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STEFANO ZAPPALÀ: VIA CIRCOLARI, VINCOLI, PERMESSI E BUROCRAZIA. AVANTI IL TURISMO E L’ECONOMIA

Di origine catanese, per la precisione di Aci Bonaccorsi ma residente a Latina, negli ultimi trent’anni Stefano Zappalà si è diviso tra le Forze Armate come ufficiale dell’Esercito fino al 1979, gli impegni imprenditoriali per tutti gli anni 80 e i primi anni 90, e la politica: con Forza Italia dai primi giorni nel 1994, è stato deputato europeo per dieci anni, consigliere regionale, consigliere comunale, sindaco e oggi assessore al Turismo della Regione Lazio. È pertanto la persona più qualificata dalla quale apprendere in quale direzione si muove la Giunta regionale guidata dal presidente Renata Polverini per lo sviluppo di un settore importantissimo per l’economia locale in considerazione delle enormi risorse artistiche, archeologiche, culturali, paesaggistiche di Roma e del suo vasto hinterland. Un anno fa, all’atto di insediarsi, l’assessore Zappalà dichiarò che «lo sviluppo del settore deve essere sostenibile, ma nello stesso tempo competitivo» e che il turismo, indicatore principale della qualità di vita, costituisce «un diritto per tutti». L’assessore dedica una particolare attenzione al settore produttivo privato, perché «il turismo e in generale tutti i prodotti realizzati nel Lazio–sostiene–, costituiscono un settore strategico per l’economia regionale grazie all’elevata capacità di produrre occupazione e ricchezza». La strada percorsa nel primo anno è quella indicata 12 mesi fa?

Domanda. Matematico, ingegnere, imprenditore e politico. Come impiega questo poker di qualificate competenze al tavolo dell’Assessorato?

Risposta. Con una quinta competenza, quella legislativa. Mi si chiedono di continuo interventi per integrare, sopprimere o creare norme. Molto del mio lavoro ha a che fare con leggi, circolari, vincoli e permessi. Burocrazia da svecchiare e adattare. Il settore turistico è in evoluzione e c’è molto da fare perché Roma è atipica, è unica. A Firenze, con tutto il rispetto per quella città, c’è il David di Donatello e poco più. Pisa lo stesso, la Torre, e poi? A Roma solo sui Fori Imperiali abbiamo un mondo intero in mostra. Lo stesso vale per il resto del Lazio: in tutta la regione c’è un patrimonio sterminato che va dai templari ai cistercensi, dagli etruschi ai papi passando per vestigia ebraiche. Su tutto questo ruota un’economia formata da migliaia di soggetti che vanno aiutati. Per esempio, visto che in molti casi si tratta di piccole imprese, si potrebbe passare dal sistema di credito in conto capitale a quello di credito in conto interessi.

D. Con il trattato di Lisbona del 1999 il turismo è diventato di competenza comunitaria e con la modifica dell’articolo 117 della Costituzione italiana approvata nel 2001 è diventato di esclusiva competenza regionale. Che cosa è cambiato in questi dieci anni?

R. Dal mio punto di vista il turismo è un’industria a tutti gli effetti. Per troppo tempo è stato dato per scontato, soprattutto a Roma; è stato visto come un fatto spontaneo perché si è sempre pensato che andasse bene così dal momento che «Roma è Roma, è la capitale del mondo». Va invece organizzato e gestito. Ma come? Io parto dal principio che il settore pubblico deve - deve, non dovrebbe, ci tengo a sottolinearlo - agevolare quello privato, non deve mai sostituirsi ad esso. Soprattutto quando quest’ultimo non se la passa bene. Gli interventi della magistratura, certamente legittimi, hanno come oggetto il sequestro di strutture abusive di tutti i tipi. Ma gli operatori che ogni giorno operano e rischiano, creando posti di lavoro e occupazione, si trovano spesso in difficoltà. Noi dobbiamo intervenire snellendo la legislazione che già esiste, ma anche e soprattutto producendone una nuova, visto che il turismo nel tempo si evolve. Io ho impostato questo primo anno di attività tutto in chiave industriale, con la convinzione che dal settore pubblico non ci si può aspettare la creazione di industrie.

D. Non si rischia di ottenere l’opposto, e cioè che il settore privato si sostituisce a quello pubblico?

R. Non sono d’accordo. Pensiamo per esempio al turismo balneare. Nel Lazio abbiamo 362 chilometri di costa, tutta di proprietà pubblica, appartenente al demanio dello Stato; costa che fra non molto, con il federalismo demaniale, diverrà di proprietà regionale. I singoli Comuni avranno la delega per disciplinare stabilimenti, chioschi, campeggi. Questo perché il litorale appartiene a tutti.

D. Non si direbbe, basta fare un giro da Ostia a Fregene. Che cosa ne pensa?

R. Le polemiche sul fatto che il bagnasciuga in realtà non è fruibile rientrano in quei discorsi che si leggono ogni anno nei giornali con l’arrivo dell’estate, e che non hanno né capo né coda. Chi le alimenta non sa di che cosa parla.

D. Ma non sono in tanti a farle?

R. Mi lasci dire che la costa dev’essere pulita e organizzata, la gente deve essere protetta, mentre al mare vanno molti sprovveduti. Dunque occorrono bagnini, operatori che noleggino sdraio e ombrelloni, venditori di prodotti alimentari. La distinzione tra spiaggia libera e spiaggia attrezzata va chiarita: qualcuno deve garantire quella libera.

D. Non potrebbero occuparsene direttamente le amministrazioni comunali?

R. I sindaci non possono dedicarsi a fare le pulizie sulla spiaggia, il settore pubblico deve comunque affidare in appalto le attività di gestione. Piuttosto bisogna estendere e destagionalizzare. Le concessioni, per come le vedo io, vanno estese e non ridotte: perché montare le strutture in maggio e smontarle in ottobre? A Roma non nevica, non si verificano tsunami, e del litorale si può fruire tutto l’anno, anzi si deve. La concessione ai privati, dal mio punto di vista, è equivalente a un appalto pubblico.

D. Il binomio acqua e turismo vale anche per gli stabilimenti termali?

R. I privati ci guadagnano, è vero. Ma si accollano i debiti, investono e garantiscono occupazione. Rilanciano un settore turistico che in effetti è circoscritto e, con l’eccezione di Viterbo, da noi ancora poco sviluppato, anzi molto arretrato. In ogni caso anche il presidente della Fiat Sergio Marchionne, quando produce automobili, persegue gli interessi propri e dell’azienda, e nessuno si lamenta.

D. Più di qualcuno si lamenta. Il confronto con Parigi è impietoso. Nella capitale francese si registrano 33 milioni di arrivi annui, rispetto agli 11 milioni nel Lazio. Lei ne parla spesso, perché?

R. È un rapporto di tre a uno che lascia perplessi. Cosa abbiamo noi meno di loro? La Monna Lisa di Leonardo è a Parigi, ma il Papa sta a Roma, il Colosseo non ce l’hanno. Lo stesso può dirsi per Londra, perdiamo anche al suo cospetto. Siamo meno ospitali? Siamo meno sicuri? Cosa ci manca? Il parco-giochi, forse. Ancora non c’è, ma fra poco vi sarà, a Valmontone. Per non parlare di Cinecittà World. Tutti parlano del Camino de Santiago e della Via Francigena. San Francesco era di Assisi ma ha vissuto nel Reatino, la via di San Francesco e quella di San Paolo stanno qui. Il Lazio, è vero, è la terza regione in Italia, dopo Toscana e Veneto, per numero di presenze, ossia per i posti letto occupati, ma i numeri non sono confortanti. La media nazionale dei pernottamenti è di quattro notti, la nostra media regionale è soltanto di due.

D. Vengono in tanti, e quasi soltanto a Roma, ma si fermano poco. Che cosa sta accadendo?

R. Compiono un giro rapido, visitano i monumenti più noti e continuano la vacanza in qualche altra parte. Se fossi un turista di passaggio nella Città Eterna, mi indignerei per i 20 euro da donare ad un individuo vestito da centurione per farmi una foto con lui; per gli altri 20 da dare a chi mi offre di farmi scavalcare la fila in un museo; per il ristoratore di Campo de’ Fiori che mi manda via se ordino solo il primo piatto e non un pasto completo.

D. Per non parlare dei tavolini, che spesso, dati alla mano, invadono e sconfinano. Cosa ne pensa?

R. Che male fanno? È un prezzo da pagare, per come la vedo io, che il cittadino romano dovrebbe tollerare per stare nella Capitale del mondo. Per me è uno slalom accettabile tra i monumenti. Su quelle norme si potrebbe chiudere un occhio. La Regione in ogni caso non ha polizia amministrativa, la Provincia e il Comune sì. Un altro settore in cui intervenire è quello delle guide turistiche: occorrono un albo e una specializzazione precisa. Per passare dal Centro storico di Roma al resto della regione, nel Lazio vi sono 378 Comuni. Esclusi i sei di nuova fondazione, risalente all’era fascista, quasi tutti gli altri sono vecchi, non c’è altro termine per definirli: il più giovane di tutti, si fa per dire, è medievale, molti sono coevi di Roma, se non più antichi. E sono piccoli: due terzi del totale hanno al massimo 5 mila residenti; ma in realtà non vi vive quasi nessuno, ed è normale che sia così, visto che il lavoro sta da qualche altra parte. Vanno valorizzati e il modo migliore, secondo me, è costituito dalla ricettività diffusa.

D. È una variante dell’albergo diffuso?

R. Sì e no. L’albergo diffuso non ha mai funzionato, è una favola che si racconta da trent’anni. Ha senso sulla carta, ma nella realtà i numeri parlano chiaro: sono 71 su 8 mila Comuni, non è affatto un successo. Noi intendiamo superare il concetto di albergo diffuso e, per farlo, è allo studio una legge regionale avente per oggetto una nuova formula che ho definito della «ricettività diffusa». Il principio base è lo stesso: un borgo altrimenti inerte dal punto di vista turistico, che si attrezza per ricevere i viaggiatori inserendoli nel territorio urbano. Ma questa accoglienza non deve essere vincolata da troppi requisiti legislativi sulla sicurezza quanto a scale e rampe, o sugli ambienti, ossia sale riunioni, sale ristorazione, hall, come per un qualsiasi albergo. Bisogna essere realistici e ideare delle norme ad hoc, praticabili.

D. Che cosa intende dire?

R. Il modello di riferimento è piuttosto quello dei campeggi. Se va in porto, sarà la prima iniziativa del genere in campo nazionale e darà il via a una nuova tendenza. E poi vi sono i fantasmi, 200 nel Lazio, che si sentono soli, abitano in altrettanti castelli, di proprietà pubblica e disabitati, sparsi nel territorio regionale. Sono disperati perché non sanno chi spaventare. È il caso di far loro compagnia e di guadagnarci.

D. La ricettività è dunque polarizzata: un deserto in provincia e una giungla nella capitale. È così?

R. Esattamente. A Roma il fenomeno dell’abusivismo nel settore della ricettività è terrificante. È necessaria una vigilanza più profonda, specialmente nella capitale che, sotto molti punti di vista, è atipica. Le norme, perfette o perfettibili vanno rispettate. Esiste una concorrenza sleale per chi opera bene, attuata da chi non segue le regole su tasse, igiene e adempimenti vari. Non si tratta di numeri piccoli né di specifiche tipologie di strutture, la situazione è grave e trasversale.

D. Da dove si potrebbe cominciare?

R. Partiamo dai dati o, meglio, dalla mancanza di dati validi e tempestivi. I numeri delle presenze sono parziali e poco attendibili: questo vale per tutti, dal bed and breakfast alle case famiglia, all’hotel di lusso. In questo preciso momento, mentre parliamo, dovrei essere in grado di accendere il computer, scegliere un qualsiasi albergo nel Lazio e sapere ieri notte quante persone vi hanno dormito. Non solo: dovrei poter conoscere anche la nazionalità, l’età degli ospiti e così via. Con i dati potrei elaborare un progetto, ma è un sogno. Moduli cartacei, informazioni incomplete, un disastro. Stiamo quindi lavorando per un nuovo sistema di acquisizione e di controllo dei dati relativi alle presenze.

D. E le tariffe? Cosa pensa del rapporto fra qualità e tariffe dei pernottamenti?

R. Non possiamo farci nulla. Auspichiamo tariffe più ragionevoli, ma molto non si può ottenere. Stiamo piuttosto intervenendo sulla revisione delle classificazioni e sul sistema di attribuzione delle «stelle» alle singole strutture. Riceviamo proposte direttamente dagli albergatori. Molti gestori di alberghi a «cinque stelle» preferiscono, per esempio, averne quattro e praticare prezzi più contenuti anche se la struttura e il servizio restano gli stessi. Cerchiamo in questo di coinvolgere anche i rappresentanti dei consumatori. Così facendo speriamo di andare incontro alle esigenze del settore alberghiero.

D. E per rendere meno faticosi gli spostamenti ai turisti?

R. Nei trasporti pubblici il Lazio ha difficoltà strutturali croniche. Arrivare a Latina è una tragedia, a Rieti ancora peggio, e non parliamo di Tivoli, che sta a due passi da Roma. La realtà è che non esistono solo le esigenze di trasporto dei turisti, c’è molto altro. Il problema è grande, ma la soluzione non si vede. Degli aeroporti preferirei non parlare. Ognuno ha proprie, personali logiche locali, comprensibili visioni territoriali. È in atto una guerra tra poveri che non condivido. A Latina, a Viterbo, a Frosinone? Non so. In ogni caso le risorse finanziarie per creare un nuovo scalo non ci sono. A proposito di collegamenti e di arrivi in aereo, mi stupisce piuttosto un altro aspetto: non esistono voli diretti che colleghino Roma con Pechino o con Shanghai. Il problema non è di mia competenza, perché il turismo non è un servizio dovuto come la sanità o la mobilità, e non viene ritenuto essenziale. Invece lo è, e anzi lo sarà sempre di più.

Tags: turismo Lazio Regione Lazio Federico Geremei Giugno 2011

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