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SPESA STORY: CIA, OVVERO GLI ITALIANI ALLE PRESE CON I PREZZI

Campagne abbandonate e frutta sprecata nei dintorni di Roma per mancanza di manodopera

Era il 19 novembre 2009, oltre tre anni fa, quando la Cia-Confederazione italiana agricoltori, avvertendo che la situazione dell’agricoltura italiana si stava facendo sempre più grave e che gli agricoltori stavano vivendo una fase di grandissima difficoltà per l’aumento vertiginoso dei costi produttivi e contributivi e per il drastico calo dei prezzi, chiamò a raccolta per il 24 novembre migliaia di agricoltori invitandoli a scendere in piazza a Roma e a partecipare a due grandi sit-in davanti alla Camera dei Deputati e ai Ministeri delle Politiche agricole e dell’Economia. «Ogni giorno di più le imprese agricole perdono competitività nei mercati e i produttori vedono ridurre i propri redditi e aumentare gli ostacoli che impediscono di sviluppare una valida attività imprenditoriale», si spiegava in un comunicato. Per cui, dinanzi a una vera e propria emergenza e alla scarsa attenzione nei confronti dei problemi dell’agricoltura, la CIA promosse una mobilitazione nell’intero territorio nazionale dopo che manifestazioni interregionali di protesta si erano svolte a Milano, Perugia e Napoli. Parteciparono ai sit-in migliaia di agricoltori provenienti da tutte le regioni, e distribuirono prodotti alimentari ai cittadini della Capitale. Nella Conferenza sulla semplificazione della PAC, la Politica agricola comune, promossa a Bruxelles dalla CIA, il presidente nazionale di questa Giuseppe Politi aveva evidenziato l’esigenza di tagliare drasticamente i costi burocratici pari a 4 miliardi di euro per l’intero settore agricolo: 2 euro per ogni ora di lavoro, 20 euro al giorno, 600 al mese, 7.200 l’anno. Tanto spendeva, in media, un’azienda agricola italiana per pagare i costi della burocrazia, dei suoi adempimenti, dei suoi ritardi. Non era tutto. Occorrevano 8 giorni al mese per riempire le carte richieste dalla Pubblica Amministrazione centrale e locale, complessivamente 100 giorni l’anno. Compito che difficilmente l’imprenditore agricolo poteva assolvere da solo, per cui in 58 casi su 100 era costretto ad assumere una persona che svolgesse tale attività, e nei restanti 42 casi su 100 doveva rivolgersi a un professionista esterno, con costi immaginabili. Nella Conferenza era emerso di più: la burocrazia rappresentava un fardello molto pesante per l’intero settore agricolo che ogni anno si vedeva sottrarre, da questo «divoratore di risorse», più di 4 miliardi di euro, il 30 per cento dei quali a causa dei suoi ritardi, disservizi e inefficienze. Secondo i dati relativi al primo semestre del 2009, tutta l’imprenditoria italiana spendeva in burocrazia oltre 21 miliardi di euro l’anno, più di 2 mila euro ad impresa, pari a un mese di stipendio. Non erano servite a niente la semplificazione amministrativa degli ultimi anni, l’avvento di internet e della digitalizzazione. Per il 6 per cento degli imprenditori agricoli, sosteneva la CIA, la semplificazione era un fattore indispensabile per lo sviluppo, invece in quell’anno 2008, a causa di questa «zavorra», il 34,3 per cento delle aziende agricole aveva rinunciato ad assumere personale, il 25,5 per cento aveva accantonato progetti di ammodernamento, il 21,5 per cento non aveva compiuto alcun investimento, il 18,7 per cento aveva dovuto ridurre le coltivazioni. Oltre al costo economico, per le imprese, l’aspetto più «odioso» era costituito dalle lungaggini e dai tempi impiegati per evadere una semplice pratica amministrativa sbrigabile in poche ore o minuti. Per avviare un’azienda i giovani imprenditori agricoli dovevano pagare 18 volte di più rispetto alla media europea; per ottenere l’autorizzazione a costruire una struttura aziendale occorrevano più di 20 pratiche, circa 300 giorni rispetto ai 60 negli Stati Uniti, e una spesa tripla rispetto a quella della Spagna. Per pagare imposte e contributi, divisi in più di 20 versamenti l’anno, un agricoltore perdeva complessivamente 360 ore rispetto alle 203 della media europea. Nel 2008 l’onere per gli adempimenti amministrativi aveva costituito in media tra il 22 e il 28 per cento dei costi sostenuti dalle imprese agricole. Sarebbe bastata una riduzione del 25 per cento del carico dell’apparato burocratico - che pesava per il 4,5 per cento sul prodotto interno rispetto al 3,5 per cento dell’Unione europea -, per risparmiare quasi 31 miliardi di euro, pari all’1,7 per cento del prodotto interno. Semplificazione amministrativa, snellimento delle procedure e riduzione degli oneri burocratici rappresentavano quindi un’esigenza fondamentale per tutta la società. Nella Conferenza di Bruxelles la CIA aveva elencato le priorità per la semplificazione: domanda unica per l’accesso ai benefici della PAC, fascicolo aziendale digitale, unificazione dei registri gestionali, dichiarazione unica per l’accesso alle prestazioni sociali, sportello unico per le attività produttive e sussidiarietà, procedure in materia di lavoro, leggi sulla sicurezza alimentare, razionalizzazione dei controlli, semplificazioni amministrative in materia ambientale. La CIA denunciava l’«ipertrofia normativa», talvolta non giustificata o sproporzionata rispetto agli obiettivi, che comportava il rischio di un uso delle risorse comunitarie molto inferiore a quanto possibile per l’agricoltura italiana. L’accoglimento delle proposte della CIA avrebbe comportato una riduzione media del 30 per cento dei tempi impiegati dai produttori nella predisposizione delle domande PAC. Altri benefici riguardavano: riduzione significativa dei costi della Pubblica Amministrazione; migliore uso delle risorse comunitarie; riduzione di ostacoli alla libera iniziativa imprenditoriale; miglioramento delle relazioni tra imprese, Pubblica Amministrazione e politici. Ma le faticose sedute della Conferenza di Bruxelles non approdarono a nulla; unica consolazione la notizia, diffusasi qualche giorno dopo, che la CIA aveva finalmente ottenuto dall’Unione Europea il riconoscimento del marchio STG, cioè Specialità Tradizionale Garantita, per la pizza napoletana, ossia una norma di tutela della vera pizza napoletana, dopo «una battaglia che gli agricoltori hanno condotto per la salvaguardia delle loro produzioni tipiche e di qualità, oltreché per garantire i consumatori–affermava un comunicato della Confederazione–; una prima forma di tutela di fronte al rischio concreto di acquistare un prodotto alimentare trasformato, non conforme alla ricetta tradizionale e realizzato con ingredienti di pessima qualità; un risultato che può rappresentare un precedente valido anche per altri preparati tipicamente made in Italy». Ma presto la notizia di questo «entusiasmante» risultato scompariva dinanzi ai bollettini di guerra provenienti dal comparto dell’olio di oliva, ingrediente indispensabile proprio per la sopravvivenza di tale pizza. Eccone uno: «Produttori in ginocchio, crollano i prezzi di olive e olio, molte imprese lavorano in perdita. Subito interventi concreti». Era l’autunno ormai avanzato, si avvicinavano l’inverno e le feste natalizie, ma negli uliveti era diffuso lo sconforto perché buona parte dell’olio della precedente stagione era ancora invenduto, le nuove olive erano destinate a svernare sugli alberi in balia di tordi e storni che ne vanno pazzi, tantopiù che agli olivicoltori conviene sempre più che se le riprenda la natura. La situazione è molto difficile, osservava la CIA, ed è aggravata dalla concorrenza straniera, i nostri mercati sono invasi da prodotti provenienti da Spagna, Grecia e Tunisia, i costi continuano a salire, problemi si registrano in tutte le regioni ed è necessario ormai che il Governo dichiari lo stato di crisi: anche per gli olivicoltori è tempo di vacche magre, anzi magrissime. E forniva alcune cifre. I prezzi delle olive e dell’olio registravano crolli verticali, del 20-25 per cento, mentre i costi di produzione, gli oneri sociali e burocratici continuavano a salire in maniera insostenibile. Vista la caduta verticale dei prezzi all’origine, in molte aziende neppure si cominciava la raccolta per evitare una netta e sicura perdita. Amara constatazione era apprendere che la qualità della produzione si annunciava buona. Si prevedeva di registrare una produzione totale olivicola sulle 510 mila tonnellate rispetto alle 600 mila del 2008, invece una serie di problemi stavano «mettendo in ginocchio» moltissimi produttori in tutte le regioni: Puglia, Toscana, Calabria, Sicilia, Umbria Abruzzo; ovunque si produceva sotto costo. E questo mentre centinaia o migliaia di tonnellate di olive giungevano da Spagna, Tunisia e Grecia deprimendo il mercato e mettendo fuori combattimento i produttori italiani. Ovunque si chiedevano interventi immediati per sostenere le aziende a rischio di chiusura: stato di crisi, slittamento di pagamenti contributivi e fiscali, ritiro dal mercato di quantitativi di olio d’oliva da destinare a scopi solidaristici, per far aumentare i prezzi. Nei primi anni 50 per combattere la crisi del vino il Governo ne fece acquistare ingenti quantitativi per le Forze Armate. Dal 2009 sono trascorsi tre anni ma la situazione non è migliorata, anzi si è aggravata con il progredire della crisi economica mondiale. Finché la scorsa estate, per scuotere dall’inerzia i responsabili, la CIA ha cercato di sensibilizzare le forze politiche, sociali ed economiche per difendere e valorizzare l’ambiente rurale, arginare l’incuria, il degrado e l’abbandono delle campagne, rivendicare all’agricoltura un ruolo di presidio e di tutela del territorio; inoltre la CIA ha accolto con favore un disegno di legge proposto dal ministro delle Politiche agricole, alimentari e forestali Mario Catania per bloccare le speculazioni sulla terra tolta agli agricoltori, rilanciare la produzione agricola, sostenere il reddito degli agricoltori. Si svolgono manifestazioni in tutte le regioni. «Vogliamo salvare la terra coltivabile e il paesaggio naturale, basta con le devastazioni, con la distruzione di un patrimonio inestimabile che intendiamo difendere con ogni mezzo», annuncia il presidente Politi ricordando i disastri provocati un anno fa dal maltempo in Liguria e in altre regioni a causa della mancata manutenzione del suolo, dell’incuria ambientale, dell’abbandono delle zone collinari e montane, dove è venuta meno la fondamentale presenza dell’agricoltore. In poco meno di dieci anni l’agricoltura ha perso una superficie di oltre 19 mila chilometri quadrati di terreno coltivabile, pari all’intero Veneto. «Quanto di drammatico avvenuto in decenni di totale incuria e devastazione del territorio non consente ulteriori indugi, occorre porre immediato riparo e costruire in tempi rapidi un sistema ambientale realmente sostenibile, valorizzando l’agricoltura quale volano di riequilibrio territoriale, produttivo e sociale», è la ricetta di Politi. Trascorrono alcune settimane tra preoccupazioni, crescenti disagi, pesanti misure del Governo imposte dalla crisi economica in atto, e si affina la reazione degli italiani che restringono gli acquisti, li improntano al massimo risparmio, vanno a caccia di discount, sconti, offerte speciali. Lo scorso luglio i rincari sui cartellini sembrano rallentare e gli agricoltori ne rivendicano il merito attribuendo il fenomeno ai prezzi degli alimentari freschi come frutta e verdura; e questo malgrado le nuove difficoltà costituite dalla persistente siccità, dalla riduzione dei raccolti, dall’aumento dei costi per l’energia elettrica e l’irrigazione. Anche il carrello della spesa frena un po’ ma è sempre troppo caro per le tasche degli italiani. Il paniere delle famiglie resta ancora su valori molto alti, gli effetti sulla capacità di spesa e sui consumi sono disastrosi, con un crollo del 2 per cento. Prudenza e ricerca di massimo risparmio inducono un maggior numero di italiani a frequentare di più i negozi, ma alla ricerca di sconti, promozioni commerciali e offerte speciali; si calcola che due famiglie su cinque comprano quasi esclusivamente nei discount. I comportamenti di spesa sono improntati al massimo risparmio: il 53 per cento delle famiglie cerca sconti, promozioni commerciali e offerte speciali; il 42 per cento privilegia le grandi confezioni o i formati-convenienza; il 32 per cento abbandona le grandi marche per prodotti «senza firma». E c’è chi, il 24 per cento, ricomincia a fare «cucina di recupero» con gli avanzi della tavola per evitare completamente gli sprechi, riferisce la CIA.  Sempre nello scorso luglio, tra i prodotti al bancone del supermercato il prezzo del pane aumenta del 2,2 per cento rispetto al 2011, quello del vino del 3,9 per cento; restano a buon mercato i prodotti freschi tanto che i prezzi della frutta diminuiscono dell’8,8 per cento, quelli della verdura del 4,9 per cento. L’agricoltura si attribuisce quindi il merito di sostenere le famiglie sfiancate dalla crisi: nel solo giugno i prezzi pagati agli agricoltori calano dello 0,3 per cento annuo con un crollo, pari al 31,2 per cento, soprattutto per l’olio d’oliva; dei cereali del 18,9; del latte e derivati del 10,7 per cento. Ma, spinte dal Governo Monti che impone l’IMU agli immobili agricoli, nuove minacciose nubi si addensano sul mondo agricolo. Politi chiede di riaprire sollecitamente il confronto con le organizzazioni professionali per renderne più sopportabile, per le imprese agricole, l’effetto delle nuove aliquote fissate dai Comuni. Gli agricoltori appaiono sempre più infastiditi e danneggiati da ostacoli e problemi vari. Con l’inoltrarsi dell’autunno ricominciano i disastri naturali - alluvioni, frane, smottamenti -, facilitati dalla scarsa o inesistente manutenzione del territorio; 8 Comuni su 10 sono in aree ad elevato rischio idrogeologico, e anche questo preoccupa gli agricoltori angustiati dalle ultime notizie: le vendite al dettaglio sono calate in luglio del 3,2 per cento rispetto a un anno prima; così pure nella grande distribuzione, nel piccolo dettaglio ma anche nei discount e nei supermercati che dall’inizio dell’anno non avevano mai registrato valori negativi, tranne in aprile.   «Il dato di luglio aggrava un quadro già allarmante, è un vero crollo, è il più basso dal 2009, indica che un intero mondo merceologico è al tappeto per i continui rinvii degli acquisti da parte dei consumatori, ormai con risorse sempre più scarse–afferma il presidente della Federdistribuzione Giovanni Cobolli Gigli,–. Il calo dei consumi alimentari è il segnale di una spirale recessiva e di un progressivo impoverimento delle famiglie». Potrà realizzarsi quel rilancio dei consumi auspicato dal Governo Monti nell’avviare una Fase 2? Siamo ormai a fine settembre 2012. L’Agenzia del Territorio comunica l’andamento del mercato immobiliare; rispetto al 2011, nel secondo trimestre 2012 si è accentuato il calo addirittura del 24,9 per cento, rispetto al calo del 17,8 del primo trimestre. Nello stesso giorno si apprende che una famiglia su tre riduce la spesa ed elimina frutta e verdura dal menù; pertanto in un anno ne arrivano sulla tavola 9 chili in meno. Farà anche bene alla salute, è varia, colorata e di qualità, eppure la scure si abbatte pesantemente anche sull’ortofrutta. Colpa dei prezzi al consumo troppo variabili, dell’educazione a un’alimentazione non radicata, della minore capacità di spesa che induce a considerare la frutta un lusso e a comprare cibi di basso costo. E arriva uno studio della CIA ancora più dettagliato: nel 2011 ogni famiglia ha acquistato 5 chili in meno di frutta, 3 chili in meno di verdura e 1 chilo in meno di ortaggi surgelati, causando un calo complessivo dei quantitativi del 2,6 per cento tendenziale, per un totale di 8,3 milioni di tonnellate. Poi la CIA spiega che la crisi dei consumi di ortofrutta parte da più lontano: in 11 anni gli acquisti sono diminuiti del 23 per cento a famiglia, passando dai 450 chili del 2000 ai 347 del 2011. Ossia in poco più di un decennio si sono persi oltre 100 chili per nucleo familiare, con conseguenze sulla dieta degli italiani e soprattutto sui redditi dei produttori. Oggi la spesa annua media per l’ortofrutta supera i 13 miliardi di euro e i prezzi al consumo, anche con i consumi in discesa, aumentano invece di diminuire, rispettivamente del 5,8 per cento la frutta e del 4,8 per cento i vegetali freschi ad agosto, con il risultato che gli agricoltori non ne traggono alcun vantaggio. Il settore ha bisogno di una ristrutturazione, l’ortofrutticoltura rappresenta circa un terzo dell’intera produzione agricola del Paese e, con circa 35 milioni di tonnellate l’anno, l’Italia contende alla Spagna il titolo di «orto d’Europa». Oggi l’export di frutta e verdura, compresa l’ortofrutta trasformata, vale 6,7 miliardi di euro l’anno ma, considerato che entro i confini nazionali si consuma meno del 25 per cento di quel che si produce, bisogna orientarsi verso una consistente esportazione. Tanto più che la domanda mondiale è passata da 70 a 170 miliardi di dollari in pochi anni. Per guadagnare nuovi mercati ed evitare la chiusura delle aziende non basta più essere primi nelle produzioni, occorre essere competitivi. Ecco perché è diventato improrogabile puntare a una maggiore aggregazione dell’offerta ortofrutticola; intervenire sulle dimensioni d’impresa con una riorganizzazione a tutti i livelli;  promuovere nuove politiche nazionali ed europee, ad esempio adeguando le polizze di assicurazione per far fronte ad eventuali problemi climatici e fitopatologici, o a forti ribassi dei prezzi; guidare l’internazionalizzazione aiutando le imprese a varcare i confini e a valorizzare la qualità e la salubrità del made in Italy ortofrutticolo. Non soltanto frutta e verdura italiane sono sinonimo d’eccellenza, non soltanto il settore dell’ortofrutta e cereali conta il maggior numero di certificazioni, con 32 denominazioni di origine protette e 62 indicazioni geografiche protette, ma sono totalmente sicure. Secondo gli ultimi dati del Ministero della Salute, il 99,7 per cento dei campioni ortofrutticoli sottoposti ai controlli sulla sicurezza alimentare sono risultati assolutamente in regola. Quanto alla domanda interna, bisogna recuperare quel calo dei consumi di ortofrutta ampliato dalla crisi economica. Non è solo questione di prezzi al consumo, ma anche di cattive abitudini alimentari dei più giovani. La riduzione dei consumi riguarda soprattutto le nuove generazioni, il 22 per cento dei genitori dichiarano che i loro figli non mangiano frutta e verdura quotidianamente. Secondo medici e scienziati, va frenato il progressivo abbandono dei principi della dieta mediterranea a favore del consumo di «junk food» da parte dei più piccoli, e si deve investire di più in una cultura alimentare che privilegi l’ortofrutta come prevenzione e tutela della salute. I costi sociali di obesità e sedentarietà toccano, in Italia, i 65 miliardi di euro all’anno, lo 0,38 per cento del prodotto interno, e ormai circa il 12 per cento dei bambini è obeso; nella fascia d’età tra i 6 e gli 11 anni uno su tre è in sovrappeso. Per tutti questi motivi occorre incoraggiare, sostenere e promuovere un’alimentazione sana e corretta, con campagne di informazione ed educazione come «Frutta nelle scuole», estendendo il modello alle famiglie e puntando sul richiamo di quegli ortofrutticoli che regnano incontrastati sulle tavole degli italiani: la mela, 825 mila tonnellate vendute; l’arancia, 605 mila; la patata, 722 mila; il pomodoro, 575 mila. Ma sui rincari dei generi alimentari influisce un altro fattore, i pesanti aumenti dei prezzi della benzina pari al 20,2 per cento, e del gasolio pari al 21,7 per cento, con effetti a cascata anche sui listini alimentari perché il costo della logistica incide sul prezzo finale di cibo e bevande per il 35-40 per cento, e in Italia quasi il 90 per cento dei prodotti agroalimentari viaggia su strada per arrivare dai campi alla tavola.   Ed infine due episodi che danneggiano l’agricoltura italiana. Nel SIAL di Parigi, principale Fiera internazionale dell’agroalimentare di qualità in Europa, gli avvocati del Consorzio Pecorino Romano hanno denunciato il marchio Usa Belgioioso, fotografato nello spazio della società austriaca Schreiber & Rupp, per palese violazione della Dop in quanto usa la denominazione protetta «Romano» senza che il formaggio sia conforme al disciplinare. «È una delle moltissime imitazioni compiute nel mondo e denunciate dal Consorzio del Pecorino Romano Dop, che ogni anno sottraggono al nostro mercato 300 milioni di euro», ha dichiarato Gianni Maoddi, presidente del Consorzio del Pecorino Romano. Infine un’altra scoperta della CIA: oggi solo 2 persone su 100, principalmente ultra 60enni, sanno fare la pasta in casa; nel 2020 sarà solo una persona su 100. Sono a rischio decine di trasformazioni alimentari domestiche tradizionali. 

Tags: Dicembre 2012

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