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Ivan cavicchi. ripensare il governo della sanità

Il prof. Ivan Cavicchi

Il progetto di revisione del Titolo V presentato dal Governo Renzi è volto a definire un sistema di governo multilivello più ordinato e meno conflittuale, in grado di bilanciare interessi nazionali, regionali e locali e di assicurare politiche di programmazione territoriale coordinate con le più ampie scelte adottate a livello nazionale. La proposta si rende necessaria, si dice, per superare l’attuale frammentazione del riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni la cui rigidità ha contribuito ad alimentare un rilevante contenzioso. L’obiettivo teorico è favorire un decentramento legislativo più razionale e funzionale allo sviluppo economico e sociale del Paese. In questa prospettiva, le linee direttrici del progetto di riforma dispongono:
- il superamento della rigida ripartizione legislativa per materie in favore di una più moderna e flessibile ripartizione anche per funzioni, ispirata a un regionalismo cooperativo che prevede l’eliminazione delle competenze legislative «concorrenti» e la conseguente ridefinizione delle competenze esclusive dello Stato e di quelle residuali delle Regioni;
- l’introduzione di una clausola di supremazia in base alla quale la legge statale, su proposta del Governo, può intervenire in materie o funzioni non di competenza legislativa esclusiva dello Stato se lo richiede la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica o la realizzazione di programmi economico-sociali di interesse nazionale;
- la possibilità per lo Stato di delegare anche temporaneamente alle Regioni la funzione legislativa in materie di competenza esclusiva, con alcune eccezioni;
- il riordino dei criteri di riparto della potestà regolamentare, includendo nell’elenco di materie e funzioni di competenza statale esclusiva norme generali per la tutela di salute, sicurezza alimentare e lavoro e disponendo che spetti alle Regioni la potestà legislativa in ogni materia e funzione non espressamente riservata alla legislazione esclusiva dello Stato, in particolare pianificazione e dotazione infrastrutturale del territorio regionale, mobilità nel suo interno, organizzazione in ambito regionale dei servizi alle imprese, dei servizi sociali e sanitari.
Inoltre, di fronte alla ricordata clausola di supremazia statale, viene prevista la facoltà per lo Stato, previa intesa con le Regioni interessate, di delegare con legge approvata a maggioranza assoluta dei componenti della Camera dei deputati, l’esercizio della funzione legislativa in materie o funzioni di propria competenza esclusiva, alle Regioni o ad alcune anche per un tempo limitato.
Conseguentemente, è soppressa la previsione in materia di regionalismo differenziato di cui all’attuale terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione; quanto ai poteri regolamentari, viene specificato che la potestà regolamentare spetta allo Stato o alla Regione in relazione all’esercizio delle rispettive competenze legislative; a Comuni e Città metropolitane è riconosciuta una potestà regolamentare sulla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite, nel rispetto della legge statale o regionale competente.

Ambiguità, sottovalutazioni, tesi controverse
La proposta sulla modifica del Titolo V della Costituzione, nonostante le buone intenzioni, contiene ambiguità, sottovalutazioni e tesi controverse. La sanità da molto rivendica una riforma del Titolo V. I problemi che essa dovrebbe risolvere coinvolgono cittadini, operatori, servizi, il sistema nella sua globalità, e sono sostanzialmente due quelli relativi alla formula, cioè all’impalcatura del governo della sanità e che riguardano i ruoli e i poteri delle istituzioni deputate; quelli relativi al modo di governare: malgoverno, eccesso di potere, mancanza di una strategia riformatrice, frammentazione in sistemi diseguali, corruzione, mancanza di una politica seria di produzione della salute.
Il Titolo V bisogna correggerlo perché nella formula e nel modo di governare ha fatto acqua da tutte le parti. La maggior parte delle Regioni non ha adempiuto ai propri doveri istituzionali, ha tradito i mandati costituzionali affidati, a scapito soprattutto dei diritti di malati, cittadini, operatori. Nel dibattito politico sul Titolo V c’è chi sostiene che, per risolvere i problemi sia della formula sia del modo di governare, bisognerebbe tornare al centro e togliere alle Regioni i loro poteri. Io penso che le Regioni hanno delle responsabilità, ma la complessità della sanità non sopporterebbe regressioni a passate forme di centralizzazione e decentramento amministrativo; giocoforza si deve andare avanti e costruire una forma di governo capace di rendere possibile l’universalità dei diritti.
Penso che bisogna correggere la formula e cambiare il modo di governare la sanità, confermando sostanzialmente l’impianto attuale, ma riequilibrando ruoli e poteri delle istituzioni. Penso anche che si debba chiarire che il concetto di autonomia non può essere scambiato con quello di autarchia. Le Regioni sono enti di rilievo costituzionale e, per quanto autonome nei loro poteri soprattutto gestionali e organizzativi, non può essere loro concesso di negare le leggi dello Stato. Oggi molte politiche regionali di risparmio sacrificano i diritti; i piani di rientro spingono la gente verso il privato, senza intaccare le sacche parassitarie che esistono nei loro sistemi sanitari.
Sono convinto che il problema della formula e del modo di governare non si risolve come sembra indicare la proposta del presidente Matteo Renzi con una spartizione di compiti tra istituzioni, cioè ridefinizione delle competenze esclusive di Stato e ricompilazione neanche troppo significativa delle materie rientranti nella potestà regolamentare: allo Stato le norme generali su tutela della salute e del lavoro, sicurezza alimentare, e alle Regioni il resto. Ma si risolve innovando la formula e fissando delle condizioni di buon governo. Per di più il problema non è solo attribuire poteri ma essere sicuri che vengano esercitati in modo giusto prevedendo la vicarianza.
Vicarianza significa che una struttura può sostituire un elemento con un altro senza modificarne le proprietà. La vicarianza avviene per commissariamento. La forma di governo va preservata dalla possibilità di abusi soprattutto da parte di chi ne ha la titolarità. Perché nella sanità sinora questo è il problema principale. Se le Regioni non avessero abusato dei loro poteri probabilmente non dovremmo aggiustare il Titolo V.
La proposta che il Governo Renzi avanza è molto al disotto di questi problemi per cui bisogna correggerla e metterla sui binari giusti. Essa allude al «governo multilivello», ma non dice quale formula di governo è in grado di bilanciare interessi nazionali, regionali e locali. Per quello che mi riguarda, il governo multilivello è un sistema di produzione di politiche pubbliche composto da diverse istituzioni per cui, per avere un governo multi-livello serio, è necessario ridefinire il ruolo del Parlamento, soprattutto come garante delle garanzie fondamentali cioè diritti e tutele; del Governo, cioè della sua capacità legislativa su questioni generali e sovraregionali e sulle gravi inadempienze funzionali e organizzative di molte Regioni; dei Comuni per scopi esclusivamente di produzione della salute; dell’azienda, che la legge istitutiva ha lasciato impredicata: della partecipazione sociale e del confronto con le parti sociali, perché la complessità sanitaria non è governabile con le vecchie logiche amministrative.
Se non si definiscono i ruoli e i modi delle istituzioni coinvolte nel governo multilivello, questo rischia di essere una formula vuota. Un elemento interessante nella proposta di Renzi è l’introduzione di una «clausola di supremazia» in base alla quale la legge statale, su proposta del Governo, può intervenire su materie o funzioni delle Regioni, quasi con un potere interferente. Questa clausola va però definita nei dettagli. Allo stato attuale appare come l’unica possibilità di arginare incapacità e arbitrarietà delle Regioni. La clausola di supremazia dovrebbe essere usata per commissariare le Regioni che non garantiscono le tutele di legge, fanno quadrare i conti a spese dei diritti, non producono salute come ricchezza primaria, alimentano diseconomie e anti economie per tornaconti elettorali, impongono tasse perché non vogliono definanziare le loro clientele, negano la concertazione e la partecipazione sociale.

Le proposte
Nella proposta di riforma del Titolo V delineata dal Governo vi è un punto che ha fatto battere il cuore a molti antiregionalisti: la modifica della lettera M dell’articolo 117 che assegna alle competenze esclusive dello Stato la facoltà di adottare «norme generali per la tutela della salute». Alcuni l’hanno interpretata come una restrizione dei poteri regionali, altri si sono mostrati scettici sulla sua effettiva praticabilità. Che la frase non sia automaticamente una garanzia è dimostrato dall’esperienza del Piano sanitario nazionale che, da tempo immemore, definisce «norme generali per la tutela della salute» ma nell’indifferenza delle Regioni che hanno sempre inteso la pianificazione in modo autonomo.
Ma anche il riferimento alle competenze esclusive delle Regioni non è meno problematico; dovremmo recuperare una corretta accezione di regionalismo scaduta da anni nel «regionismo», un neologismo che ho proposto per indicare una sorta di dispotismo istituzionale che propone la Regione come l’ombelico del mondo. Le proposte che qui avanzo partono da due repechage: «Malati e governatori» del 2006 e «I mondi possibili della programmazione sanitaria» del 2012. Con il primo lavoro proponevo un governo sostanzialmente articolato in due ordini di livelli, generale e regionale, nel quale «generale» prende il posto di «nazionale» diventando sinonimo di «federale», con il significato di qualcosa comune a tutti e di qualcosa che è «meta», cioè sopra a tutti, mentre «regionale» è sinonimo di peculiare, locale. Mi sono semplicemente limitato a cambiare il criterio ordinatore: da quello banalmente del contenitore cioè l’ambito e il dominio territoriale, a quello del contenuto per competenze effettive.
Quindi un governo regionale di primo livello che si occupa di questioni locali cioè organizzazione, salute, assistenza, gestione, operatività ecc.; un governo federale centrale di secondo livello che si occupa di questioni generali e sovra locali, come sostenibilità, tutela dei diritti, squilibri, diseguaglianze, allocazione di risorse, lavoro, professioni ecc. Con il secondo lavoro proponevo di ripensare la programmazione sanitaria nazionale facendone la cerniera tra federale cioè generale e regionale, quindi locale. Ma superando la vecchia concezione di Piano sanitario nazionale, inutile rottame del passato che nessuna Regione ha mai preso sul serio, rimpiazzandola con un «programma generale» quale sistema di condizionali operativi nei confronti delle Regioni. Si tratta ora di specificare, in modo chiaro e circostanziato, i poteri istituzionali allocandoli nel primo e nel secondo ordine di governo e di definirne gli strumenti:
1) Governo federale centrale:
- le competenze legislative esclusive del Parlamento sulla natura pubblica del servizio sanitario nazionale, le prospettive e controprospettive del sistema sanitario, le garanzie dei diritti e delle tutele; esempio: non spetta al Governo decidere, come si è tentato di fare in questa legislatura, di cambiare la natura universalistica del sistema;
- le competenze legislative esclusive del Governo circa le condizioni pratiche di eguaglianza dei diritti, i servizi da garantire in modo universale, la definizione delle professioni e della loro formazione, i condizionali di programmazione a partire dai quali le Regioni e i Comuni esplicheranno le loro autonomie, i casi nei quali far scattare la vicarianza nei confronti delle Regioni o dei Comuni inadempienti ricorrendo alla «norma di sovranità» quindi al commissariamento;
- tocca al Governo ripensare l’«azienda» quale parte integrante del sistema di governo. I problemi dell’azienda riguardano la genericità della sua natura, si tratta quindi di modificare la legge istitutiva che non ha chiarito la natura peculiare dell’azienda sanitaria, al fine di specificarla nel senso di orientarla alla domanda, connotarla quale azienda di servizio, a gestione partecipata e a management diffuso;
2) governo decentrato:
- ridefinire in prima istanza l’organizzazione burocratica e anacronistica degli assessorati, non si può aziendalizzare solo un sottosistema ma di pensare gli assessorati quali aziende capofila, holding, riorganizzandone competenze, metodi e professionalità;
- assegnare ai Comuni la gestione dei dipartimenti per la prevenzione, quindi le risorse ad essi corrispondenti, trasformandoli in dipartimenti per la salute di comunità, quindi riconoscendo ai Comuni rispetto a questi servizi il potere di nomina e di organizzazione e definendo il sindaco quale sponsor della salute, primo referente del sistema informativo comunitario;
- riconfermare gli attuali poteri gestionali e organizzativi delle Regioni sul sistema dei servizi e sull’impiego del personale, sottoponendo tuttavia le nomine dei direttori generali delle aziende e la loro attività al potere di controllo e di vicarianza esercitato dal Governo.
Infine conferme, disconferme, neo-istituzioni, ripristini:
- vanno confermate le tre grandi istituzioni intermedie tra Governo centrale e governo decentrato: Istituto Superiore di Sanità, Agenas, Aifa, estendendo i loro compiti di supporto e di progettualità sia nei confronti del Governo centrale che del governo decentrato;
- va superato il Consiglio Superiore di Sanità perché superfluo;
- va istituito presso il Ministero della Salute, coordinato dal ministro della Salute il «professional board» per lo sviluppo delle professioni e della loro operatività ripensando radicalmente gli enti pubblici non economici con funzioni sussidiarie quali ordini e collegi;
- va ripristinato il Consiglio Sanitario Nazionale abolito nel 1992, costituito da tutte le rappresentanze istituzionali, tecniche e professionali della sanità, con funzioni di organismo federale consultivo del Governo, quale contraltare della Conferenza Stato-Regioni. Il professional board e il Consiglio Sanitario Nazionale possono essere assistiti, per le funzioni segretariali, dal personale oggi impiegato per il Consiglio Superiore della Sanità senza dar luogo a compensi.
L’ultima questione da non trascurare è la questione dei soggetti di governo. È dimostrato che la qualità della governabilità dipende da quella dei governanti. Gli incarichi politici non si possono mettere a concorso ma questo non esclude che si debba chiedere alla politica di rispettare: criteri di incompatibilità laddove sussistano conflitti di interesse come è accaduto per alcuni assessori e come accade per alcune cariche multiple che mischiano interessi peculiari con interessi generali; criteri di plausibilità per coloro che, provenendo da altri mondi, sono del tutto estranei alle complessità della sanità; criteri di verifica dell’operato di ministri e assessori. Abbiamo criticato la composizione spuria e occasionale dei vecchi Comitati di gestione ma abbiamo taciuto su quella altrettanto spuria e occasionale di alcuni assessori e ministri.
Un discorso particolare va fatto per i ministri della Sanità o della Salute: i ministri che hanno veramente inciso sullo sviluppo della sanità negli ultimi 50 anni a mio parere sono meno delle dita di una mano; non faccio nomi per rispetto nei confronti degli altri che, pur con dei limiti, hanno prestato la loro opera; dall’inizio del secondo millennio, contestualmente alla riforma del Titolo V e all’invadenza sempre più aggressiva del Ministero dell’Economia, legittimata nel 2009 con la riduzione del Ministero della Salute a una funzione solo concertante quindi senza titolarità economiche dirette, inizia una fase nella quale si susseguono ministri politici e tecnici che si sono dimostrati, malgrado la loro indiscutibile buona volontà, di fatto concause dei principali problemi di governabilità che oggi dobbiamo risolvere.
Oggi abbiamo bisogno di ministri forti che sappiano: negoziare con l’Economia le condizioni del cambiamento e della progettualità del sistema, quindi in grado di opporsi alle grandi idiozie come quelle che stanno massacrando il sistema, dai tagli lineari al depauperamento delle professioni, al costo zero e allo svuotamento dell’articolo 32; servirsi del professional board e del Consiglio Sanitario Nazionale per innovare il sistema; sfruttare le conoscenze e i saperi di grande valore che sono nelle tre grandi istituzioni tecnico-scientifiche di cui disponiamo; mediare gli interessi delle grandi corporazioni servendosi proficuamente della concertazione.
Se non possiamo mettere a concorso il ministro della Salute, possiamo chiedere alla politica, pur nella logica spartitoria dei partiti, di attenersi a delle cautele, non ultima quella di assicurarsi che il ministro sia in possesso per lo meno di alcuni requisiti, compresa laurea, anche per non avere l’imbarazzo di spiegare, al resto del mondo e non solo al nostro Paese, che nella sanità i titoli di studio valgono solo per le competenze professionali, ma che politica, cultura e saperi sono indipendenti.   

Tags: Maggio 2014 sanità ministero della Salute Renzi Ivan Cavicchi

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