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Articolo 18, problema risolvibile non con leggi e proteste ma con la coscienza

di Bruno Piattelli

Seguo da sempre, anzi posso dire che attendo da sempre l’articolo domenicale di Eugenio Scalfari su La Repubblica perché m’informa sulla situazione politica ed economica, mi sottopone all’attenzione qualche argomento che mi è sfuggito durante la settimana e, magari, suggerisce qualche «dritta» per la soluzione dei problemi in atto, sulla quale mi trovo spesso d’accordo. Ma non per quanto ha scritto alcune domeniche fa con riferimento ad un articolo del direttore del Corriere della Sera Ferruccio de Bortoli in merito all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
E non tanto perché io condivida il punto del direttore del Corriere della Sera. Ma sull’ormai trito argomento desidero tornare. Nota a parte: l’articolo 18, vado a memoria, fa parte dello Statuto dei lavoratori stilato da quel prof. Gino Giugni che abbiamo rischiato di avere come presidente della Repubblica, e che dichiarò, molti anni dopo, di rinnegarne la sostanza. Ma la frittata era fatta. Il  direttore Scalfari cita come complice Giacomo Brodolini. Dunque, ancora una volta rilevo come si parli sempre di diritti e di doveri; stranamente i primi per i lavoratori e i secondi per i datori di lavoro.
Mai che si consideri che diritti e di doveri spettano ad entrambi, agli uni e agli altri. La domanda è semplice: qual è quell’imprenditore che si libera di un collaboratore, impiegato, operaio, assistente valido, qualunque sia la sua funzione? Sarebbe un folle. Sarà che sono nato con l’imprinting del rispetto della persona di qualunque grado, posizione, cultura, e poi della valorizzazione di ciascuno capace ed interessato, nonché fedele. Con mio padre hanno «resistito» collaboratori per 30, 40, 50 anni; con me altrettanto.
Come mai? Non siamo mica i soli ad essere fortunati. Certamente  nella lunga strada tanti sono usciti, ma mai sono stati mandati via.  D’accordo, adottavamo un metodo corretto, mentre i «nuovi» entravano, assunti dai loro futuri colleghi, non dal manager del tempo, per coerenza, afflato, autoconsiderazione, ma soprattutto coscienza. Ecco, di questa coscienza non si parla mai. Certo, è un problema classificarla nel diritto, ma un giudice, dico un giudice, avrebbe il dovere di valutarne la presenza o l’assenza in un rapporto che si chiude. Perché il datore di lavoro è costretto a tenere il nuovo o il vecchio dipendente se, dopo un periodo di tempo, questi non risponde più non solo alle esigenze dell’azienda, ma al rispetto dovuto per il quale è stato assunto e pagato? Non intendo assolutamente dire che gli uni, i datori di lavoro, sono tutti bravi e buoni, e gli altri, i dipendenti, tutti cattivi. Né che non debbano esservi protezioni sociali di spessore. Ma i «lavativi» non vanno protetti, né i casi tipici di signore che «approfittano» del loro stato interessante per assentarsi un anno dal lavoro quando non due, in carico all’azienda che, per altro, ha necessità di dotarsi di un altro elemento in sostituzione.
Non voglio neanche pensare ad una loro colpa, ma la situazione oggettiva richiede soluzioni radicali di natura sociale. Ricordo un caso prototipico, cui ho assistito quando facevo parte del Consiglio di amministrazione del Teatro dell’Opera di Roma. Nella lirica l’arpa è uno strumento poco usato e, durante la stagione, viene suonato in poche rappresentazioni. L’arpista assunta nell’Orchestra, quando veniva chiamata, veniva trovata fuori forma, per cui veniva assunta un’esterna. Sì, ma la titolare, che non lavorava, percepiva egualmente quattordici stipendi. E l’azienda, cioè il Comune di Roma, pagava.
Comportamento etico? Commercialmente corretto? Si studino e si valutino strumenti sociali per questi «diritti» che, prima che del lavoro, definirei umani. Cerchiamo di imitare gli Stati Uniti nei quali il lavoro, come diritto-dovere, ha una legislazione non politica. È indubbio che occorrono mezzi finanziari per far funzionare un sistema corretto, ma assistiamo un po’ al serpente che si morde la coda mentre, quando è moralmente condotta, l’assistenza sociale non è una «spesa a perdere».
Allora consideriamo la realtà della vita e soprattutto della società. La nostra purtroppo è ormai infetta come sistema sia politico - per cui è inutile invocare le assunzioni come mezzo unico per depredare -, sia civile in quanto incapace di combatterne le sperequazioni e di suggerire soluzioni. L’articolo 18 è un’occasione ottima, se si volessero risolvere correttamente i problemi.

Tags: Dicembre 2014 Bruno Piattelli

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