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riforma della pubblica amministrazione: 20 anni di tangento-metropoli

Roma. Palazzo Madama sede del Senato della Repubblica Italiana

C'è la crisi? Quella economica? Anzi, la più grave a memoria di uomo, dal momento che chi potrebbe ricordare quella internazionale del 1929 dovrebbe avere quanto meno cent’anni. Ma in fondo, è meglio che vi siano sempre meno testimoni diretti di questa. Se qualcuno di essi, infatti, campasse e fosse in grado di rievocarla, darebbe fastidio alle caste oggi al potere, perché potrebbe ricordarci come, da chi e da che cosa essa fu determinata; e potrebbe condannare quanti, in questi ultimi anni, si sono comportati come gli autori di quel disastro del 1929; dovrebbe squalificare gli pseudo economisti politicizzati di oggi, sempre pronti ad approvare e ad avvalorare falsamente le ricette spacciate come idonee, anzi necessarie per superare la crisi attuale che comunque finora nessuno è riuscito ancora né a superare né ad attenuare. Ossia l’unico strumento spacciato come farmaco, medicina, rimedio, toccasana della crisi in atto: consistente, in una parola, nelle cosiddette e criptiche «riforme».
Questo, ovviamente, senza che parlino di quali riforme si tratti, senza spiegarne lo scopo e senza soprattutto, non dico descriverne gli effetti e le conseguenze reali che la maggioranza di tali addetti ai lavori forse neppure conosce, ma senza oltretutto garantirne l’effetto. E questo nonostante i precedenti, storicamente molto vicini, che hanno portato milioni di italiani al macello, ugualmente per tentare di risolvere crisi economiche ma ottenendo invece la distruzione totale, materiale e morale, di un centinaio di milioni di essi.
Perché un centinaio? Di italiani non ne sono mai vissuti tanti contemporaneamente. Contemporaneamente no, ma assommando gli italiani del 1915, tutti coinvolti e vittime della Quarta guerra di Indipendenza, ossia della prima guerra mondiale, a quelli del periodo 1940-1945, ovvero della Seconda guerra mondiale. In entrambe le occasioni furono le condizioni economiche a spingere partiti e Governi, italiani e stranieri, a partecipare alle due tremende avventure che causarono milioni di morti e immani distruzioni.
Alla fine dello scorso gennaio si è celebrata l’ormai tradizionale rievocazione del tragico e funesto «Giorno della Memoria», ossia della deportazione, in lager e campi di sterminio tedeschi, degli ebrei romani e di appartenenti ad altre religioni ed etnie. Ma intanto si continuava a sparare in tutti i fronti, gli uni contro gli altri: attentati, incursioni, guerre pubbliche, guerre private, guerriglie, massacri atroci. Non c’è stato un atto concreto, da parte di Governi, partiti e organizzazioni nazionali e internazionali, diretto a proclamare quel giorno «non soltanto della Memoria», perché questa talvolta ravviva odi e vendette. Perché non accennare quanto meno anche ad un «Giorno del disarmo o dell’armistizio», pubblico o privato che si voglia?
Certamente tali manifestazioni costituiscono anche occasioni di perdono, bontà, buoni propositi, fratellanza, solidarietà, amore verso l’ex o verso il nuovo nemico, e verso il prossimo. Ma invece prosegue la valanga di notizie su scontri, bombardamenti, attentati, massacri, sgozzamenti, esecuzioni di persone inermi, non di rado giustificate da non meno sconsiderate e delittuose iniziative contrabbandate come atti di solidarietà, volontariato, altruismo, addirittura eroismo. Si conoscono benissimo i motivi retrostanti, prevalentemente economico-finanziari, consistenti nel perseguimento di giganteschi interessi di grandi Paesi e di grandi cordate e alleanze di potenze, unite nell’accaparramento di fonti di energia e di maxi-valori finanziari; e conseguentemente nei piccoli tentativi di arricchimento privato da parte anche di chi viene in tal modo indotto a rischiare la pelle in terre lontane e nemiche in nome dell’altruismo e del volontariato, ma che non di rado in realtà viene materialmente interessato a partecipare ad avventure e ad imprese anche estremamente pericolose.

Ma quali sono queste riforme?
«Occorrono riforme», quindi, è diventato il leitmotiv, lo slogan di poteri economici e finanziari, di categorie forti, di minoranze religiose, etniche e politiche. Ma quali riforme? Subito dopo l’italiana Tangentopoli, anzi proprio mentre era ancora in corso l’azione di giustizia di «Mani Pulite», il primo obiettivo al quale puntò la classe politica perseguita dalla Procura della Repubblica milanese furono le «privatizzazioni», ossia l’accaparramento di aziende e di patrimoni pubblici, dello Stato e di enti vari. Un’operazione nella quale si trovarono coinvolti tutti i politici e i pubblici amministratori, di ogni partito e ideologia, sia per non perdere il potere, sia per prevenire la prevedibile, anzi preannunciata fase di austerità. Così, per riempire i carnieri in vista di un periodo più o meno lungo di «vacche magre», ossia di sana gestione finanziaria e amministrativa, di onestà e correttezza, di allontanamento forzato dal potere, quella classe di ex politici e di ex tangentisti cercò di sopravvivere modificando le leggi sulla gestione della Pubblica Amministrazione, della finanza e del patrimonio dello Stato e delle altre strutture pubbliche, centrali e locali.
«Specchio Economico» sta cercando di descrivere, prima in articoli e successivamente in un libro, quanto è avvenuto in seguito a Tangentopoli e a Mani Pulite, attraverso una ricostruzione molto eloquente delle modifiche, apportate via via alle leggi preesistenti, da una classe politica e parlamentare che aveva i poteri: di emanare nuove norme, di modificare le vecchie, di travolgere situazioni vigenti da molti decenni, come la legge comunale e provinciale che, emanata nel 1915 e modificata dal regime fascista nel 1934, non era ancora stata così stravolta. Il suo stravolgimento è stato compiuto scientificamente, subdolamente, surrettiziamente a partire dallo scoppio di Tangentopoli, con la legge di riforma numero 142 del 1990, per consentire di continuare a detenere il potere ai disonesti che se ne erano impossessati, nella Prima Repubblica, non solo manomettendo la legge elettorale, ma tradendo addirittura gran parte della Costituzione, prima ed unica legge verso la quale gli italiani erano non solo fedeli e rispettosi, ma sinceramente attaccati e affezionati. Se non altro perché costituiva l’unica difesa proprio contro le appropriazioni illegittime del potere che stavano riducendo il Paese in una rete di graticole chiamate Regioni, ove arrostire scientificamente, quanto meno dal punto di vista fiscale, i loro stessi cittadini.
Questo processo è durato, anzi si è ampliato per tutti i successivi venti anni, procedendo con l’emanazione via via di leggi dai primi anni 90 ad oggi, periodo nel corso del quale politici e pubblici amministratori hanno emanato leggi che apportavano presunte «riforme» alle istituzioni e alle prassi in vigore. Riforme tutte assolutamente e rigorosamente presentate e giustificate come vantaggiose per i cittadini e come reazione verso un ordinamento e procedure che, secondo i loro stessi autori, avevano vessato i cittadini, ridotto i loro diritti e in primo luogo la libertà, compresso i loro redditi e il frutto del loro lavoro attraverso un fisco sempre più vessatorio e opprimente. Fisco gestito proprio da coloro che erano interessati ad alimentare continuamente le entrate dello Stato e degli enti locali, destinate ad avvantaggiare in quote crescenti proprio chi si auto-attribuiva il potere di distribuirle.

Italiani troppo tolleranti
Gli italiani sono stati ultra tolleranti, non avventuristi, né reazionari, né di destra né di sinistra. Hanno continuato a lavorare pazientemente, mentre pochi politici si arricchivano. Crescevano i redditi familiari, si diffondeva sempre più il benessere; quale importanza aveva un piccolo puntuale aumento annuale di tasse e di imposte, e del costo della vita, se l’anno in corso l’artigiano, il lavoratore autonomo o dipendente, il professionista, il commerciante, l’agricoltore, l’infermiere aveva guadagnato più dell’anno precedente? Ignari di tutto, in particolare delle conseguenze dei propri atti ed omissioni di atti, i politici hanno deciso l’adesione all’euro senza consultare i più diretti interessati, ossia i cittadini, le famiglie, le imprese. Nessuno dei quali ha reclamato. In altre epoche storiche sarebbero scoppiate sommosse, se non rivoluzioni e guerre.
Ma poi di colpo, in pochi mesi, la situazione si è capovolta, è arrivata una crisi economica internazionale al cui sviluppo gli italiani avevano notevolmente contribuito con il loro tenore di vita, gli sprechi, i furti, la scarsa voglia di lavorare, le eccessive vacanze e spese voluttuarie, gli scioperi pretestuosi, i «ponti» ingiustificati ecc. Piano piano, però, è arrivato il momento della resa dei conti. Anche perché i politici nazionali e locali, invece di accorgersi del nuovo indirizzo, hanno non solo continuato il loro comportamento, ma ampliato la malagestione economica, trasformando tutto ciò che era pubblico in un gigantesco ammortizzatore sociale. Aumentavano le spese pubbliche, ma ogni lira, e poi ogni euro, prelevati da Stato, Regioni, Province e Comuni, erano diventati un’indennità gratuita, immeritata, funzionante da assistenza sociale; ossia da Cassa integrazioni guadagni per una massa di persone e di loro famiglie.
Di persone che, al servizio dei politici, non lavoravano e non lavorano affatto per la Pubblica Amministrazione da cui erano e sono regolarmente e profumatamente pagati; di pensionati che non hanno mai versato quanto invece hanno percepito; di finti invalidi; di aventi diritto a tutto; di percettori di ogni beneficio e bonus; di stipendi e salari immeritati; di lavoratori, sindacati e sindacalisti più esperti di scioperi, astensioni dal lavoro, indennità immeritate, permessi sindacali, vacanze pretestuose e ricorrenti, settimane corte, settimane bianche e tanti altri immeritati ed inventati diritti.

Perfino le messe domenicali
Un esempio che avvenne quando, alla fine degli anni 80, gli stessi lavoratori autonomi, in particolare i commercianti, cominciarono a chiedere di poter lavorare, ossia di aprire i loro negozi ed esercizi anche la domenica, e a Roma crearono addirittura un movimento, chiamato «Quelli della domenica», capeggiato da un fornaio di Fontana di Trevi, Gianni Riposati, per beneficiare, insieme ai loro dipendenti, delle attrattive che questa città ha sempre esercitato verso turisti e stranieri. I dipendenti furono spinti alla protesta con il pretesto della fede religiosa ossia cattolica, che qualifica «peccato» il lavoro domenicale. E non fu contestata, e non lo è tuttora, l’abolizione, concordata con la Chiesa, di alcune festività religiose e di altre civili, numericamente eccessive e motivatamente ormai ingiustificabili e insostenibili? La decisione non fu così aspramente contestata tanto da indurre lo Stato a ripristinare la festa della Befana? E comunque quelle festività non più esistenti, ampiamente godute anche da qualche milione di immigrati stranieri di altre religioni e digiuni di storia italiana, non continuano ad essere regolarmente pagate, ed anzi la difesa del loro salario e dei loro costi non continua ad essere strenuamente sostenuta a danno del welfare dei lavoratori italiani e dell’economia nazionale, da tutti? Da stranieri che non sanno neppure di che si tratta e da italiani che, quando tali festività furono istituite, ad esempio il 25 aprile 1944 o il 2 giugno 1948, non erano neppure nati. Ex festività comunque retribuite obbligatoriamente, anche in assenza di lavoro; ed oggi anche a chi, con una fittizia iscrizione a pseudo Registri matrimoniali comunali fuorilegge, ovvero inesistenti e impossibili, dichiara la cosciente e volontaria estraneità alle leggi dello Stato italiano e ai principi, alla morale della Chiesa cattolica.

Bengodi, paese di balocchi, gatti e volpi
L’Italia era intanto diventata tutta, negli ultimi anni, un boccaccesco Bengodi o un collodiano Paese dei Balocchi, oltreché di bugie, gatti e volpi, ideale per giovinetti scansafatiche e incoscienti come Pinocchio. I politici erano diventati giocolieri, prestigiatori, illusionisti dei cittadini, oltreché di se stessi, ossia di gatti e di volpi, ovviamente perché ogni specie animale pretende una quota maggiore di cibo. E questa è stata un’attendibilissima motivazione della recentissima riforma del Senato, o meglio del tentativo, da parte di partiti e deputati, di ridurne i costi, il potere, la presenza ecc. A ciò si è arrivati anche e soprattutto grazie al fatto che non esistevano più controlli sulle spese pubbliche, non c’erano più spese pubbliche da poter eliminare o ridimensionare. E qualunque intervento in tale senso non poteva più essere compiuto che in modo lento, surrettizio, senza che nessuno se ne accorgesse, si lamentasse, si ribellasse. Ma perché, come bersaglio da colpire è stato scelto proprio il Senato? Certamente anche per ridimensionarlo e per risparmiare nella spesa pubblica, ma anche per un altro, non meno consistente motivo.
Quante volte negli ultimi anni abbiamo ascoltato autorevoli leader politici scagliarsi contro il cosiddetto «bicameralismo», in pratica contro la «doppia lettura delle leggi» da parte della Camera dei deputati e del Senato? L’abolizione di questo sistema di legislazione, ossia di approvazione delle leggi è stato il bersaglio sbandierato in quasi ogni discorso pronunciato negli ultimi tempi da Silvio Berlusconi in televisione, quindi ai telespettatori più distratti, facilmente suggestionabili, digiuni di storia italiana, di politica e di diritto, irriflessivi. Questi i semplicistici quesiti che si ponevano: «Perché un’insignificante legge deve essere approvata prima da una Camera e poi dall’altra? E perché, se viene lievemente modificata, anche per un’inezia, dalla seconda Camera che l’esamina, deve tornare alla prima, che deve riesaminarla, ridiscuterla, riapprovarla una seconda volta? E perché, nel caso di ulteriore modifica, deve tornare nuovamente indietro per un’ulteriore lettura»?
A persone ignare di diritto costituzionale queste osservazioni possono sembrare fondate, anche se la verità è diversa, perché non si tratta di accanimento e complessità procedurale quando, ad esempio, il Parlamento sta approvando il regolamento sulla pesca dei molluschi lamellibranchi anziché una legge elettorale che può incidere sulla vittoria di un partito, o una legge fiscale che svuota le tasche di cittadini, famiglie ed imprese.
Perché si è deciso di riformare proprio il Senato, cioè il cuore della Costituzione, dopo gli ingenti colpi già inferti al Titolo quinto di essa che hanno disintegrato lo Stato e creato la possibilità di eliminare i controlli sulle spese pubbliche dando alle Regioni la possibilità di legiferare largamente, ampliare le spese e soprattutto eliminare i controlli, quindi alimentare la corruzione e gli sprechi? Ecco il vero punto di quest’ultima iniziativa ideata, pubblicizzata e portata avanti dai più furbi, interessati, inveterati politicanti: così, una volta eletti o confermati deputati, potranno evitare qualsiasi tipo di controllo, non solo quello semplicemente contabile ma anche quello improprio, politico, di opportunità, svolto dal Senato sulle leggi approvate dal Parlamento, impedendo la loro modifica. Insomma altro che una «indispensabile riforma»: un vero capolavoro, invece, di finezza, scaltrezza, furbizia, diretto ad aumentarne il potere, a prolungarlo, a sottrarlo a critiche e contestazioni, a costo di arrivare, per riuscirvi, alla costituzione di bande tra politici, amministratori pubblici, dirigenti e dipendenti; in sostanza all’interno di un apparato necessario democraticamente ma a rischio di parassitismo sulla società.
Tutto sommato in questa situazione economica, nella guerra tra bande e corporazioni oltre mille parlamentari sono troppi ed alcuni di essi, i senatori, condizionano tutti gli altri: possono bloccare l’iter di una legge modificandola, e costringendo la Camera a ricominciarne l’iter, a ritardarne l’entrata in vigore, ad impedire agli aspiranti e scalpitanti parlamentari più giovani di conseguire subito una promozione. Ma è anche vero il contrario.
Riforma del Senato, un colpo di mano operato grazie anche all’effetto ottenuto dalla propaganda politica sull’opinione pubblica. Un argomento molto ad effetto presso il popolino, la massa digiuna di diritto costituzionale, di storia anche recente, che con la parola «riforme» intende l’instaurazione e l’allargamento dello stato di diritto e il risparmio nelle spese pubbliche e nei costi della pubblica amministrazione; mentre i politici che auspicano le riforme puntano solo ad aggiornare la propria quota, a ridurre i vantaggi e benefici di molti di loro, e ad aumentare i propri, insomma a dare un altro colpo quasi mortale ai diritti del popolo, dell’elettorato, della rappresentanza democratica. Non sarebbe neppure un male se prevalessero e aumentassero il proprio potere i migliori, più bravi, onesti, ligi alla legge, curanti l’interesse vero della popolazione. Con la discussione sul Senato nelle scorse settimane non si è assistito che all’atto più grande, lungo, importante della tragedia che ha investito l’Italia e aggravato la crisi economica spingendola negli ultimi posti dei Paesi dell’Unione Europea.

Ma che facevano i politici?
Il progresso faticosamente compiuto dall’Italia, o meglio dagli italiani, in questo dopoguerra, caratterizzato dalla ricostruzione dopo le distruzioni della guerra e dall’aumento dei redditi familiari e aziendali e del tenore di vita di tutta la popolazione è stato disintegrato in questi ultimi decenni a causa del comportamento e dall’esempio fornito a loro dai governanti che si sono succeduti e dalla classe politica in generale. Come non ricordare la maxi-ingiustizia dell’abolizione della scala mobile, meccanismo che consentiva di adeguare per una minima parte i salari dei lavoratori all’aumento del costo della vita dovuto all’inflazione, trainata prima di tutto proprio dalla malamministrazione di governanti, parlamentari, pubblici amministratori e sindacati, con i frequentissimi e ingiustificati aumenti delle tasse e delle tariffe dei servizi pubblici? Aumenti decisi proprio da quanti erano interessati a ripartirne le entrate secondo logiche politiche, partitiche, correntizie, personali, mafiose. La fine di quel fenomeno inflattivo è cominciata solo quando, secondo quanto aveva spiegato e auspicato «Specchio Economico», in assenza di interventi pubblici l’azione frenante sui prezzi scattò spontaneamente ad opera degli stessi lavoratori e consumatori, che cominciarono a ridurre i consumi, rallentando però anche l’andamento dell’economia e impartendo un’energica spinta alla crisi economica, alla deflazione, alla disoccupazione.

Quote rosa e authority sì, controlli no
I politici pensavano a tutto, alle quote rosa, alla frantumazione dello Stato in Regioni corrotte e sperperatrici ecc., fuorché a curare l’economia malata. Dopo Mani Pulite e la svendita di aziende e beni dello Stato, che erano serviti loro per finanziarsi attraverso nomine di amministratori e dirigenti, si diedero alacremente a ricostituire fonti alternative di voti e di finanza che la Procura di Milano aveva costretto ad alienare. Avevano immaginato di tamponare il deficit pubblico con le «privatizzazioni», avevano venduto a cordate di amici le migliori aziende pubbliche, produttrici di guadagni e di posti di lavoro come Efim, Iri, Imi, società immobiliari, beni immobili, banche pubbliche come Credito Italiano, Banco di Santo Spirito, Banca Commerciale Italiana, Banca del Lavoro, Telecom Italia, Ina ecc. Per sostituire queste ricche sorgenti si misero a creare una serie di Autorità, ricostituendo di fatto la mano operativa e produttrice della ricchezza pubblica, attribuendo ad esse, però, il potere di rilasciare o negare le autorizzazioni all’esercizio. Ma intanto, silenziosamente, estendevano la malazione riformatrice ad una serie di altri importantissimi settori della Pubblica Amministrazione: abolendo i Coreco, ossia i Comitati regionali di controllo, riformando la funzione e le mansioni dei segretari comunali, sottraendo una serie di poteri importanti ai prefetti, istituendo sistemi di silenzio-assenso, ossia di annullamento automatico dei vincoli in campo artistico, archeologico, panoramico, culturale, ambientale. In gran parte tutto ciò per aumentare il finanziamento, non quello lecito di Stato ed enti locali, ma quello illecito di partiti, gruppi politici,  singoli personaggi. Li illustreremo nel prossimo numero. 

(qui la prima parte)

Tags: Febbraio 2015 pubblica amministrazione P.A. Victor Ciuffa

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