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vista da Romina Ciuffa



 

Ann Coulter, ovvero come vincere il Premio Giornalista Conservatrice dell’anno

New York, luglio. Abbiamo esportato Oriana Fallaci in America, non perché si è trasferita, da tempo, a Manhattan. Ben intesi, lo ribadisce: «Io sono italiana. Sbagliano gli sciocchi che mi credono ormai americana. Io la cittadinanza americana non l’ho mai chiesta. Anni fa un ambasciatore americano me la offrì sul Celebrity Status, e dopo averlo ringraziato gli risposi: Sir, io all’America sono assai legata. Ci litigo sempre, la rimprovero sempre, eppure le sono profondamente legata. L’America è per me un amante, anzi un marito al quale resterò sempre fedele. Ammesso che non mi faccia le corna. Voglio bene a questo marito. E non dimentico mai che, se non si fosse scomodato a fare la guerra a Hitler e a Mussolini, oggi parlerei tedesco. Non dimentico mai che, se non avesse tenuto testa all’Unione Sovietica, oggi parlerei russo. Gli voglio bene e m’è simpatico. Mi piace, ad esempio, il fatto che quando arrivo a New York e porgo il passaporto col certificato di residenza, il doganiere mi dica con un gran sorriso: Welcome home. Benvenuta a casa. Mi sembra un gesto così generoso, così affettuoso. Inoltre mi ricorda che l’America è sempre stata il refugium peccatorum della gente senza patria. Ma io la patria ce l’ho già, Sir. La mia Patria è l’Italia, e l’Italia è la mia mamma. Sir, io amo l’Italia. E mi sembrerebbe di rinnegare la mia mamma a prendere la cittadinanza americana».

Più chiara di così? Ma, in un altro modo, sì che l’abbiamo esportata questa fiorentina doc che ha fatto la guerra: si chiama Ann Coulter (ma lei la guerra non l’ha fatta). Due estremiste, una per uno non fa male a nessuno. La nostra, Oriana, non voleva mischiarsi alle cicale, poi ha deciso di farlo quando ha saputo che alcuni italiani di lusso («politici o cosiddetti politici, intellettuali o cosiddetti intellettuali») dicono che agli americani sta bene, e allora sottolinea: «Naturalmente la mia patria, la mia Italia, non è l’Italia d’oggi. L’Italia godereccia, furbetta, volgare degli italiani che pensano solo ad andare in pensione prima dei cinquant’anni, e che si appassionano solo per le vacanze all’estero o per le partite di calcio. L’Italia cattiva, stupida, vigliacca, delle piccole iene che, pur di stringere la mano a un divo o a una diva di Hollywood, venderebbero la figlia a un bordello di Beirut; ma se i kamikaze di Osama Bin Laden riducono migliaia di newyorchesi a una montagna di cenere che sembra caffè macinato, sghignazzano contenti: bene-agli-americani-gli-sta-bene».

Oriana Fallaci:
Andate pure al diavolo,
io dico
quello che voglio

Ann Coulter:
Invadere i loro Paesi
uccidere i loro leader
e convertire i loro popoli
alla Cristianità

La loro Oriana, ossia Ann Coulter, il 13 settembre del 2001, due giorni dopo l’attentato alle Torri gemelle di New York, scrisse sulla National Review (il primo sito conservatore d’America, «femminucce senza spina dorsale, non so che farmene di loro»), che «dobbiamo invadere i loro Paesi, uccidere i loro leader e convertire i loro popoli alla Cristianità». Per poi venire licenziata in tronco in quanto più a destra della destra. Ma una settimana dopo i punti numero uno e due di quella frase - se ne accorge subito Ann - sono diventati la politica ufficiale degli Stati Uniti e, tra l’altro, finivano su tutte le magliette (ma dov’è la frase «stuprare le loro donne»?).
La nostra, Oriana, «arrabbiata d’una rabbia fredda, lucida, razionale. Una rabbia che elimina ogni distacco, ogni indulgenza. Che mi ordina di rispondergli e anzitutto di sputargli addosso. Io gli sputo addosso». La loro, Ann, «il nostro motto dopo l’11 settembre deve essere questo: se le teste coperte di stracci fanno la voce grossa, le teste coperte di stracci affronteranno le conseguenze».

Ann Hart Coulter, un Sagittario biondo, sexy, quasi comico per il suo eccesso. Nata l’8 dicembre del 1961 a New York City, ha affermato: «Non ho che da accusare me stessa se non riesco in qualcosa. Mio padre non era razzista, mia madre non è mai stata arrestata e mio fratello non si è mai travestito. Provengo da una minoranza svantaggiata: sono il prodotto di una famiglia amorevole e unita». È esattamente il tipo di persona che non ha niente da perdere se parla: e più licenziamenti accumula, più i suoi libri vanno a ruba.

Così la Fallaci ultimamente: «Bisogna diventare vecchi, perché allora non si ha piú niente da perdere. Hai una certa rispettabilità, ma non te ne frega niente: è il non plus ultra della libertà. Su ciò che non dicevo prima - per una sorta di timidezza, di cautela - ora spalanco la bocca e dico: Beh, che mi fate? Andate pure al diavolo. Io dico quello che voglio».
La teoria della vecchiaia affascina, ma per ora Ann Coulter ha una folta chioma bionda dalla propria parte (Oriana dice che quand’era bionda lei, non era bionda nessuna) che pure le dà rotocalchi, tanto che il quotidiano britannico di sinistra The Guardian ha scritto: «Una volta che la guardi, diventa difficile toglierle gli occhi di dosso». Quindi esce dalla 33esima edizione della CPAC (la Conservative Political Action Conference) applaudita da studenti estasiati e innamorati, perché conservatore ora fa «cool», va di moda, fa tendenza soprattutto se ha le gambe lunghe (non come le bugie).


Allora vediamo a cosa serve, oggi, guadagnarsi il premio di «Giornalista Conservatrice dell’anno» conferitole per l’infallibile dedizione alla verità, alla libertà e ai valori conservatori, e per essere un esemplare, in parole ed atti, di quello ciò che dovrebbe essere un vero leader. «La CNN disse che c’erano state delle esplosioni in Afghanistan, ma le bombe non erano nostre. Dovevano essere nostre. Io voglio che siano nostre». La stessa che, dopo aver scritto «Non siamo stati così pedanti quando si è trattato di punire Hitler e i suoi ufficiali: abbiamo bombardato a tappeto la Germania, abbiamo ucciso i civili. Quella era guerra. E questa è una guerra», ha richiesto in un articolo mai pubblicato il controllo dei passaporti per i voli nazionali e accurati controlli in caso di individui sospetti dalla carnagione scura. «I musulmani dovrebbero viaggiare su tappeti volanti», e chi più ne ha più ne metta: si scaglia contro i liberali, da dovunque essi provengano. La grande maggioranza di essi, per lei, non sta intenzionalmente sabotando la nazione. «In realtà credo che al 20 per cento dei liberal non freghi niente della nazione: questo 20 per cento odia l’America, ma la maggioranza cerca solo di vendere libri, trovare uno show televisivo, essere definito coraggioso dal New York Times, fare il figo o trovare il numero di telefono di una donna a un ricevimento pomeridiano di un centro di Kabbalah».

Una statistica indubbiamente garantita. Descrive l’intellettuale di sinistra, ma dimentica quello di destra. Teoria comunque fondata, per la percentuale che ne limita gli effetti. Grazie Ann. La cui sinistra americana somiglia alle «piazze arabe anche nell’ossessione per le teorie del complotto, metà delle quali riguardano gli ebrei». I liberal si divertono a creare mondi immaginari in film e serie televisive dove loro finalmente vincono, e dai quali «impariamo sempre che non c’è mai un motivo per combattere una guerra, a meno che la Terra non sia invasa da alieni dell’iperspazio con enormi e paurose astronavi dai raggi mortali». In questi film «quelli di sinistra sono sempre moralmente e intellettualmente superiori. Sono anche belli, divertenti, compassionevoli e hanno sempre ragione. I repubblicani, solitamente, sono interpretati da tipacci di serie B. Pensate al fatto che Anthony Hopkins ha interpretato sia Nixon che Hannibal Lecter».
Qualche suggerimento: le donne non sono intelligenti quanto gli uomini, in quanto non sanno fare soldi, dovrebbero entrare nel servizio militare ma andrebbe loro revocato il diritto di voto o vi dovrebbero rinunciare. Si istituiscano una prova di alfabetismo e una tassa per permettere alle persone di votare. Abbiamo bisogno di qualcuno che metta del veleno per topi nella crème brulée del giudice Stevens (esponente di sinistra della Corte di giustizia) - una battuta per i media, dice -. Inoltre, «costruirei un muro. Assumerei immigranti per costruirlo. E butterei fuori gli immigranti che sono qui. È un lavoretto poco costoso».


Nonostante la lunga
letteratura propagata
che, supportata
da argomentazioni
fortemente controverse,
ha creato il fenomeno
Coulter, il suo stile
non è universalmente
ammirato nemmeno
da chi ne condivide
la filosofia politica


La giornalista e l’avvocato: dopo aver scritto un articolo sul caso Paula Jones (che accusava Bill Clinton di molestie sessuali), la Coulter viene chiamata a difendere la donna e lo fa gratuitamente, andando contro gli avvisi del legale ufficiale, Joseph Cammaratta, che riteneva le accuse deboli. Lei manda avanti il caso, convincendo la Jones che ogni transazione avrebbe portato a ritenere il tutto un montaggio per estorcere denaro al presidente: e richiede una descrizione dettagliata degli organi genitali di quest’ultimo. Il suo intervento porta all’impeachment che segue lo scandalo di Monica Lewinski.
Nel suo libro «Godless: The Church Of Liberalism» critica le quattro vedove dell’11 settembre (anche chiamate «New Jersey Girls»): «Non ho mai visto delle vedove tanto felici per la morte del proprio marito». E, comunque, «chi ci dice che i mariti stessi non stessero pianificando di mollare quelle arpie?». Ineccepibile. Milionarie, che si comportano come se gli attacchi terroristici avessero riguardato solo loro, colpevoli anche di aver appoggiato John Kerry durante le elezioni del 2004: «Non c’era gioia nel vedere i nostri uomini bruciati–hanno replicato–, né felicità nel dire ai nostri figli che i loro padri non sarebbero più tornati a casa: l’unica motivazione era far sentire la nostra voce», e si riferiscono al fatto di aver testimoniato di fronte alla Commissione del Congresso istituita per indagare sui fatti dell’11 settembre.
Interessante anche il titolo di uno dei suoi discorsi, tenuto nel 2006 nell’Università dell’Indiana, semplice, conciso: «I liberali hanno torto su tutto», e odiano sia Dio che l’America (soprattutto il gay che, dalla platea, le aveva posto una domanda, «quello con la voce effemminata»). Non prima del libro «Come parlare a un liberale (se proprio devi): Il mondo secondo Ann Coulter» del 2004 (nel quale afferma che, indossando vestiti Kinte e volendosi far chiamare afro-americani, questi ultimi si mostrano orgogliosi della tratta degli schiavi dei propri predecessori in Africa), e di «Diffamazione: Il liberale mente sul diritto americano», del 2002, best seller del New York Times per sette settimane di seguito.

Più recente «Tradimento: Dalla guerra fredda alla guerra al terrorismo» del 2003, dove Ann difende Richard M. Nixon, accusa i politici democratici e i media di aver fraudolentemente minato la politica estera degli Stati Uniti e si dichiara d’accordo con Joseph McCarthy che accusò l’afro-americana Annie Lee Moss di essere un’infiltrata comunista del Pentagono. Del 1998, invece, il suo libro «Alta criminalità e reati minori: La causa contro Bill Clinton», presidente che «si masturba nei lavandini» e che lei ha sempre odiato, lui e sua moglie Hillary la quale, riferendosi a «Godless», quello sulle vedove dell’attentato, a «Senza Dio: La Chiesa del Liberalismo», ha replicato: «Il libro di Ann Coulter dovrebbe avere per titolo ‘Heartless’, senza cuore. Conosco molte vedove e molti familiari delle vittime dell’11 settembre, e nessuno voleva diventare membro di un gruppo definito da quella tragedia».
Nonostante la lunga letteratura propagata che, supportata da argomentazioni fortemente controverse, ha creato il fenomeno Coulter, il suo stile non è universalmente ammirato nemmeno da chi ne condivide la filosofia politica. Il giornalista e politico Arnold Beichman, noto conservatore, recensendo «Treason» ha scritto: «Ho provato a terminare il libro della signora Coulter, ma non ce l’ho fatta. La vita è troppo corta per leggere pagine e pagine di pretenziosità». Il fatto che sia tanto di parte, poi, non le giova: è tacciata di ipocrisia e di insufficiente o erronea rappresentazione di fonti idonee a sorreggerne le tesi. Un «vetriolo cattivo e poco produttivo» anche a detta del commentatore ultraconservatore della Fox News, Bill O’Reilly. Più diretta di ogni critica la torta lanciatale nel corso di un discorso nell’Università dell’Arizona. Da leccarsi i baffi.

Ma quanto bene fa, d’altronde, guadagnare sugli eccessi, Ann! Ne converrai. L’estremismo non solo ha sempre portato soldi, ma anche fama oltre che torte. A tutto spiano. Facile per te, allora, giocare alla radical chic alla rovescia, cavalcando l’editoria conservatrice scaraventatasi su un mercato saturo dei vari Michael Moore, tuo alter ego, dopo gli stenti che il tuo agente ebbe a subire battendo alle porte di tutti gli editori appetibili con una copia di «Slander» in mano. Fino giungere alla porta di Crown Publishing, che vide il nuovo nato vendere più di 400 mila copie e tu comparire in tutti i talk show d’America. Eppure, da qualcuno della Harper Collins quel libro era stato rifiutato in quanto non avrebbe aiutato il dialogo nazionale: se fossi stata Rupert Murdoch, lo hai detto tu, avresti licenziato in tronco quel redattore che, per soli motivi ideologici, aveva sdegnato il best seller dell’estate. Tu, che hai avuto un ragazzo musulmano, «ma non era mica di sinistra», che puoi convertire i progressisti (basta che lascino la casa dei genitori, trovino un lavoro e comincino a pagare le tasse), che non ti consideri una neo-con perché «non sono mica ebrea», e che hai per missione la riabilitazione di Nixon, che senti i liberal ripetere in trance come dei dervisci cose come «Bush ha mentito e i bambini sono morti», ma che sai come impostare una discussione con loro (quelli che «il settimo giorno Dio si riposò e i liberali si misero a complottare»).

Il mondo secondo te: dinanzi a loro mai arrendersi, mai mostrarsi cortesi o fare un complimento, mai stare sulla difensiva o scusarsi, mai cedere ai tentativi di corruzione; insultare il nemico. La sai lunga Ann, tu che pensi di parlare della guerra in Irak e «improvvisamente ti ritrovi in una disquisizione su Nixon, il petrolio, i neoconservatori, il Vietnam» con i liberali che rifiutano di argomentare e vanno matti per l’urlo e la demagogia. Dev’essere proprio difficile vivere contornata da ideologie differenti, da persone che sbagliano e che non ne sanno niente: come non t’invidio!
Tu che ci credi in quello che credi, e che lo gridi senza urlare e senza demagogia, che non vuoi nascondere i tuoi articoli ma li pubblichi tutti: non come quelli di sinistra che vorrebbero far scomparire i loro pezzi in difesa di Ho Chi Minh! Tu, che dici che Anthony Hopkins ha interpretato sia il ruolo di Nixon sia di quello di un cannibale psicopatico, chi vorresti facesse la tua parte? Non di certo Emily Procter, che interpreta Ainsley Hayes nel telefilm della NBC «The West Wing» (L’ala ovest), personaggio, ispirato a te, che viene cooptato nello staff di una Casa Bianca a matrice democratica proprio per rapportarsi con l’opposizione.

Mi dici «Io faccio qualche battuta, ma loro hanno ucciso tremila americani», ed hai ragione. Li hanno uccisi, di fatto. E sta anche a te trovarne un senso: come quando dicesti a un paralitico reduce dal Vietnam: «Sono state persone come lei che ci hanno fatto perdere quella guerra». Te lo puoi permettere, perché sei migliore. Migliore senza dubbio di Lady D: «I suoi bambini sapevano che dormiva con tutti quegli uomini. A me pare esattamente la definizione per descrivere una pessima madre. Qui si sta per caso dicendo che è corretto ostentare sesso prematrimoniale di fronte ai propri bambini? Diana era una persona insipida e patetica: io non ho mai avuto la bulimia! Io non ho mai avuto una storia extraconiugale! Io non ho mai avuto un divorzio! Per questo non penso che lei sia migliore di me», anche perché leggi la Bibbia («Dio ci ha dato la terra. Noi abbiamo il dominio sulle piante, gli animali, gli alberi. Dio ha detto: la Terra è vostra, prendetela, stupratela. È vostra»).

E dici di essere cristiana perché sai distinguere benissimo la tua dalla religione del liberalismo (che si fonda, invece, sull’assunto che gli uomini sono scimmie e sulla dottrina che fa fare a gente sana cose come insegnare ai propri figli come masturbarsi, permettere ai gay di sposarsi, far uscire gli assassini di galera e convincersi di avere antenati comuni coi vermi). Fai un favore, all’America e a te stessa soprattutto, se non lo vuoi fare alle donne, ai liberali e, men che meno, ai musulmani (tutti tranne il tuo ex fidanzato, ben intesi): rileggi qualche parola della tua vicina Oriana Fallaci, che vive a pochi metri da te. Se vuoi essere tanto estrema, fallo pure. Ma ricordati che non è sufficiente la rabbia: ci vuole anche l’orgoglio. Tu ce l’hai?

 

Fumarsela l’educazione sociale. E mandarla in fumo

New York, luglio. Si diplomano o no. Delle due l’una. Sui diplomati. Lo studente medio è uscito da scuola quest’anno con 19 mila dollari di debiti. Il giornale Usa Today riporta il caso di Joe Palazzolo, diplomatosi il giorno della festa della mamma di quest’anno, con 116 mila dollari da pagare in rate di almeno 800 dollari al mese. E gli è andata bene: infatti, già scontato dalla somma il sussidio ricevuto dalla Rutgers University per gli elevati risultati ottenuti. Mentre i suoi coetanei stanno per comprarsi casa, Joe cerca un coinquilino per dividere un appartamento di tre camere da letto in modo tale da limitare il proprio affitto a circa 600 dollari (e sono già 1.400 dollari al mese, se tutto va bene). Un debito di tale portata è inconcepibile per ogni età. L’America capitalista sa come far girare il denaro, e lo fa sin da quella tenera.

Nel 2004 circa il 4 per cento dei laureati aveva maturato un debito di almeno 40 mila dollari, così pure l’11 per cento degli iscritti a scuole private o no-profit. Tale situazione ha portato a un paradosso: costoro avranno minori possibilità di far carriera nei campi di propria competenza e in quelli i cui impieghi, pur garantendo una preziosa carriera, fruttano stipendi di avviamento inferiori alla media. Usa Today menziona il caso di Emily Weinberg, di 23 anni, diplomatasi lo scorso anno nell’Ithaca College di New York in Cinema e Fotografia: 130 mila dollari di mutuo. All’atto dell’iscrizione contava su una borsa di studio dall’Università, mai giunta; né ha potuto ottenere esenzioni per motivi di reddito, data la benestante situazione finanziaria dei propri genitori. I quali avevano messo da parte, per gli studi della figlia, più di 97 mila dollari, che la «bolla» economica del 2000 ha trasformato in 23 mila.


Dai 2.100 dollari di stipendio in qualità di web administrator, Emily ne sottrae 1.200 per il suo «student loan»; tiene a sottolineare che potrebbe pagarne solo 791 al mese, ma questi coprirebbero a malapena gli interessi, con il risultato di aumentare di gran lunga il debito totale. Il suo ragazzo, allora, l’aiuta con l’affitto. Lei non fa la fotografa. Ha studiato fotografia ma non se lo può permettere, perché deve pagare gli studi che ha fatto per diventarlo.
Angela Scheider ha 26 anni e 118 mila dollari di passivo: per il quale lavora part-time, in aggiunta a un lavoro a tempo pieno. Fatti i dovuti conti, le restano ben 70 dollari al mese di budget per «divertirsi». Sa che i soldi non fanno la felicità (ma, aggiunge, rendono la vita più facile). Si rende conto poi, come anche molti altri studenti, di aver sbagliato i conti. Non aveva capito, sostiene, che avrebbe dovuto pagare per trent’anni i costi delle sue scelte. Semplici fogli di carta da firmare per sperare in una cultura e in uno o due altri pezzi di carta da esibire in vista di un lavoro soddisfacente. Non va così, Angela. C’è la fregatura.
Molti dei debiti contratti con le banche per il pagamento degli studi sono sospesi sino al termine della scuola: ciò indubbiamente rende più semplice la richiesta di finanziamenti per lo studente, a cuor leggero. Leggero il cuore fin quando non arrivano i primi conti. Poi c’è chi, come la ventiquattrenne Rachelle Routsong, terminata l’Università comincia un lavoro solo per pagare il mutuo contratto e, non soddisfatta di un’attività per la quale non ha mai studiato e che ha accettato per il solo bisogno di denaro (un lavoro di amministrazione, segreteria, scartabellìo, e per scartabellare non ci vuole una laurea), decide che non è sufficiente e s’iscrive a un master. Non trovando disponibilità nelle scuole di infermeria, è tenuta a sceglierne uno accelerato (tre anni, mica tanto veloci) nell’Università privata di San Diego, con il risultato di aggiungere 65 mila dollari al suo già alto debito da 100 mila. Si vuole sposare e sogna una famiglia, ma non ci crede: come potrebbe? Come pagare i debiti con un figlio a carico? Dove li pesca i soldi?

Se in America non è un problema trovare lavoro, non lo è nemmeno accendere un mutuo. Vivere non è difficile; quello che, sì, è un problema, è il gradino temporale che divide il momento dell’uscita dal mondo degli studi da quello del primo salario redditizio, simbolo della carriera. Lo stesso che permette di guardare oltre e di pensare al passato senza rimpianti. Altra afflizione: per avere un salario che frutti davvero, dunque un’opportunità di carriera, è necessario trasferirsi in città grandi come New York, dove il costo della vita è (a dir poco) allarmante. C’è quindi chi molla. Facile.
Sul non diplomato. Il numero degli studenti che lasciano le scuole prima della laurea cresce ogni giorno di più. Un esempio: Shelbyville High School, a 30 miglia da Indianapolis. Dei 315 studenti che quattro anni fa si presentarono ai corsi, solo 215 si laureeranno un giorno. Gli altri 100 sono spariti, di corsa. Via. Flop. Le statistiche parlano di una laurea ogni tre studenti iscritti alle scuole americane (percentuale del 50 per cento se si tratta di sud-americani o afro-americani). Il presidente degli Stati Uniti George W. Bush aveva promesso di stanziare più fondi per aiutare i ragazzi a restare a scuola; i democratici lo accusarono subito: non chiacchiere, avrebbe dovuto formulare un piano concreto.

La Fondazione Bill & Melinda Gates ha avviato uno studio («The Silent Epidemic», l’epidemia silenziosa), perché il problema riceva una degna copertura in tutta la nazione. Secondo la rivista Time, lasciare la scuola costituisce per la salute sociale ciò che la sigaretta rappresenta per la salute fisica. Fumarsela, la salute sociale. Il primo passo (l’identificazione del problema) è stato fatto, almeno in grandi linee. Persino Oprah Winfrey (una Maurizio Costanzo d’America che ospita nel proprio talk-show ogni tipo di dibattito, sollevando polemiche e creando personaggi) ha dedicato una puntata del programma a questo: la crisi delle scuole americane.
Un secondo passo lo stanno facendo le piccole comunità, stanche di attendere una mano dall’alto; Shelbyville, per esempio, ha attivato un’opera preventiva che è condotta da un gruppo di appartenenti alle istituzioni scolastiche. In aggiunta, è stata emanata una legge che revoca la patente agli studenti minori di 18 anni che abbandonino gli studi, e insieme viene loro revocato il permesso di lavoro: indubbiamente una strategia d’impatto ma di fragili fondamenta (e da scadenti appigli ai diritti umani).

Molti dei debiti contratti
dagli studenti con le banche
per il pagamento degli studi sono sospesi sino al termine
della scuola: ciò indubbiamente rende più semplice la richiesta di finanziamenti per lo studente a cuor leggero.
Leggero il cuore fin quando
non arrivano i primi conti


Sarah Miller, ora ventottenne, spiega perché, a soli 15 anni, lasciò la scuola. Ragazzina ribelle con una turbolenta vita familiare, saltava spesso la scuola con le amiche - insegnanti consenzienti -, fin quando un giorno la chiamò il preside e, invece di spronarla, le disse: «Sarah, perché non lasci la scuola?». E lei, una bambina, disse sì. Il preside aveva appena pronunciato le parole magiche. L’incantesimo s’era avverato e nessuno si adoperò per romperlo. Ora si sente stupida. Anche se ha una casa di proprietà, che divide con suo marito, e serve caffè ai tavoli. Sarebbe stato bello, dice, avere qualcuno che mi avesse detto di restare.

In questi casi i ricercatori danno la colpa agli altri. Cosa c’entra una ragazzina di 15 anni? E la sua vita non è la stessa. Chissà come sarebbe andata, si chiede Sarah e si chiedono migliaia di ragazzini cresciuti. E, ovviamente, secondo statistiche, a lasciare la scuola per ogni sei di coloro provenienti da redditi inferiori vi è solo un ragazzo più agiato. Perché, dicono, a scuola i ragazzi benestanti vengono trattati meglio. «I ragazzi ricchi sanno sempre come essere migliori», commenta Sarah. Per questo gli insegnanti sanno come trattarli e preferiscono lavorare con e su loro piuttosto che su giovani disagiati, problematici. Mentre sono proprio questi ultimi a necessitare di un intervento fattivo e di un investimento di energie positive. Si crea, in tal modo, una sottoclasse permanente. Mentre 23 Stati americani permettono ai ragazzi minorenni di lasciare la scuola senza il consenso dei genitori. Diversa la 17enne Susan Swinehart, una studentessa modello che ha abbandonato perché non ritiene la laurea necessaria per il futuro e la scuola una forma di non-azione. In questo caso l’educazione pubblica resta vittima della stessa ambizione americana. Il pomeriggio in cui Susan ha firmato le carte di rinuncia agli studi, accompagnata dalla madre Kathy si è recata al Taco Bell e, accettata immediatamente, è entrata come cameriera sin dalle 5 di quello stesso giorno, staccando alle due della mattina. Ora, per soli 985 dollari inclusi libri e supporto degli insegnanti, ha cominciato con sua madre un corso a distanza nella Pennsylvania University. Scuole virtuali ve ne sono, e permettono una forma di educazione non costosa pur se non riconosciuta valida. Ma, con quella, si può aspirare a un livello superiore? Meglio un pezzo di carta virtuale che niente.

Vi è chi, come il ventunenne Ryan Tindle, torna: abbandonata la scuola, il suo passo successivo è stato il riformatorio di Plainfield per aver picchiato un ragazzo più grande. Una volta dentro, ha preso una penna non per scrivere ma per ferire un compagno. Finito in isolamento, la vocazione: ha capito la «religione della scuola» e, uscito di li, è tornato ad essa. Ha dovuto attendere che cambiasse l’amministrazione scolastica per essere riammesso alla Shelbyville High School, quindi si è diplomato. Ora lavora come meccanico e guadagna 23 mila dollari l’anno, ma vuole iscriversi all’Università e studiare Criminologia.

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