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SANITÀ - ENRICO BOLLERO: FONDI E FONDAZIONI PER CURARE LA SANITÀ

Il professor Enrico Bollero, direttore generale della Fondazione Policlinico Tor Vergata

La nascita del Policlinico Tor Vergata è da ricondursi alla volontà di realizzare un nuovo modello di ospedale. Il Policlinico è caratterizzato da un alto contenuto tecnologico e di alta specializzazione in grado di assicurare un percorso assistenziale completo, dalla terapia intensiva alla degenza ad alta intensità di cura, dalla degenza diurna a quella ambulatoriale, con un numero non elevato di posti letto, consentendo l’integrazione tra le attività di assistenza didattica e di ricerca e nel rispetto di due principali valori: il riconoscimento della centralità del malato e della sua dignità come persona, e la cura quale impegno della struttura al servizio esclusivo del malato. L’impegno fin dall’inizio è stato quello di affiancare alla cultura del curare quella del prendersi cura, accanto al sapere scientifico un modo nuovo di essere accanto all’uomo, accogliendolo e rispettandolo. Il Policlinico nel Campus Universitario si pone come obiettivo istituzionale quello di soddisfare la necessità di riorganizzare l’attività formativa del personale medico e delle altre professioni sanitarie, garantendo che sia al passo con i tempi, non limitandola più al solo settore ospedaliero, ma anche a quello territoriale e, più in generale, al complesso di tutti gli interventi assistenziali riferibili sia alla prevenzione delle situazioni patologiche, che alla cura delle malattie e al recupero dello stato di benessere psicofisico dei cittadini-utenti. Alla base di questo modus operandi c’è l’applicazione del moderno concetto di ‘presa in carico’ e di ‘continuità delle cure’ che corrisponde all’attuale evoluzione dei modelli di cura che individuano le tre fasi del percorso:  high care, low care e catena della cronicità e il completamento del Policlinico, oggi al 60 per cento, può realizzarlo».
È la filosofia che ispira il professor Enrico Bollero che, laureatosi in Medicina e Chirurgia nell’Università di Roma con 110 e lode, diventò presto primario ospedaliero e direttore generale dell’Azienda ospedaliera universitaria Policlinico Tor Vergata di Roma, quindi direttore generale della Fondazione Policlinico Tor Vergata. È stato docente nella Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione, consigliere di società scientifiche, membro del Consiglio Superiore di Sanità e del Consiglio nazionale dell’Economia e del Lavoro, segretario dell’Associazione nazionale Aiuti e Assistenti. Ha collaborato con le principali riviste scientifiche e pubblicato oltre 50 lavori.
Domanda. Cosa lamenta Lei nella sanità, cosa intende per malasanità?
Risposta. Un evento avverso che può accadere in qualsiasi struttura sanitaria di qualunque Paese, o un difetto di sistema. Preferirei parlare di quest’ultimo. L’Italia è tra i Paesi più avanzati per l’attesa media di vita, forse negli ultimi anni siamo passati dal secondo al terzo posto in campo mondiale. Oggi l’attesa media di vita per la donna si attesta sugli 84 anni, per l’uomo sui 79. La stessa attesa di vita non c’è, per esempio, in Spagna e in Francia. Il sistema sanitario italiano ha quindi prodotto un’attesa di vita più lunga rispetto a tanti altri Paesi; se aggiungiamo la diminuzione della mortalità infantile, vediamo che il sistema sanitario ha dato positivi risultati. Il problema è che da 16 anni si accerta che il Fondo sanitario nazionale previsto l’anno precedente risulta sottostimato, ed è necessario ripianarlo per gli anni precedenti.
D. Da che cosa dipende questo?
R. Dal fatto che le previsioni di spesa relative al fondo sanitario nazionale sono inadeguate rispetto ai bisogni reali del sistema che abbiamo costruito, soprattutto rispetto al sistema tariffario basato sul cosiddetto Drg, ossia Raggruppamento omogeneo di diagnosi, rimasto bloccato dal 1997. Negli Stati Uniti questo sistema viene adeguato ogni sei mesi per mantenerlo al passo con l’evoluzione tecnico-scientifica; da noi per motivi di bilancio viene mantenuto fermo, perché un aumento determinerebbe anche un’espansione della spesa privata. Per adeguare la tariffa della prestazione ai costi realmente sostenuti si ricorre al sistema delle funzioni, il cui impiego è oggi criticato, per esempio, nella Regione Lombardia. Ma l’aumento delle tariffe non è discrezionale, dipende da elementi aggiuntivi, dai maggiori oneri affrontati per gli assistiti e dall’organizzazione loro assicurata.
D. Allora qual è il vero male della sanità?
R. Non si è fatta una corretta considerazione di un sistema sanitario che ha un obiettivo, la salute, giustamente definito un valore non valutabile né discutibile. Circa la sostenibilità economica di questo sistema sanitario, si assiste a una presa di coscienza dei limiti economici che ne inficiano l’obiettivo, e dell’incompatibilità tra un sistema sanitario nazionale che deve proteggere la salute secondo l’articolo 32 della Costituzione, e quanto viene messo a disposizione dal bilancio dello Stato.
D. È così difficile far quadrare i conti?
R. Nella ricerca di sostenibilità finora non si è trovato un punto di equilibrio, tanto che negli ultimi anni era stato soppresso il Ministero della Salute, che poi è stato ripristinato ma privo di autonomia nella gestione della spesa sanitaria. Tutti gli interventi legislativi e organizzativi devono essere sempre proposti e attuati d’intesa con il Ministero dell’Economia. Un condizionamento e una deformazione negli ultimi anni «asfissianti»: si attuano manovre finanziarie per il contenimento della spesa a prescindere dal risultato sociale che possono avere.
D. Come si definiscono le risorse?
R. In un’attività sociale che si chiama welfare si punta a un risultato economico compatibile con le disponibilità, sempre inferiori alle necessità. Non si è mai sciolto questo nodo; solo una volta, recentemente, ho sentito affermare da una parlamentare che la Ragioneria Generale dello Stato è talmente invasiva da assumere un ruolo politico che non gli compete. Spero che i prossimi Governi prendano in seria considerazione questa situazione.
D. Quale soluzione proporrebbe?
R. Se si vuole salvaguardare il sistema sanitario nazionale, è necessario che il suo costo sia sufficientemente coperto dalle risorse finanziarie, interrompendo un atteggiamento che dura da anni e che lo asfissia progressivamente. È un sistema sanitario che, con tutte le critiche del caso, alcune giustificate e altre meno, costituisce un valore che i cittadini vogliono comunque mantenere, anzi migliorare. Senza risorse sufficienti si incrina più di tutto l’elemento più vivo, cioè gli ospedali, perché questi devono avere le tecnologie e la diagnostica più avanzate, il sistema di cura più completo, le professionalità più idonee, ma la quantità e la qualità devono essere parallele. Non si può puntare alla quantità senza curarsi della qualità.
D. Come va il piano di rientro dei passivi accumulati dalla Sanità?
R. Per effetto del piano di rientro dei debiti, in particolare della Regione Lazio, si assiste a casi incredibili. Da anni medici come me chiedono riferimenti tariffari rispetto non alle prestazioni, ma ai costi, ad esempio delle siringhe, perché ve ne sono di vari tipi: completa di ago, con l’ago protetto, con un meccanismo di salvaguardia contro le infezioni, senza protezioni. Dovrebbero esservi un tariffario minimo e uno massimo dei singoli dispositivi, correlati a un margine economico da riconoscere alle imprese produttrici in base al concetto anglosassone del giusto profitto, che ancora non abbiamo adottato. Se consideriamo solo il costo inferiore, come si sta verificando, potrebbero inserirsi elementi truffaldini. Quindi non stiamo facendo un lavoro corretto. Così per il costo delle pulizie, dei camici, dell’igiene dei bagni, di qualità insufficiente se si persegue solo il risultato economico.
D. Come si sfugge alle leggi dell’economia?
R. È giusto eliminare inefficienze e sprechi, controllare i prezzi di riferimento e i livelli di qualità, ma bisogna stabilire tali livelli prima dei costi dei servizi e di quelli del personale. Oggi si tende a risparmiare persino su questo. Non si tratta di avvalorare rivendicazioni sindacali, ma di avere buon senso: in ogni reparto deve esservi un numero minimo di persone, che non può essere ridotto per risparmiare, ma deve essere sufficiente, deve parlare con il paziente, rasserenarlo sulla sua salute. Ho sempre sostenuto che, sia i medici sia gli infermieri, devono avere un margine di tempo per parlare con il paziente.
D. Come si può uscire da questa situazione, in un momento di crisi?
R. Dovremmo agire su delle priorità. Occorrerebbe, per esempio, una legge che prescrivesse alle fondazioni bancarie, che non hanno scopi di lucro ma dispongono di notevoli risorse economiche, di investire una quota dell’utile conseguito dalle banche in tecnologie avanzate per la sanità, che oggi lavora con dispositivi vetusti. Lo slogan con il quale abbiamo cominciato nel 2000-2001, cioè «La centralità dell’uomo, non curare ma prendersi cura», non è più sufficiente, è diffuso ovunque; oggi lo slogan difficile da diffondere, ma che dà un risultato, è «Prendersi cura con amore», perché risveglia i sentimenti di solidarietà verso il prossimo.
D. Ma la solidarietà non tende sempre più a sparire, sostituita da un individualismo esasperato?
R. Siamo nel mondo degli egoismi e dell’individualismo, ma se nel campo della salute continuiamo a ridurre gli investimenti sulle risorse umane, si compie un’operazione dannosa per la sanità. Per questo sostengo che la malasanità è nel sistema. Quanto ai correttivi, credo che dobbiamo agire sull’organizzazione; la prima priorità è porre l’emergenza in un sistema a rete informatizzato e con la telemedicina, rivedere il concetto di ospedale che non deve avere più di 600 posti letto, destinati soprattutto a malattie acute e di alta specializzazione. Poiché in questi ospedali manca la rete delle cure cosiddette primarie, bisogna dare ai medici di medicina generale qualche competenza in più rispetto ad ora.
D. E come arrivare a tutto questo?
R. Facendo quello che in Veneto chiamano «country hospital» o ospedale di territorio, in modo che i medici, insieme, possano gestire piccoli nuclei di 20-40 posti letto. Cerchiamo di sviluppare una rete di cure primarie, che non sono solo l’attività ambulatoriale del medico della ASL ma un’associazione che colleghi 20-40 posti letto, che possano rappresentare un filtro di primo e secondo livello per evitare l’accumulo di pazienti negli ospedali ad alta intensità di cura; e con tale sistema realizzare un turn over con dimissioni abbastanza rapide, attivando sia un filtro prima di arrivare in ospedale, sia anche un’assistenza post acuzie.
D. Che cosa intende dire con questo?
R. In Italia non abbiamo più la post acuzie, negli ospedali giungono pazienti in maggioranza ultra 65enni o ultra 70enni con polipatologie, chiamati «malati complessi». In un ospedale di alta specializzazione, come dovrebbero essere quelli di non oltre 600 posti letto, si svolgono rapidamente diagnosi e terapie, ma dopo una settimana si deve proseguire la cura per un periodo che un tempo si chiamava convalescenza o lungodegenza; il termine più appropriato oggi è post acuzie o degenza intermedia, ma è una situazione rara perché prevale la tendenza ad inviarli nelle Rsa o a casa. In Italia si cominciano a provare alcune soluzioni e se queste, in una sperimentazione da 3 a 5 anni, funzionano, si applicano. Nel Nord questo già avviene, nel Lazio e nelle Regioni del Sud non esiste nulla.
D. Altre fonti di finanziamento?
R. Oltre alle Fondazioni, potrebbe esservi un secondo pilastro costituito dal fondo sanitario integrativo; se viene previsto nelle contrattazioni complessive, non è più un Fondo sanitario volontario ma, in quanto collettivo, il suo costo è molto più basso. Oggi in Italia ne usufruirebbero mediamente 7-8 milioni di cittadini, ma se i fondi fossero inseriti in tutti i contratti il costo sarebbe inferiore perché il rischio si spalma. Tale fondi dovrebbero colmare le attuali insufficienze relative alle post acuzie di soggetti non autosufficienti in residenze sanitarie assistenziali. Oggi la famiglia non è più quella di 30 anni fa; se due suoi componenti lavorano ma un soggetto non è autosufficiente, affidandolo a un istituto o a una badante i familiari non possono sostenerne il costo; interviene allora il fondo sanitario integrativo.
D. Qual’è la situazione attuale di Tor Vergata?
R. Sono orgoglioso di aver costruito, in un’area come il Sud-Est di Roma e in un quartiere con forti disagi sociali come Tor Bella Monaca, un’università culturalmente avanzata perché a disposizione anche di chi prima, per motivi di lontananza o di accessibilità, non poteva usufruire di istruzione superiore universitaria. L’Università di Tor Vergata è un vero  campus, unico in campo nazionale, dotato di un residence per gli studenti, che pagano poco. Ha varie facoltà, attività sportive, un policlinico avanzato; manca la metropolitana che giunge però vicino. L’area ha 600 ettari di verde, ha un piano e un progetto avanzato, interrotto per carenza di finanziamenti. Vi sorge una struttura architettonica e sportiva d’avanguardia, il Centro del Nuoto progettato dall’architetto spagnolo Santiago Calatrava, considerato da qualcuno il Colosseo del 2000. Doveva ospitare i Mondiali di Nuoto.
D. Se fosse ministro, quale farebbe come prima azione?
R. In Italia abbiamo tre medicine: ospedaliera, generale del medico di base e specialistica. Nella prima da 20 anni si tagliano i posti letto, c’è solo da riorganizzare le reti e gli ospedali. Non si è mai insistito sulla medicina locale, soprattutto nel Lazio; riorganizzerei l’area dei medici generali e la specialistica ambulatoriale creando il presupposto per i piccoli country hospital, con reparti a conduzione infermieristica. Proporrei un assetto retributivo diverso per i medici di base che percepiscono una quota fissa per ogni paziente; manterrei una quota capitaria più un compenso secondo il risultato, come una volta.    n

Tags: Marzo 2013

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