In un diverso sistema, molti di essi potrebbero trovare maggiori soddisfazioni, anche economiche, nel settore privato.
D. Cosa ci riserverà il mercato?
R. Dovrebbe riservare una maggiore possibilità di scelta sia agli investitori sia ai risparmiatori, a condizione che sia aperto, competitivo e soprattutto che si crei in Europa un’area economica omogenea, perché l’area europea economicamente è molto estesa, ma è divisa e non funziona. Quando c’è la concorrenza bisogna affrontare situazioni di diversa dimensione e di diverso peso, bisogna essere più omogenei, perché non si può gareggiare a piedi con chi va in auto.
D. Cos’altro vuole dire?
R. Che occorre grande attenzione per i risparmiatori. Quello che va potenziato, e non solo da noi, è l’educazione del risparmiatore. Occorre attenzione perché il risparmiatore/consumatore è abituato a comprare un etto di prosciutto e a sapere di cosa è fatto, quale soddisfazione può dare, quanto può costare. Mentre i prodotti finanziari sono più complicati, il risparmiatore/investitore fatica a sapere come sono composti, e pensa semplicemente che la propria soddisfazione debba essere analoga a quella che offre l’acquisto di un qualsiasi altro bene materiale. In realtà il prodotto finanziario può offrire una soddisfazione variabile. Allora bisogna stare attenti, perché, quando esso offre la prospettiva di un guadagno molto più elevato rispetto agli altri, probabilmente incorpora un rischio più elevato. Fino a dieci anni fa si pensava che le banche non potessero fallire, che l’economia potesse continuare a crescere, che tutto sarebbe andato bene, e forse questo era giustificabile. Adesso si è capito che le banche possono fallire, che anche gli Stati possono fallire, andare in default, e probabilmente c’è in tutti un po’ di attenzione in più.
D. Cosa si fa per ottenere che la gente capisca quello che lei ha detto?
R. Stiamo promuovendo, insieme alle associazioni dei consumatori, una consistente opera di diffusione dell’educazione finanziaria. Fra breve esporremo nel nostro sito anche l’illustrazione di come funzionano certi meccanismi; a Torino esiste, per esempio, il «Museo del Risparmio», con il quale abbiamo contatti e che spiega le regole base dell’investimento. È un lavoro non facile, però essenziale.
D. Quali sono i suoi programmi futuri, cosa ha in mente di fare?
R. In Consob continueremo a fare quello che abbiamo sempre fatto, e mi sembra che tutto sommato lo facciamo decorosamente. Abbiamo anche intrapreso qualche iniziativa «forte». Siamo stati criticati quando abbiamo convocato per la prima volta le società di rating che, secondo noi, si comportavano male, mentre poi l’Autorità di regolamentazione europea ci ha dato ragione. Ci siamo occupati di «contrattazione ad alta frequenza» (HFT-high frequency trading), evidenziandone il rischio, perché, quando non interviene la mente dell’uomo ma la macchina, il pericolo è quello di aumentare le perdite. Anche l’iniziativa per rilanciare il sistema borsistico e ampliare il mercato credo rivesta un certo interesse; ovviamente non è un’operazione che basta solo avviare, bisogna continuare a lavorarci. Si tratta di un obiettivo da conquistare giorno per giorno.   

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