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AGENZIE DI RATING: SONO FATTORI DI CRISI, NON VANNO PIÙ ASCOLTATE

 

Le intercettazioni non concordate dai redattori delle sue riviste con gli interlocutori telefonici non hanno fatto perdere a Rupert Murdoch soltanto l’immagine di maggiore editore internazionale. Oggi non è più ritenuto l’australiano più ricco del mondo. In un agosto segnato da un’indecifrabile meteorologia finanziaria aggravata e in parte provocata dai fulmini delle agenzie di rating, pochi hanno osservato che una signora di 57 anni, Gina Rinehart, stava salendo molto in alto, dal centesimo posto della classifica della rivista Forbes fino al primo, e diventava l’australiana più ricca, con un patrimonio passato dai 2 miliardi di dollari del 2010 ai 9 miliardi attuali, con le ottime prospettive assegnate al settore estrattivo. La signora Rinehart, ereditata dal padre la società Hancock Prospecting, l’aveva fatta diventare la quinta impresa mineraria del mondo, in competizione con colossi delle miniere d’oro, ferro e carbone come Vale o Rio Tinto.
Secondo i media australiani, applicando alla Hancock il rapporto prezzo/utili di 11 volte assegnato dalla loro Borsa alla concorrente Rio Tinto, il patrimonio della signora Rinehart avrebbe già un valore di 30 miliardi di dollari; e se le promettenti esplorazioni in alcune miniere d’oro si rivelassero interessanti come la redditizia Hope Dows, potrebbe raggiungere i 100 miliardi, superando i 74 miliardi di Carlos Slim e i 50 di Bill Gates. Una prospettiva possibile con un prezzo del metallo giallo incrementato in 12 mesi del 50 per cento in un agosto che è stato e continuerà ad essere il momento dell’oro, favorito dalla persistente crisi dei mercati finanziari.
Non soltanto per gli acquisti di tonnellate di lingotti da parte di banche, imprese e Stati, per la riconosciuta natura di bene rifugio ideale nei momenti di gravi incertezze delle Borse e delle valute, ma anche per la diffusa ricerca di nuove aree di estrazione da quando la quotazione dell’oro ha superato quella del platino, mentre il prezzo del petrolio Wti scendeva a 92 dollari al barile e il Brent a 114.
Dopo 13 anni di blocco degli acquisti aurei deciso dal Governo di Seul, quando fu costretto dalla crisi finanziaria a imitare l’appello agli italiani dell’autarchia fascista di donare l’oro alla Patria, il 2 agosto scorso la Corea del Sud ha fatto comperare dalla Banca centrale 25 tonnellate di lingotti, con un costo di 1,24 miliardi di dollari, per rimpinguare le scorte. Le riserve auree di Messico, Russia, Thailandia, Grecia e Spagna sono state incrementate dalle estrazioni nelle loro aree aurifere. In Spagna, l’Astur Gold ha ripreso le ricerche anche nelle zone già sfruttate all’epoca dell’impero romano, in particolare a Salave nel nord del Paese, considerandole uno dei maggiori depositi di oro dell’Europa occidentale finora non sfruttati. Grazie alle nuove tecnologie si pensa all’estrazione del 90 per cento delle possibilità, come a circa 120 chilometri di distanza la Orvana Minerals sta già ottenendo nella miniera di El Valle-Boinas.
Acquisti ed estrazioni per ripianare i bilanci in perdita resi possibili dalla decisione nel 1971 degli Stati Uniti di porre fine alla convertibilità ufficiale al prezzo di 35 dollari l’oncia stabilito nel 1944 con gli accordi di Bretton Woods. Oggi per le Banche centrali vige il CBGA, Central Bank Gold Agrement, un accordo quinquennale firmato per la prima volta nel 1999 tra le Banche centrali europee, rinnovato nel 2004 e nel 2009, cui hanno aderito anche le Banche centrali svizzera e svedese, nel quale è specificato che «l’oro rimane un importante elemento delle riserve monetarie globali», con l’impegno per gli istituti nazionali aderenti a concertare i loro programmi di vendite di oro fino a 400 tonnellate annue per un massimo, nel quinquennio, di 2.000 tonnellate, pari a 64 milioni di once in totale. Nei 20 anni di vita dell’accordo hanno venduto oro la BCE e le Banche centrali di Austria, Belgio, Francia, Germania, Grecia, Olanda, Portogallo e Spagna, mentre l’Italia ha conservato intatto salvo alcuni incrementi il proprio patrimonio di 79 milioni di once nei sotterranei di Palazzo Koch a Roma, superata in Europa solo dalla Germania con 109 milioni.
Insieme alla rivalutazione dell’oro, poco considerata dai media più attenti alle pagelle delle agenzie di rating e alle conseguenti quotazioni di Borsa, l’estate ha anche evidenziato la crisi dei protagonisti dei più clamorosi eventi finanziari su scala mondiale, detentori di importanti ricchezze, arbitri spesso delle fortune o delle disgrazie di imprese anche grandi, degli azionisti, degli stessi Paesi. E dei risparmiatori, preoccupati della perdita di valore delle modeste o piccole fortune per loro essenziali, spesso i risparmi di una vita di lavoro: costituiscono la maggioranza delle vittime dei 472 casi insolvenza per oltre mille miliardi di dollari nei confronti dei sottoscrittori di obbligazioni, a partire dal fallimento della Lehman Brothers negli Stati Uniti, indicati nella corposa indagine condotta tra il 2008 e il 2010 da Standard & Poor’s.
Situazioni anonime, sconosciute, diverse da quelle apparse nei media. Nei primi giorni dello scorso agosto nei giornali internazionali è apparsa una foto di Carlos Slim Helù visibilmente depresso per aver perduto in una settimana a causa delle svalutazioni 6,7 miliardi di dollari, rimanendo comunque con 64 miliardi il più ricco finanziere del mondo: a irritarlo non era l’entità della cifra perduta, ma che il fatto fosse avvenuto nel suo business principale, la compagnia telefonica América Movil, con la cui privatizzazione lui, figlio di un libanese emigrato in Messico nel 1902, venti anni prima aveva cominciato la grande ascesa nella ricchezza, creando un conglomerato di circa 200 imprese.
Convinto dell’assurdità del mercato dei subprime, ossia dei prestiti per una somma superiore al valore reale dell’immobile, concessi per incrementare il mercato finanziario anche a poveri diavoli non in grado di pagarne le quote, John Paulson, il ragazzo dei Queens, ha fatto incetta dei titoli quando valevano meno della carta straccia alla vigilia del default, creando le premesse di una fortuna di 20 miliardi di dollari, ed oggi ha in portafoglio il terzo hedge fund del mondo, il Paulson & Co, accanto a consistenti quantità di azioni delle maggiori banche americane, dalla Bank of America alla Citigroup.
Oggi Paulson confessa la perdita del 10 per cento del valore del suo fondo nella prima settimana di agosto. Per evitare il ritiro dei sottoscrittori ha scritto loro una lettera per rassicurarli: il 36 per cento del fondo è ancora nelle mani dei suoi partner che non intendono ritirarsi. Intende invece farlo, avendo raggiunto gli 81 anni di età, George Soros, chiudendo il proprio hedge fund Quantum e restituendo il capitale a tutti gli investitori esterni. Così almeno ha dichiarato. D’ora in avanti si limiterà ad amministrare i 24,5 miliardi di dollari, che costituiscono il capitale della famiglia, insieme con i figli Jonathan e Robert.
Il Wall Street Journal ha ricordato, tuttavia, che già altre volte aveva annunciato il ritiro, e che è difficile vedere al computer, intento a seguire l’andamento dei propri investimenti come un piccolo pensionato della natìa Budapest, un personaggio che ha studiato alla London School of Economics e seguito le lezioni di Karl Popper sulla «società aperta», e che si è appassionato alla Teoria matematica pura, applicandola poi con notevole abilità ai mercati finanziari con l’acquisto e la vendita a breve termine di titoli e valute: «Sono ricco perché capisco quando sbaglio», è il suo motto.
Definito «l’uomo capace di spezzare la Banca d’Inghilterra», Soros nel 1992 ha acquistato fama internazionale quando ha affermato che Gran Bretagna e Italia non potevano reggere, nel Sistema Monetario Europeo, per il dissesto delle finanze pubbliche e per il deficit di competitività. Con le speculazioni sulle monete è stata accelerata la crisi della lira e della sterlina. Un exploit ripetuto cinque anni dopo preannunciando, ma in realtà provocando secondo gli economisti suoi critici, la grande crisi finanziaria del Sudest asiatico.
Soros ha scritto tre libri nell’arco di venti anni. L’ultimo nel 2008, con la previsione dell’imminente scoppio di una superbolla finanziaria a livello globale. «Ho gridato al lupo tante volte, solo alla fine il lupo è arrivato», dice adesso. Democratico convinto e progressista da sempre, ha lottato duramente per allontanare dalla Casa Bianca il presidente George W. Bush e ha sostenuto attivamente l’elezione di Barack Obama le cui riforme finanziarie, con le nuove rigorose regole di trasparenza tra le quali l’obbligo di registrazione presso l’organo di vigilanza Sec, non sono ritenute del tutto estranee alla sua decisione di chiudere l’hedge fund e ritirarsi.
Intanto, a soli 74 anni, con una nota ai 98 mila dipendenti si è realmente ritirato nel gennaio scorso Amancio Ortega, l’uomo più ricco di Spagna, sconosciuto al mondo della moda anche di nome mentre tutti, compresa la stampa di settore, conoscono la grande catena di magazzini Zara creata da lui, umile figlio di un ferroviere, nel momento giusto, l’anno della morte del caudillo Francisco Bahamonde Franco dopo un quarantennio di dittatura, per vendere agli spagnoli prodotti di buona qualità a basso prezzo in tempi di vacche magre. Senza di lui Zara rimarrà quello che è diventata?
In Francia Arnaud Lagardére ha un vasto catalogo di colossali interessi: spazio, armi, aerei, media, oltre alla bellissima modella ventenne belga Jade Floret. La più sostanziosa ricchezza della Germania è nelle mani di Susanne Klatten Quandt, significativamente chiamata Frau BMW. In Italia l’elenco dei ricchi può essere lungo o breve a seconda dei criteri adottati per la selezione. Affidati alle capacità di Sergio Marchionne, con la Exor che raccoglie il capitale degli oltre cento eredi gli Agnelli potrebbero tranquillamente godere il primato, ma in famiglia c’è chi preferisce litigare per la «roba» come in un romanzo di un Giovanni Verga piemontese anziché siciliano, arricchendo stuoli di avvocati.
Leonardo Del Vecchio con Luxottica, Tod’s di Diego Della Valle, Indesit dei Merloni, Francesco Gaetano Caltagirone tra immobiliare, media e finanza, i Benetton fratelli e figli, Silvio Berlusconi, Alberto Pirelli, Giampiero Pesenti, Marco Tronchetti Provera, Carlo De Benedetti ora cittadino svizzero con media, finanza, energia, ed altri ancora sono citati spesso più nelle cronache mondane o politiche che in quelle economiche. È difficile classificarli: sono imprenditori tutti, finanzieri tutti, editori o membri di consigli di amministrazione di banche, imprese, giornali, ed è questa una caratteristica tipica del mondo economico italiano.
Ci sono inoltre i vertici di grandi gruppi pubblici, come Paolo Scaroni dell’Eni o Pier Francesco Guarguaglini e Giuseppe Orsi della Finmeccanica. Altri, come Franco Tatò, variano tra impresa pubblica e privata. Jean-Paul Fitoussi, l’economista francese con buone radici in Italia, seduto nei consigli di amministrazione di Banca Intesa e Telecom, sostiene che nell’attuale difficoltà mondiale i ricchi sono diventati più ricchi e i poveri più poveri. Nei momenti di forte crisi, vige una regola non scritta, generalmente rispettata: «Quando i valori scendono, i poveri vendono e i ricchi comprano». Da oltre un anno i valori scendono nei mercati del dollaro e dell’euro. Nell’estate scorsa hanno visto autentici crolli dei valori, accompagnati se non provocati dalle valutazioni allarmate delle agenzie di rating.
Fra i grandi investitori, Blackrock, ritenuto il maggiore gestore mondiale di patrimoni per un valore di 3.600 miliardi in custodia, il giorno in cui le azioni Daimler sono scese sotto i 37 euro, ha aumentato la partecipazione del 5,72 per cento nella società che produce Mercedes, oltre al 3,9 per cento già acquistato nel dicembre 2009, il 2,03 per cento di Mediaset e l’1,8 per cento di Tod’s. Anche gli imprenditori italiani hanno fatto acquisti. Diego Della Valle il 19 agosto scorso avrebbe ampliato l’area dei propri investimenti, che già comprende il 14,5 per cento di Saks, uno dei migliori grandi magazzini degli Stati Uniti, oltre a RCS, Piaggio, Cinecittà e alla Fiorentina Calcio con l’acquisto di 12 milioni di azioni Mediobanca per una spesa di circa 70 milioni, salendo dallo 0,45 all’1,9 per cento.
Francesco Gaetano Caltagirone e Leonardo Del Vecchio avrebbero aumentato le loro quote arrivando al 2,2 per cento il primo e al 2 per cento il secondo nelle Assicurazioni Generali, il titolo italiano preferito dagli investitori internazionali, il cui valore di Borsa era nel 2007 di 42 miliardi e che ha chiuso il 19 agosto a poco più di 18. Rispetto al periodo prima della crisi, Mediobanca ha perduto il 58 per cento, RCS il 72, Unicredit, primo azionista singolo di Mediobanca, è più debole di un anno fa e il nuovo amministratore delegato Federico Ghizzoni, che ha sostituito Dieter Rampl, deve affrontare un calo di Borsa che tra il 2006 e il 2010 ha dimezzato il capitale, con il valore del titolo passato da 1,53 euro a 94 centesimi.
La famiglia Berlusconi ha aumentato la partecipazione in Mediaset, arrotondando di circa l’1 per cento la quota controllata. Aumento citato nelle comunicazioni alla Consob sulle partecipazioni rilevanti, che porta la famiglia al 39,927 per cento del capitale del gruppo, detenuto per il 39,870 per cento da Fininvest, la holding di famiglia, e per lo 0,057 per cento da Holding Italiana Seconda, una delle finanziarie che controllano la stessa Finivest.
Complessa è anche la situazione generale nel mondo bancario. La Banca d’Affari Merrill Lynch da venti anni pubblica un rapporto sulle fortune finanziarie di quanti possiedono oltre un milione di dollari: nel mondo sono quasi undici milioni di persone con 42 mila 700 miliardi di dollari, il 72 per cento del prodotto mondiale del 2010. Nell’anno precedente erano diminuiti, nello scorso anno hanno recuperato oltre l’8 per cento: quasi una conferma della tesi di Fitoussi. Ma non solo gli speculatori acquistano nei momenti dei grandi ribassi. Quest’anno, con le agenzie di rating che ogni giorno impartiscono valutazioni sempre più severe, quale sarà la perdita raggiunta a dicembre? Con vantaggi di chi?
Come queste agenzie hanno acquistato l’autorità di provocare perdite di valore delle quotazioni di imprese, valute, bilanci pubblici? Negli Stati Uniti ci sono oltre tre milioni di milionari che possiedono un terzo della ricchezza mondiale. In Giappone sono un milione 730 mila, quasi un milione in Germania, la Cina è al quarto posto con 535 mila, superando Gran Bretagna, India e America Latina. L’Italia è al decimo posto con 170 mila milionari, dopo l’Australia e inseguita dal Brasile. Quanto queste cifre sono prodotte dall’andamento reale dello sviluppo delle rispettive economie, e quanto invece sono dovute all’influenza globale, positiva o negativa, delle valutazioni delle agenzie di rating? Da chi sono gestite queste? Chi ne sono i proprietari?
Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch sono definite dagli addetti ai lavori «le tre Parche della finanza». Nate circa un secolo fa negli Stati Uniti, per differenti strade hanno conquistato la capacità di influenzare i mercati di tutto il mondo con i loro rating: una A in più o in meno può determinare sviluppo o contrazione di un marchio nelle Borse. Una B significa stasi o, quanto meno, cautela per mancanza di sviluppo, una C è giudizio negativo. Altre agenzie, come l’A.M. Best specializzata nel campo assicurativo, oppure la Morningstar o la canadese Dominion, non hanno questa capacità globale ma un’influenza solo locale.
Ancora minore è il peso delle agenzie malese e cipriota nei loro stessi ambiti. La Cina ha lanciato la propria agenzia con un obiettivo difensivo nei confronti del dollaro. Quante volte, nella loro storia, le tre agenzie hanno favorito ascese indebite nel mondo della finanza, provocando rialzi dei tassi d’interesse, oppure hanno chiuso gli occhi per non sapere? Non sono mancate vicende gravi e pesanti. Basta citare i nomi di Enron e di Parmalat, la crisi dei derivati e dei subprime di cui ancora non sono esaurite le conseguenze in campo internazionale. Una catena di errori, di crisi e di scandali, pagati con la povertà da migliaia di famiglie che stanno interessando alcuni Tribunali in Italia e negli Stati Uniti aprendo, per la prima volta a livello internazionale, il problema della reale indipendenza delle agenzie dai grandi gruppi finanziari, sollevando interrogativi sul rapporto tra controllore e controllato e sull’effettiva influenza esercitata dalla speculazione internazionale.
Malgrado i circa 47 miliardi di dollari in portafoglio che lo fanno il terzo uomo più ricco del mondo e con il nomignolo di Oracolo di Omaha, cittadina del Nebraska dove è nato 81 anni fa, Warren Buffet, alla guida di un’autentica corazzata finanziaria americana, ha ricevuto l’oltraggio forse più grave per un uomo della sua levatura, importanza e attività: una bocciatura da parte di Standard & Poor’s, la maggiore delle tre grandi agenzia di rating. Come se un Premio Nobel in chirurgia venisse respinto al concorso per infermieri nell’ospedale di cui è proprietario.
Si chiama Berkshire Hathaway la società di investimenti di Buffet, considerato un azionista di grande trasparenza e correttezza; ha in portafoglio i principali pacchetti azionari di Coca Cola che ha rappresentato il suo primo grande successo e che, acquistata in un momento in cui sembrava avviata al fallimento, l’ha reso famoso nel mondo finanziario, American Express, Gillette, Procter & Gamble, Washington Post, la rete televisiva Abc e molti altri marchi, il meglio del mondo finanziario degli Stati Uniti. Oltre al 19 per cento di Moody’s, la seconda agenzia di rating.
Più che uno sgarbo, il suo declassamento da parte di Standard & Poor’s può apparire una dichiarazione di guerra tra le agenzie di rating, in competizione aperta tra loro nell’attuale, lunga e grave crisi finanziaria. A meno che non si tratti in realtà di un’ulteriore manovra speculativa per esaltare un valore o decapitarlo sotto la copertura di una finta controversia intestina nel mondo del rating, proprio nel momento in cui stampa economica, mondo politico e finanziario internazionale e investitori di grande importanza di ogni Paese mettono in discussione criticamente l’affidabilità dei loro laconici giudizi espressi in tripla, doppia o semplice A, ossia compra, oppure tieni, o vendi per il livello maggiore; B per l’intermedio; C per l’insufficienza. NR, Not Rated, è il minimo dei minimi, un ordine negativo perentorio di non comprare.
Nel 1929 due società americane spedirono, ad alcune migliaia di persone, cartoncini di 5 pollici per 7, misura accettata dalla posta, per consigliare di liquidare gli asset bancari posseduti prima del grande «crash» previsto per l’ottobre. Molti destinatari seguirono il suggerimento e salvarono gli investimenti. Le due società unite casualmente nella vicenda erano lo Standard Statistic Bureau fondato nel 1906 da Luther Lee Blake, e la Poor’s nata nel 1860 dal diario finanziario History of Railroads and Canals di Henry Varnum Poor. Dopo la spedizione dei biglietti postali si fusero dando vita alla prima agenzia di rating, la Standard & Poor’s. Quella stessa società che, secondo il Premio Nobel per l’economia Paul Krugman, insieme alla seconda società di rating, la Moody’s, nel 2008 aveva attribuito la tripla A, ossia l’attestato di massima affidabilità, ai titoli tossici responsabili della crisi della Lehman. Dopo questa vicenda le critiche, i dubbi, le accuse nei confronti delle società di rating sono in aumento, ma nei fatti esse fanno parte integrante del sistema finanziario, insieme a una terza agenzia, la Fitch Ratings nata nel 1913 a New York per opera di John Knowles Fitch.
Presidente di Standard & Poor’s, controllata da McGraw Hill, era Deven Sharma, di cui Barack Obama ora ha voluto la testa. Capital World Investors con il 12,45 per cento e Blackrock con il 5,44 sono i suoi principali azionisti. Presidente di Moody’s è Raymond W. McDaniel Jr., con il 12,47 per cento nelle mani di Warren Buffet che afferma di decidere vendite e acquisti solo leggendo il Financial Times, attraverso la propria holding Berkshire Hathaway. Con il 23,3 per cento il Capital World Investors e Blackrock con il 6,6 per cento sono gli altri principali azionisti anche di Moody’s, mentre Fitch è per il 60 per cento della francese Fimlac e per il restante 40 per cento della Hearst Corporation.
Pur avendo importanti gruppi comuni dell’azionariato, le agenzie valutano, ammoniscono, a volte condannano. Le imprese e gli Stati oggetto dei loro giudizi le finanziano pagando i servizi di rating che ricevono e sempre più spesso i mercati sono turbati dalle loro valutazioni. Ma questi giudizi sono affidabili e realmente autorevoli? Per i Paesi che si indebitano gli esami sono ininterrotti, non finiscono mai. Gli esaminatori sono numerosi - Unione Europea, Ocse, Fondo Monetario Internazionale, Birs, Bei, Banca Mondiale, Bce -; puntano agli stessi obiettivi, analizzano con gli stessi criteri. Ma per le agenzie valgono gli stessi criteri? Contano solo i modelli econometrici?
Nella realtà tengono conto anche delle aspettative dei mercati nei confronti dei soggetti sotto esame, della credibilità politica: fattori che non vengono espressi in numeri ma che influiscono notevolmente sulle valutazioni e sul clima sociale dei Paesi nei quali, in Italia soprattutto, i rating delle agenzie vengono usati come strumenti di lotta politica. La loro affidabilità diventa minima a causa degli innegabili condizionamenti nell’autonomia di giudizio e degli evidenti conflitti di interessi tra esaminati che pagano ed esaminatori che incassano.
Nelle audizioni parlamentari svoltesi in Usa sull’ultima crisi finanziaria, ex dipendenti di Moody’s hanno parlato di pressioni ricevute dai loro capi per essere «accomodanti verso le necessità dei clienti», ossia le investment bank che approvavano titoli poi rivelatisi tossici. I grandi gestori conoscono bene questi problemi. Bill Gross, manager del Pimco Total Return, il fondo obbligazionario più grande del mondo, non ha avuto difficoltà ad ammettere che «le agenzie di rating hanno giocato un ruolo insensato nel perpetrare e perpetuare la follia dei subprime; i loro avvertimenti sono stati più che tardivi sulle Enron e WorldCom degli ultimi dieci anni, e più recentemente la loro fede cieca nella solvibilità degli emittenti sovrani ha condotto agli eccessi della Grecia».
Oltre queste parole, sarebbe opportuno aggiungere alcune cifre: 8,4 è il valore in miliardi di dollari di Moody’s in Borsa, 508 milioni di dollari sono i profitti netti, 11 mila le società, di oltre 100 Stati, analizzate per i rating. Cifre ancora superiori quelle di Standard & Poor’s. In Germania si sta studiando di risolvere il problema del monopolio delle agenzie americane: con il consulente Roland Berger la Borsa tedesca, il Governo di Hessen, lo Stato federale di Francoforte stanno progettando una campagna per creare una agenzia di rating indipendente ed europea. Mentre Fitoussi continua a dire: «Le agenzie è meglio non starle più a sentire».

Tags: rating oro Fitoussi Novembre 2011

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