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ma non si può fare a meno delle banche?

Stefano Di Tommaso Compagnia Finanziaria

In Italia sono almeno 50 anni che le banche tendono a monopolizzare la risposta a tutte le principali esigenze delle imprese. Nel tempo le medesime si sono trasformate prima in banche universali, incorporando anche le attività che in passato erano state svolte dai Mediocrediti Regionali, con il beneplacito della Banca d’Italia, e poi ampliando sino all’estremo limite l’erogazione del credito estendendo la loro operatività a settori del corporate ed investment banking che non le vedevano certo eccellere in termini di competenza ed efficienza.
I risultati sono un’eccessiva concentrazione dei rischi cui il sistema bancario si è esposto e l’erogazione, in regime di scarsa concorrenza, di servizi di limitata competitività. Sino a quando l’economia italiana cresceva la cosa era stata parte del «modello di sviluppo italiano», generando peraltro un’elevata dipendenza delle imprese stesse dalle banche di relazione, e facendo dimenticare a entrambe la necessità di rafforzare la loro capitalizzazione.
I limiti di questo modello si sono visti chiaramente in occasione della più prolungata delle recessioni vissute in Italia dall’ultimo dopoguerra: la moltiplicazione dei crediti in sofferenza; la conseguente riduzione di capitalizzazione delle banche colpite; la generalizzata riduzione del credito disponibile; la forte «pro-ciclicità» del fenomeno che ha di fatto amplificato la caduta del prodotto interno lordo e la conseguente frenata degli investimenti; il limitato sviluppo del mercato interno dei capitali.
Negli ultimi tre anni però le imprese italiane si sono risvegliate bruscamente dal letargo finanziario, costrette dall’evidenza ad imparare in fretta a fare a meno delle banche e a trovare altrove le risorse che scarseggiano. L’argomento è stato evidenziato in un recente convegno a Roma persino da Fabrizio Saccomanni, già direttore generale della Banca d’Italia e oggi ministro dell’Economia.
«Le esigenze di credito dell’economia–egli ha affermato–dovranno essere soddisfatte da altri attori, soprattutto investitori istituzionali, e da nuove forme di intermediazione finanziaria, di cui sono un esempio i credit funds, ovvero quei fondi che erogano credito trasformando scadenze, rischi, liquidità. I credit funds, relativamente poco diffusi in Europa, intermediano negli USA circa l’80 per cento del credito a imprese e famiglie. Si tratta di intermediari la cui operatività rientra nello shadow banking, di cui generalmente si temono i rischi sistemici prodotti al di fuori del perimetro della regolamentazione. In un momento in cui il credito bancario è in significativa e prolungata contrazione, il ruolo del sistema bancario-ombra potrebbe tuttavia rivelarsi di supporto al rilancio dell’economia».
Parafrasando un precedente ministro dell’Economia, è come invitare i malati bisognosi di donazioni di sangue a un banchetto di vampiri, visto che l’Avis non può più assolvere alla propria funzione. Ancor più straordinario il fatto che l’esortazione a fare a meno delle banche arrivi da un ex banchiere centrale, il quale tuttavia non cita la manovra scontata di cui il sistema bancario del nostro Paese avrebbe molto bisogno: l’effettiva apertura a capitali stranieri delle compagini azionarie, per rafforzare il «Core Tier 1», una manna per aumentare il peso del Regulatory Capital sul totale dei Risk-Weighted Assets, che avrebbe un elevato effetto moltiplicativo sulla possibilità di erogare nuovo credito, senza contare il possibile apporto di una rinnovata composizione del management bancario.
Le banche sono figlie dei propri azionisti e dei propri consigli di amministrazione: rinnovare gli uni e gli altri con l’arrivo di capitali e competenze dall’esterno, senza agitare proditoriamente e poco utilmente la bandiera dell’Italianità, aiuterebbe a sottrarre il sistema a quella morsa che i partiti politici e le fondazioni bancarie impongono ormai da molti anni, con i risultati che vediamo. Oggi inoltre la globalizzazione spinge le imprese italiane ad incrementare la loro presenza internazionale mentre la recessione dei consumi, una parziale deflazione, la caduta dei prezzi di molti beni e servizi a causa di una debolissima domanda interna dei medesimi, l’ingente fuga dei capitali e un generalizzato ritardo dei pagamenti dalla stessa Pubblica Amministrazione, aggiungono benzina sul fuoco delle scarse risorse finanziarie disponibili.
In presenza di un quadro congiunturale così estremo le necessità di reperire capitali e finanziamenti si sono moltiplicate per le imprese nazionali, e sono divenute ancor più ghiotte le opportunità di impiegare ad ottime condizioni, per chi ne dispone, le risorse disponibili. Sempre che esistano imprenditori che possano permetterselo, il modo migliore per dipendere meno dal sistema bancario sarebbe disporre di liquidità, anche quando essa non serve immediatamente, per cogliere le occasioni che il mercato offre e trarne un elevato reddito.
Uno stretto succedaneo al «tesoretto» di liquidità potrebbe consistere nella riduzione dei debiti correnti (anticipazioni di circolante) a favore di strumenti di finanziamento impostati sul medio e lungo termine, sempre che si riesca ad ottenerli, quali un mutuo o un’emissione obbligazionaria. Laddove infatti l’aver raccolto in tal modo nuove risorse finanziarie possa determinare liquidità in eccesso, si possono azzerare con le banche le partite correnti poiché un’impresa che volesse velocemente disporre di liquidità per acquisizioni o investimenti, potrebbe tornare ad utilizzarle, senza troppe lungaggini, rianticipando gli effetti commerciali in portafoglio con strumenti monetari e fidi di breve termine.
In questo modo il «costo» dell’aver raccolto per tempo finanza per i futuri investimenti può tendere quasi a zero, «accumulando» capacità di credito a lungo termine e controbilanciando parte dell’onere non utilizzando temporaneamente i fidi a breve termine. Accumulare liquidità è spesso un elemento necessario per molte imprese che devono agire velocemente in investimenti produttivi e tecnologici nonché in possibili acquisizioni: a volte non è pensabile attendere un finanziamento bancario a medio-lungo termine.
Tuttavia il mondo del credito, almeno sino a ieri, ha erogato finanza sulla base di logiche proprie e diverse da quelle del mercato dei capitali, basandosi principalmente sulla disponibilità di garanzie e con un’escursione relativamente limitata del tasso di interesse applicato ai finanziamenti. Inoltre il sistema bancario, oggi ingolfato nella gestione delle partite incagliate e stretto da crescenti necessità di dotazione di capitale, risulta sempre meno disponibile a nuove erogazioni. Dunque l’individuare alternative al canale del credito bancario, cioè chi è disposto ad investire del capitale di rischio e quella parte degli operatori del mercato dei capitali attiva anche nella sottoscrizione di bond, mini-bond e strumenti ibridi di finanziamento, può risultare l’unica strada realmente aperta per l’impresa che cerca risorse.
Questa via è tuttavia dotata di proprie e diverse regole, ed è a volte molto più cara, anche perché le decisioni degli investitori per l’erogazione del denaro dipendono sempre dal rating dell’impresa prenditrice - non solo quello ufficiale, ma anche quello implicito laddove il primo non fosse disponibile -, e questo svantaggia non poco gli attori economici italiani; la nostra Repubblica è solo una tripla B, con il rischio di subire l’ennesimo downgrading. Per queste ragioni e favoriti dalla normativa che ha introdotto sgravi e semplificazioni per l’emissione di mini bond, oggi i principali gestori di fondi di «private equity» stanno lavorando o anche solo valutando di mettersi alla raccolta di nuove risorse per costituire dei «credit funds» italiani.
La buona notizia è la liquidità aggiuntiva che ciò potrà procurare alle imprese italiane andando a costituire una vera fonte alternativa di finanziamento; quella meno buona è che la decisa selezione iniziale che gli investitori opereranno tenderà probabilmente a ridurre la portata in termini di dimensioni nazionali del fenomeno, e a far proporre loro finanziamenti al sistema produttivo a costi ben più elevati di quelli delle banche. Peraltro, quando esiste un’opportunità che viene da esigenze insoddisfatte delle imprese, molte altre tipologie di soggetti tendono ad affollare la «piazza»: piattaforme on-line e società private di investimento di ogni provenienza offrono ugualmente soluzioni alternative al finanziamento bancario, a partire dall’acquisto dei crediti commerciali.
Sino ad oggi gran parte della classe politica imprenditoriale italiana ha agito in maniera «emozionale» rifiutando troppo spesso l’ingresso di soci terzi nella propria compagine e vivendo l’azienda come un’appendice della propria famiglia. Oggi l’aria è cambiata, la liquidità non può più arrivare a basso costo e da un sistema bancario «bloccato», e si è creato un ampio spazio per il mercato dei capitali e i finanziamenti che da esso possono arrivare.
L’eccesso di burocrazia, di lentezza e, di recente, la poca concorrenza tra le ultime grandi banche rimaste sul mercato, ma anche la ristrettezza delle capacità finanziarie delle banche locali e di piccolissime proporzioni, sono tutte concause che portano inevitabilmente gli imprenditori a valutare anche altre dimensioni del prestito: la rapidità, l’elasticità operativa, l’adeguamento del costo di questi strumenti al reddito generato con gli investimenti finanziati, la partecipazione ai risultati, clausola espressamente prevista anche per i mini bond.
È su questi temi che non dubito che i nuovi operatori «privati» si sbizzarriranno. Dunque il mercato nazionale dei credit funds molto probabilmente partirà per fine anno, con la possibilità di crescere in funzione della capacità di sviluppare proposte innovative e una concorrenza con le banche, se mai questa esisterà davvero, non basata sul prezzo. Ma poiché è improbabile che la comunicazione istituzionale dei nuovi finanziatori passerà nei grandi media, sarà interessante osservare attraverso quali canali essi sceglieranno di raggiungere le più interessanti imprese. Peraltro è da valutare attentamente anche l’aspetto reciproco: come faranno le imprese a reperire e selezionare i migliori finanziatori?
Un primo scontatissimo veicolo sarà costituito dai professionisti che assistono l’impresa, i dottori commercialisti in primis, i quali potranno agire meglio di tanti altri intermediari nel mettere in contatto prenditori e finanziatori basandosi sulla loro approfondita conoscenza delle imprese clienti e sul passa-parola professionale che ne deriverà. Il punto tuttavia è che non bastano un incontro e una stretta di mano per procedere con le operazioni: bisogna che le imprese siano in grado di comunicare i loro dati economici attuali e prospettici, e che i finanziatori che li ricevono risultino rapidamente in grado di «interpretarli» e svolgere con efficienza le numerose istruttorie iniziali.
Oggi ancora non è così: l’industria del private equity dalla quale prenderanno spunto i primi credit funds - almeno fintanto che non entreranno a pieno titolo nel mercato direttamente i più grandi tra i fondi pensione e gli investitori istituzionali - non è certo attrezzata per lavorare su grandi numeri di pratiche e occorrerà del tempo prima che la pletora di nuovi operatori del credito subisca una naturale selezione, si organizzi e veda emergere una capacità diffusa di erogare risorse nel territorio.
Per questo motivo potranno più probabilmente entrare presto in gioco le banche d’affari, le «boutiques finanziarie», i consulenti indipendenti e sinanco talune banche ordinarie: vale a dire quelle istituzioni più specializzate ed avvezze proprio ad aiutare le imprese a mettere a fuoco informazioni finanziarie e piani industriali, abituate a lavorare per reperire, selezionare e favorire l’interesse di coloro che possono fornire alle imprese ogni forma alternativa di finanziamento.
La questione però è tutt’altro che banale, poiché il mercato dei capitali parla una sola lingua universale, impone a tutti le proprie regole e metodologie, richiede di trovare riscontro alle informazioni fornite in attraenti e trasparenti Piani strategici e industriali, esige che attraverso di essi l’impresa dimostri, e verifichi, la propria capacità di sostenere la pressione competitiva internazionale e di far crescere il margine operativo che ha generato in passato.
Nonostante quello del Piano sia sicuramente il compito più difficile, ve ne sono molti altri per meritare attenzione da parte degli investitori istituzionali: la definizione di valide e sufficienti garanzie collaterali; la messa a punto della struttura dell’operazione; l’ortodossia nelle modalità di erogazione e impiego del denaro; il collegamento diretto con le evidenze numeriche mostrate dal Piano. Per ciascuno di questi temi esistono già, anche nel mercato italiano, degli skills consolidati con la clientela di maggiori dimensioni che nessuno, meglio degli intermediari specializzati, è in grado di dominare e applicare in tempi ristretti.
Resta da valutare quanto i piccoli e medi imprenditori italiani sapranno mostrare capacità di dialogo e di adattamento camaleontico alle nuove tendenze del mercato finanziario: la posta in gioco è la sopravvivenza stessa dell’azienda. Ma in definitiva non si può non notare come il mantra del «fare a meno delle banche» resti un’esortazione piuttosto che una vera previsione poiché, mentre le imprese devono aprirsi al mercato dei capitali e alla necessità di nuovi paradigmi, anche il sistema bancario italiano dovrà per certo corrispondentemente rinnovarsi, internazionalizzarsi e dotarsi di nuove competenze.

di Stefano L. Di Tommaso, amministratore delegato di La Compagnia Finanziaria

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