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FAUSTO CERETI: ALITALIA, LUNGA TELENOVELA CON UN TRISTE FINALE

Fausto Cereti

Quando dovevo iscrivermi all’università, mi domandavo se era possibile scegliere una disciplina che mi desse la possibilità di essere remunerato per svolgere un’attività che mi appassionasse; ho avuto la fortuna di vivere in un settore e di esercitare una professione che, sotto questo profilo, mi ha offerto grandi soddisfazioni: sono riuscito ad andare in pensione, dopo 48 anni e mezzo di lavoro, meravigliato che mi pagassero ancora lo stipendio, e ho continuato ad avere ancora delle soddisfazioni». Sono parole che rivelano l’esperienza e la saggezza di un grande manager del settore pubblico italiano, di uno dei protagonisti di quell’intensa stagione di sviluppo dell’industria pubblica che in pochi decenni portò l’Italia, uscita distrutta dalla guerra, a figurare tra i primi Paesi più sviluppati del mondo. Fausto Cereti non è in pensione: ora è presidente Assaereo, l’associazione aderente a Confindustria che raggruppa e rappresenta le compagnie aeree operanti in Italia. Laureato in Ingegneria aeronautica, cominciò l’attività professionale nel 1954 nella Fiat Avio. Nel 1969 passò nel settore pubblico, ad Aeritalia del Gruppo Iri in qualità di direttore generale e, successivamente, di amministratore delegato; nel 1990, in seguito alla fusione tra Aeritalia e Selenia e alla nascita dell’Alenia, assunse la presidenza di quest’ultima, fino ad essere nominato, nel 1996, presidente Alitalia, carica tenuta fino al 2003, ossia fino a quando la compagnia aerea è stata sconvolta dagli avvenimenti che hanno imposto la sua capitolazione come «compagnia di bandiera italiana» e la sua vendita all’Air France. In questa intervista l’ing. Cereti illustra le principali cause che, non essendo state prontamente affrontate e rimosse dai responsabili politici, hanno ridotto in gravi difficoltà l’azienda, nonché gli errori compiuti dagli stessi che ne hanno accelerato la fine e portato alla triste conclusione.

Domanda. Erano proprio necessarie la privatizzazione e la vendita dell’Alitalia?
Risposta. Le privatizzazioni non andrebbero mai annunciate prima; e quando si annunciano, vanno subito realizzate altrimenti si mobilitano tante forze negative. Quella di Alitalia non era un’opzione ma una necessità, e il fatto di non averla compiuta nel momento opportuno le ha fatto perdere l’accordo con la KLM, che è uscita da esso accampando pretesti, anche se poi questi si sono rivelati infondati tanto che essa ha dovuto pagare all’Alitalia una penale di 250 milioni di dollari.

D. Per quale motivo è uscita?
R. Per tre ragioni. La prima, difficile da valutare, consiste nel fatto che in Olanda il potere nelle aziende si conserva imbrigliando i giovani nei consigli di amministrazione attraverso la cooptazione. Il top management KLM temeva che i giovani manager approfittassero del caos esistente nel nostro sistema per fare carriera; nelle loro aziende si avanzava solo per la fedeltà al capo. Da una ricerca che avevamo commissionato a psicologi ed esperti di formazione era emerso che gli italiani avevano più potenziale, ma gli olandesi erano più formati e più produttivi nell’affrontare il mercato, per cui i loro «quadri» avevano capito che dalla fusione poteva nascere un potere, e questo ha spaventato l’establishment olandese.

D. Il secondo motivo?
R. Gli olandesi avevano capito che, se rompevano l’alleanza con noi e ne uscivano senza colpe o addirittura per colpa nostra, avrebbero portato via all’Alitalia, come è stato, almeno un terzo, se non la metà dei nostri passeggeri a lungo raggio, perché avevano la possibilità di seguirli in modo più efficace. Ricordo che, recandomi in Australia con un aereo KLM, la capo-cabina olandese mi disse: «Peccato questa rottura, ci stavamo abituando ai vostri passeggeri così gentili ed educati, non come i nostri». KLM, infatti, ha una forte capacità commerciale ma un mercato a clientela di secondo livello; gestisce i passeggeri come fossero di seconda classe, il che ora avviene per l’Air France che ha comprato il pacchetto azionario della compagnia olandese in cambio di denari o di azioni Air France. Il Governo olandese ha il 7-8 per cento, quello francese il 18 per cento, per cui chi comanda è quest’ultimo, che però si è impegnato a rispettare per 40 anni la quota di mercato di KLM.

D. Il terzo motivo della rottura?
R. Il loro amministratore delegato, persona molto in gamba, riteneva che la British Airways fosse disposta a compiere una fusione nella quale KLM avrebbe avuto più potere che con Alitalia, e che l’operazione sarebbe stata più facile. Giudicava la compagnia italiana un partner non affidabile anche a causa della cattiva gestione dell’hub di Malpensa, dovuta alla pretesa dell’amministrazione comunale di Milano di avere passeggeri sia in questo aeroporto sia in quello di Linate, per vendere meglio le azioni della società di gestione, la Sea, di proprietà del Comune. Quando Malpensa fu aperto e l’Alitalia decise un aumento di capitale, la banca inglese consulente finanziaria del Comune mi chiese se garantivamo i voli a Malpensa; risposi di sì, a condizione che l’aeroporto di Linate venisse chiuso o il suo traffico molto ridotto; la banca precisò di aver fatto presente al sindaco che, con Linate in funzione, Malpensa non aveva futuro e pertanto la SEA valeva meno. Ma il sindaco, proprietario di una fabbrica meccanica di 200 operai, aveva la mentalità del piccolo imprenditore e non lo capiva: riteneva che avere due fabbriche fosse meglio che averne una.

D. Quale il motivo più fondato?
R. I primi due avvelenarono a poco a poco l’ambiente, il terzo fu determinante tanto che abbiamo ottenuto il pagamento della penale perché, durante l’arbitrato instauratosi per risolvere la controversia e nel quale ci scambiavamo le accuse, l’autista dell’amministratore delegato di KLM confessò di aver accompagnato quest’ultimo a un aereo in partenza per Londra da un aeroporto secondario, proprio il giorno in cui egli decise la rottura dell’accordo. Messo alle strette, il rappresentante olandese dovette ammettere la circostanza, anche perché in Olanda dire una bugia è un fatto grave.

D. Che cosa avrebbe dovuto fare il Governo italiano per non perdere quell’occasione?
R. Per prima cosa avrebbe dovuto evitare le tre crisi governative registratesi durante quella legislatura, in ognuna delle quali si inserì la richiesta di chiudere Malpensa. Poi capo del Governo divenne Romano Prodi che aveva l’idea di privatizzare Alitalia; anzi tale idea era partita proprio quando egli era presidente dell’Iri e in tale veste aveva favorito un accordo con gli inglesi che in Alitalia provocò vari scioperi. Quando diventò presidente della Confindustria inglese, l’amministratore delegato di British Airways mi confermò l’esistenza di un accordo su una fusione alla pari e sull’affidamento all’Alitalia dei collegamenti tra Europa e Londra. Quell’accordo diede origine ad «Aquila selvaggia», cioè alle proteste dei piloti che bloccavano gli aerei sulla pista avendo saputo dai loro colleghi inglesi che sarebbero stati destinati a volare da Roma a Londra anziché da Roma a New York. La rivolta causò le dimissioni del presidente Renato Riverso e dell’amministratore delegato Roberto Schisano, ai quali subentrammo rispettivamente io e Domenico Cempella.

D. Che cosa prevedeva in particolare quell’accordo?
R. Quando assunsi la presidenza di Alitalia non ne conobbi il contenuto, ma l’accordo esisteva. La necessità di un’alleanza internazionale era evidente, già si sapeva che nel mondo si sarebbero formate al massimo 4 alleanze, che poi divennero 3 perché si verificarono fallimenti di aziende americane che ridussero a tre le possibilità di alleanze. Allora cercammo un’alleanza che ci consentisse di mantenere i voli a lungo raggio, sui quali avevamo il consenso dei piloti dell’Anpac - Associazione nazionale professionale aviazione civile, sia per il loro orgoglio professionale sia perché guadagnavano di più e faticavano di meno. L’accordo con KLM ci avrebbe permesso tutto questo, ma era necessaria la privatizzazione della compagnia.

D. Che cosa avvenne dopo?
R. Con Cempella definii subito le competenze: io mi sarei occupato solo di alleanze internazionali e della parte più tecnica della scelta degli aerei, tanto che feci acquistare l’Embraer e il Boeing 777, la macchina più bella che Alitalia ha oggi. Eravamo citati in tutto il «mondo Iri» perché andavamo d’accordo. Per eventuali alleanze esplorammo tutte le direzioni. Gli inglesi chiarirono subito che avevano bisogno di compagnie non alleate ma sussidiarie. Io avrei preferito la Lufthansa perché avendo realizzato con i tedeschi il G-91, il Tornado e alcuni programmi spaziali, avevamo con loro una grande affinità. Ma Lufthansa rispose che avremmo dovuto riparlarne dopo alcuni anni perché, avendo loro stretto un’alleanza con la Sas e intendendola allargare ad Austrian e a Spainair, un accordo con Alitalia avrebbe avuto il veto dell’Antitrust.

D. E dopo British Airways?
R. I primi disponibili a stringere un’alleanza furono gli svizzeri, con i quali sviluppammo ottimi rapporti a livello dell’amministratore delegato. Anche con i francesi concordammo un buon programma, arrivammo a firmare un memorandum con l’amministratore delegato di Air France Christian Blanc il quale, sostituito poi per ragioni politiche da Jean-Cyril Spinetta, ci invitò a sottoporlo a quest’ultimo. Ma io e Cempella ritenemmo che non era corretto costringerlo a diventare nostro alleato a sua insaputa. Dopo le elezioni francesi diventò ministro dei Trasporti un comunista che bloccò le privatizzazioni; e Spinetta ci disse che non era il momento di fare qualsiasi accordo.

D. Allora svizzeri o francesi?
R. Nel frattempo raggiungemmo un accordo con gli svizzeri ma il consiglio di amministrazione di Swiss Air non l’approvò perché aveva stretto alleanze e comprato società ovunque, contando sull’adesione della Svizzera al mercato aeronautico; questo però non avvenne, per cui cominciarono a fallire la compagnia belga Sabena e altre compagnie che la Swiss aveva acquisito.

D. Come si giunse alla KLM?
R. Intanto noi avevamo maturato un buon rapporto con KLM puntando a un’alleanza che ci avrebbe fatto diventare la quarta compagnia con la possibilità di sviluppare un’alleanza con la terza, che all’epoca era l’Air France. Parlammo con Spinetta, un uomo molto in gamba, ma nel frattempo il rapporto si interruppe perché gli olandesi ci rimproveravano il mancato decollo di Malpensa, la scarsità dei collegamenti e l’assenza della privatizzazione, che c’eravamo impegnati a varare entro una certa data. Allora l’Iri inviò al Governo il piano di privatizzazione che doveva essere approvato dal Parlamento, ma Rifondazione Comunista si oppose minacciando di far cadere il Governo. Se Prodi fosse caduto sulla privatizzazione di Alitalia, sarebbe diventato un eroe liberal-democratico.

D. Che cosa avvenne dopo nei rapporti con KLM? Come si giunse alla rottura definitiva?
R. Poi ci furono dei contatti tra il Governo olandese e l’allora direttore generale del ministero dell’Economia italiano Mario Draghi, attualmente governatore della Banca d’Italia; noi avevamo posto alcuni punti fermi con KLM ma il Governo olandese ottenne dal nostro rappresentante che la nuova compagnia fosse di nazionalità olandese invece che italiana, per cui sarebbe diventata capo-commessa e tutti i consiglieri di amministrazione sarebbero stati cooptati dagli olandesi. A questa richiesta noi ci eravamo sempre opposti e invece fu accettata probabilmente perché il team italiano non conosceva il problema, non parlava con noi, non ci dava ascolto. KLM e Governo olandese lavoravano, invece, in sintonia, per cui ottennero due set di condizioni, ma noi rifiutammo l’accordo anche se era stato accettato dal nostro Governo. Draghi andò a parlare personalmente con gli olandesi, ma ormai la situazione si era deteriorata ed eravamo alla rottura, anche per il maldestro tentativo di Cempella di far nominare nella struttura alcuni suoi fedeli, azioni che non possono farsi in campo internazionale. Per cui ci fu attribuita la colpa di aver voluto troppo.

D. Quindi la scelta odierna dell’Air France è quasi naturale?
R. Già quando decidemmo di trattare con KLM, in realtà vi era chi propendeva per Air France, e oggi confermo che è rimasta l’unica scelta. Per farne una diversa bisognerebbe far uscire Alitalia da Sky Team di cui è membro. Noi riuscimmo ad ottenere 250 milioni di dollari da KLM perché essa aveva rotto l’alleanza in atto da poco più di un anno; oggi, se non è prevista una cifra fissa, una compagnia che recede da un accordo deve indennizzare l’ex partner di qualsiasi danno, ossia non deve fargli diminuire il traffico, pertanto il costo della decisione è incalcolabile. Se, per esempio, l’Alitalia si ritirasse e l’Air France dimostrasse che 100 mila passeggeri si recavano a Parigi con i suoi piani di volo, l’Alitalia dovrebbe inviarle altrettanti passeggeri. Oltre all’Air France, di Sky Team fanno parte Delta, Continental, Korean Air, Aeroflot, CSA. Ora sta per aderire anche una compagnia cinese. Tutte queste compagnie sarebbero piombate su Alitalia e, per ottenere gli indennizzi, le avrebbero pignorato gli aerei.

D. Perché non è stata venduta a imprenditori italiani?
R. Perché, quando hanno visto i conti, tutte le cordate italiane si sono ritirate. Non c’era altro da fare, a parte quello che è riuscito a fare il precedente amministratore delegato Giancarlo Cimoli, che non si capisce però perché, in quella critica situazione, sia stato nominato. E vi è rimasto a lungo perché, visto che il consiglio di amministrazione aveva sempre dichiarato che egli aveva raggiunto gli obiettivi fissati, nessuno in realtà aveva il coraggio di azionare la clausola prevista per mandarlo via. È stato un fallimento annunciato; però alla base, a mio parere, vi sono due fatti. Una società non può essere gestita da un management a responsabilità limitata mentre i sindacati del personale, se si rivolgono al Governo, ottengono la cassa integrazione all’80 per cento dello stipendio reale, quindi 40 mila euro su 50 mila, quando a un metalmeccanico si erogano al massimo 800 euro. Questo va contro gli interessi dell’azienda.

D. Che fece lei da presidente?
R. Lo feci presente a un rappresentante del Governo che mi rispose: «Mica vorrà far fallire l’Alitalia prima delle elezioni? Lasciamo il problema a quelli che verranno dopo». Così Alitalia è stata caricata come una bomba ad orologeria, c’era solo da vedere in mano a chi sarebbe scoppiata. Qualche settimana fa, quando i concorrenti erano rimasti in due, pensavo: se prevale l’idea di risolvere il problema, la venderanno ad Air France; se invece Prodi pensa che il suo Governo sia alla fine e desidera fare un regalo al suo successore, la vende ad Air One perché, dopo uno o due anni, la situazione sarebbe stata di nuovo come prima. Non sarebbe stata una soluzione definitiva, sarebbe trascorso un altro anno di sofferenza.

D. Quando è cominciata la fase terminale della compagnia?
R. Quando vollero mettere l’azienda in mano a persone legate ai partiti politici: decisero di nominare come presidente un rappresentante della Lega per difendere Malpensa, e come amministratore delegato un mio collaboratore legato ad Alleanza Nazionale, persona simpatica e bravissima ma forse troppo debole per svolgere quel compito. Per cui pensarono di mettergli accanto due vicedirettori generali, ma io osservai: se l’amministratore delegato è vostro, un direttore generale sarà dell’Udc e l’altro di Forza Italia; costoro faranno di tutto per esautorarlo; il tal modo non gli state dando un aiuto, ma la corda per impiccarlo.

D. Quale sarà il futuro?
R. Si sta verificando quello che ho previsto qualche anno fa. Se il Governo non avesse fatto nulla, entro due anni non sarebbe rimasto più alcun vettore italiano; se il Governo avesse desiderato una valida compagnia aerea nazionale, doveva chiamarle tutte e fermare l’Antitrust che impedisce di fare qualsiasi cosa, e che ha bocciato tutti gli accordi, con Meridiana, con Volare ecc., per garantire la concorrenza. Il risultato è che oggi la concorrenza nel mercato italiano la fanno EasyJet e Ryanair, e la faranno sempre più loro. Se Alitalia avesse mandato via allora tutte queste compagnie, avrebbe ancora la capacità manageriale per creare un unico vettore. Ma se si desidera questo, occorre una forte leadership; se si preferisce la libertà assoluta di mercato, le compagnie italiane spariranno e saremo serviti da Air France e Lufthansa.

D. Quale sarà la conclusione?
R. Se si decide di vendere Alitalia a un vettore straniero, ad esempio Air France, il Governo italiano - e non la compagnia che non è sufficientemente rappresentativa -, deve trattare con il Governo francese e consentire l’operazione ma ad una condizione: la garanzia di mantenere in Italia uno o due hub. Su questo punto però rischia di spaccarsi la stessa coalizione governativa, per cui è difficile che nelle trattative si parli di Fiumicino e di Malpensa. Se il Governo non sarà capace di fare questo, sarà accusato di non aver preso nessuna decisione; si dirà solo che è stato abile a lasciare la patata bollente al successore.

D. Quali conseguenze per l’immagine del Paese provoca la vendita di Alitalia?
R. A mio parere, l’Alitalia costituisce un caso peggiore di quello dell’immondizia di Napoli. Questa infatti è un fenomeno quasi naturale e comunque determinato dal comportamento di funzionari di basso livello; Alitalia è stata sempre gestita dai presidenti del Consiglio e dai ministri dell’Economia e della Finanza; a costoro non è mai venuto in mente di chiedere cosa c’era da fare. Inoltre in tutto questo ci si mette anche il presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni, il quale non ha capito che ormai gli hub sono in fase di scomparsa, che rimarranno i super hub, e che purtroppo in Italia arriviamo sempre tardi.

D. Qual è il suo giudizio su Air France?
R. È una compagnia molto capace, e che serve già il mercato italiano. Aveva subito compreso che l’hub di Malpensa non avrebbe funzionato e, dinanzi alla possibilità che i passeggeri da Bologna, Firenze, Genova, Torino, Venezia invece che a Malpensa preferissero andare negli hub di Francoforte, Amsterdam o Londra per imbarcarsi su un volo intercontinentale diretto verso gli Usa o altre destinazioni, ha cercato di recuperarne quanti più possibile e indirizzarli a Parigi. Dobbiamo tener presente che, quando era nostra alleata, la KLM si era accaparrata gran parte di quei passeggeri; insieme ad essa, infatti, avevamo realizzato una rete ben vista dai nostri passeggeri, perché grazie ad essa potevano recarsi facilmente ad Amsterdam e da quell’hub in tutto il mondo.

D. Quindi Malpensa è nato male?
R. Ricordo che, quando parlavo di esso e dei servizi che doveva svolgere, l’allora sindaco di Venezia Paolo Costa mi disse: «Mica penserà che un veneziano possa andare a Malpensa a prendere l’aereo intercontinentale? Significherebbe per lui riconoscere che Milano è più importante di Venezia. Pertanto o istituite anche voli intercontinentali a Venezia o i veneziani andranno a Parigi o a Londra». Era un’osservazione giusta anche perché, dovendo affrontare un volo per gli Stati Uniti di circa 10 ore spezzandolo in due tratte, era preferibile dividere i tempi in due e in 8 ore, anziché in 20 minuti e in poco meno di 10 ore. Il nostro dramma è non aver capito che le compagnie aeree, più che seguire la politica, devono soprattutto accontentare i passeggeri. In Italia invece si accontentano tutti, sindacati, fornitori, partiti, Governo; il passeggero invece non conta niente, nessuno l’ha mai preso in considerazione.

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