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gianluca comin: una nuova società facilita le altre nelle relazioni esterne

Gianluca Comin, fondatore della Comin & Partners

Dodici anni alla guida delle relazioni esterne di Enel, preceduti da esperienze manageriali in Montedison e in Telecom Italia. Prima ancora, dieci anni di giornalismo sulla carta stampata e una esperienza di portavoce nel primo governo Prodi. Ma Gianluca Comin, nato a Udine e cresciuto a Venezia, oggi vuole ancora un’altra vita, questa volta da imprenditore. Da pochi mesi ha creato Comin & Partners, società di alta consulenza nelle relazioni esterne. Nel pacchetto clienti, nomi come Hitachi, Ilva, Selecta, Eph. La specialità della casa? «Senz’altro la gestione della crisi aziendale–spiega Comin–, aspetto delicatissimo che si può affrontare con successo solo se si ha una solida esperienza sul campo». Certo, basta pensare al blackout del 2003 per farsene un’idea.
Domanda. Lei al momento del blackout era agli inizi del suo percorso in Enel. Dodici anni dopo, come vive il passaggio a una esperienza di tipo imprenditoriale?
Risposta. Vi ho trascorso dodici anni fantastici, che mi hanno permesso di sperimentare qualsiasi novità, nella comunicazione ma anche nei rapporti istituzionali. Il tutto in una struttura molto forte e importante, con persone di altissima qualità come Paolo Scaroni e Fulvio Conti e in un contesto internazionale. Soprattutto negli ultimi anni, poiché Fulvio Conti, come amministratore delegato e direttore generale, ha dato una svolta epocale all’azienda della quale ci renderemo conto forse solo nei prossimi decenni, quando sarà compiuto l’ennesimo consolidamento nel settore e si capirà che l’energia elettrica sarà uno dei pochi ambiti nei quali l’Italia sarà ancora presente a livello internazionale, a differenza che in altri comparti come l’informatica o le telecomunicazioni. Dopo questa enorme esperienza, dodici anni in un posto del genere, per chi fa il mio mestiere, è forse un caso unico, c’è appunto un «dopo». Cosa che avevo previsto da tempo, perché è necessario che ogni esperienza abbia un termine. Mi ero preparato, mentalmente, su varie ipotesi, quella di cambiare lavoro, cambiare azienda o addirittura cambiare Stato, nel senso di dedicarmi a un’esperienza internazionale. Alla fine, la scelta di cominciare la via imprenditoriale è nata soprattutto perché credo che ci siano le condizioni, in questo momento, per fare qualcosa d’importante in questo settore.
D. Non è la prima volta che lei cambia vita: nasce come giornalista, e poi?
R. Dieci anni di giornalismo al Gazzettino. Poi, contro il parere di tutta la mia famiglia che si domandava perché volessi buttare via anni di precariato e di sacrifici, andai a fare il manager, prima per Montedison poi per Telecom, infine per Enel. Cambiai senza remore né preoccupazioni e senza voltarmi indietro, esattamente come sto facendo adesso.
D. Adesso dovrebbe essere più facile, vista la mole di esperienza che può mettere in campo in questa nuova sfida?
R. Infatti. Esperienza che mi permette di pormi in un ambito in cui non ci sono tanti altri. Quello dell’alta consulenza in comunicazione e relazioni istituzionali, soprattutto per quel che riguarda il «crisis management» e, in generale, nella capacità di capire i clienti, siano essi internazionali o nazionali, e offrirgli il bagaglio di esperienza accumulato in questi anni.
D. Che cosa vuol dire, sul piano della comunicazione, gestire una crisi e perché è importante?
R. Nelle grandi aziende le crisi sono ricorrenti. Uno degli elementi fondanti per affrontarle, non importa quanti manuali hai studiato, è l’esperienza. Credo di averne accumulata molta, dal blackout del 2003 alle grandi nevicate, ai morti nelle centrali fino a crisi finanziarie, attacchi terroristici o di ambientalisti. Tutto quello che si può immaginare possa accadere nella vita di una azienda l’ho provato.
D. Come cambia la comunicazione in presenza di una crisi?
R. Si accelera l’azione in maniera fortissima. Nelle prime dodici ore si decide lo «spin» da dare all’informazione. E questo vale sia per una questione giudiziaria, un arresto o un avviso di garanzia a un manager o a un imprenditore, sia per questioni non prevedibili come un terremoto o una grande nevicata. I rischi, va detto, non sono comunque diversi oggi rispetto a trent’anni fa.
D. Oggi che cosa cambia?
R. Cambia la velocità. Con i social media si è accelerata in maniera fortissima la comunicazione. Tutti possono portare informazioni al vertice quindi, tanto per portare un’esperienza nel mio vecchio lavoro, io che sono un cittadino di un piccolo borgo e sono senza luce, mentre cinque anni fa avrei dovuto conoscere un giornalista e mandare una lettera al giornale, oggi con un «tweet» a un direttore di giornale posso accendere il suo interesse e la sua attenzione. C’è insomma un’accelerazione pazzesca che richiede reazioni altrettanto accelerate. Di fronte a un evento che mette a rischio un servizio per i consumatori, la risposta non può essere in giorni, deve essere in ore, in minuti.
D. Quale spazio ha nelle aziende la figura del comunicatore?
R. Sono vent’anni che combatto affinché la professione di comunicatore sia affermata come quella del direttore finanziario o del capo del personale. Ormai ci siamo, perché nelle grandi aziende il direttore della comunicazione o delle relazioni esterne opera a fianco dell’amministratore delegato, fa parte dei comitati esecutivi, partecipa alle strategie. Quindi tutte le caratteristiche che deve avere un manager ci sono. Ci sono un po’ meno nella media impresa italiana o nell’impresa padronale, dove magari la comunicazione viene vissuta in maniera più superficiale. D’altro canto è cresciuta anche la consulenza. Oggi ci sono tanti professionisti in grado di sostenere in progetti particolari e complicati le imprese nelle loro iniziative sia commerciali sia di crescita.
D. Quale può essere l’«identikit» del cliente tipo di Comin & Partners?
R. Sono soprattutto tre. Uno, la multinazionale che viene in Italia per compiere grandi operazioni. Hitachi, che sta partecipando alla gara per l’acquisizione di AnsaldoBreda, è il tipico attore che ha bisogno di una struttura come la nostra quale supporto strategico per «entrare» nel Paese, mettendo a punto un’intelligence sul piano politico, istituzionale e di comunicazione a 360 gradi. Secondo cliente tipo è il manager o l’imprenditore che deve diffondere la propria immagine in maniera diversa. Ha bisogno di un salto di qualità, non gli basta più la struttura interna e vuole affiancarla a una dimensione più internazionale. Così per un periodo si affida a dei professionisti che hanno la possibilità di mettere a punto un revamping, per così dire, della sua immagine, o di trasformare la sua dimensione locale in una dimensione internazionale. Terza tipologia di clienti, coloro che sono investiti da un problema enorme, da una crisi molto delicata e hanno quindi bisogno di una gestione esterna che sostenga quella interna in quella fase.
D. Vi occupate anche di marketing politico?
R. Ci stiamo pensando da vicino. È un terreno di sperimentazione molto interessante, ma non può essere un compito esclusivo, nel senso che lavoreremo per politici ma senza essere i comunicatori esclusivi di riferimento di quel partito o di quel politico. La nostra è una struttura operativa rivolta a varie tipologie di clienti. La politica è interessante anche sul fronte, su cui stiamo già lavorando, dei «big data», ossia dei grandi numeri che rivelano l’atteggiamento delle persone, settore di grande interesse e in sviluppo non solo per il marketing commerciale, ma anche per la politica. Il futuro non sarà convincere uno di destra a votare per la sinistra, ma convincere chi è già convinto ad andare a votare. Per farlo bisogna capire chi è più progressista e chi è più conservatore, andando a vedere che cosa legge, che cosa pubblica su Facebook, che programmi tv guarda, chi frequenta, una sorta di investigazione basata su dati che noi tutti forniamo volontariamente.
D. Riassumendo, qual è il valore aggiunto che lei mette in questa nuova società?
R. Aver già vissuto due vite, quella giornalistica e quella di manager, aver operato in grandi aziende e quindi aver visto tante cose complesse, aver gestito centinaia di persone, milioni di euro di budget, e con innovazione. Da X Factor a Sky arte, ad Enel contemporanea ai tour per il Paese, alle campagne internazionali, Enel è arrivata al G20, al tavolo con i grandi della Terra, prima di chiunque altro in Italia. Tutto questo fa parte di un bagaglio piuttosto esclusivo, che a cinquant’anni ho deciso di mettere in campo per giocare una partita nuova. Il tutto combinato con una squadra davvero eccellente.
D. Com’è composta la sua squadra di «partner»?
R. Cinque partner non certo presi a caso, ma con una grande esperienza dietro le spalle. Elena di Giovanni, già responsabile della comunicazione della Mondadori, poi alla Biennale di Venezia, ha lavorato anche per otto anni all’estero, tra Brasile e Germania. Al suo ritorno è stata direttore della comunicazione di Almaviva e poi di Expo, è dunque molto esperta di comunicazione e di progetti innovativi che incrociano aspetti come cultura e mercato. Francesco Russo, avvocato, lascia un importante studio dove si occupava di antitrust per venire con noi, dove si occupa di «practice public affairs», fa questo mestiere per così dire «all’americana», e affronta i problemi da un punto di vista tecnico e poi, e questo è molto importante, è abituato a confrontarsi con amministratori delegati. Per l’ufficio stampa abbiamo Riccardo Acquaviva, ex capo ufficio stampa dell’Enel, anche lui con grande esperienza, anche internazionale. Per il digitale, social network, comunicazione innovativa, c’è Gianluca Giansante, professore universitario, ex responsabile della comunicazione della Regione Lazio con tanta esperienza anche nel campo del settore sociale. A differenza di altre realtà in questo campo, dove ci sono tanti junior e pochi senior, noi abbiamo fatto l’inverso, vogliamo restare snelli, anche a costo di avere qualche cliente in meno, ma potendo dedicarci ai clienti in maniera profonda ed efficace, visto che li curiamo in tutto: dall’immagine al modo di parlare in pubblico, a dove e come intervenire nei convegni, a quali interviste fare e con chi allearsi.
D. Quanto le serve oggi la sua esperienza di giornalista?
R. Per anni ci si è chiesti se un giornalista debba essere un comunicatore e come si possa passare da una professionalità all’altra e viceversa. Io sono stato per quattro anni presidente dell’Associazione dei comunicatori italiani, la Ferpi. Su queste tematiche mi sono molto confrontato, arrivando alla conclusione che ci siano bravi e non bravi, non necessariamente con steccati chiusi. Ci sono giornalisti bravissimi a diventare comunicatori, a passare da cercatore di notizie a propositori di informazioni, e altri che non sono in grado di farlo. Per quanto mi riguarda, l’essere giornalista mi ha dato almeno tre vantaggi. Primo, la capacità di capire il contesto in cui ti trovi, un po’ di analisi, magari superficiale rispetto a un ricercatore, ma che dà quella visione che, portata in azienda, costituisce il valore aggiunto. Secondo, la capacità di essere alla pari dei «boss»: un giornalista è abituato a intervistare chiunque e quindi non ha problemi ad interagire ad alti livelli, mentre chi parte dentro l’azienda ha del timore reverenziale per la gerarchia. Terzo, la capacità di scrittura. A me è servita enormemente: ho fatto il «ghostwriter» per anni, ho allenato la capacità di sintesi e tutto mi è derivato dall’aver fatto il giornalista. Oggi poi lo «storytelling» sta diventando fondamentale per raccontare l’azienda, le persone, la politica.
D. Guardandosi attorno, quali sono gli errori di comunicazione più comuni ed evidenti?
R. L’errore più frequente credo sia quello di fare una comunicazione che piace a se stessi e non al target cui ci si rivolge. In realtà è vero che oggi comunicando si arriva a tutti, ma l’essenziale è raggiungere i clienti che ci interessano. Quindi è essenziale la capacità di focalizzarsi su un target specifico nel messaggio e nel modo di arrivarci. Purtroppo spesso si tende a fare ciò che piace a sé o al proprio capo invece di fare ciò che è necessario per vendere il prodotto. Non dobbiamo vergognarci ad esempio di essere popolari se il nostro mercato è per le persone comuni.  Inoltre dobbiamo sempre più immaginare una continua formazione e innovazione nel nostro lavoro, oggi più di prima. La direzione da seguire? Cambia in continuazione. Oggi per esempio un comunicatore non può prescindere dalla pubblicità sul «mobile», che non vuol dire trasferire tout court la pubblicità che faccio in televisione o su internet nella tecnologia mobile, ma significa comunicare in modo da arrivare a qualcuno che sta in autobus per un quarto d’ora e vede un video su Google o su YouTube.
D. Dobbiamo imparare molto dall’estero, dagli Stati Uniti?
R. Non credo, non sono tra coloro che ritengono che dobbiamo imparare tutto. Alcuni orientamenti magari arrivano un po’ prima negli Usa e conoscerli in anticipo aiuta. Pochi mesi fa sono stato alla Google in California a Mountain View ed è stato molto interessante capire dal loro punto di vista, che è prettamente commerciale, le nuove tecniche di pianificazione attraverso i social network, la rete, e certamente c’è molto da imparare e da sperimentare. Però alla fine c’è grande qualità anche in Italia. La grafica italiana è apprezzata in tutto il mondo. Adesso c’è grande polemica per il logo di Roma, io trovo che si tratti di un lavoro fatto bene e forse mal comunicato. La realtà è che in fatto di grafica ci copiano tutti.
D. Come si gestisce la concorrenza in questo mestiere?
R. Il ruolo che ho deciso per la mia azienda la rende un pesce bianco in un acquario di pesci rossi. Non siamo una società di «media relations», non siamo una società di «public affairs», non siamo una società di comunicazione. Siamo una società di alta consulenza nelle relazioni esterne. E non c’è nessun’altra realtà di questo tipo sul mercato, a parte qualche network internazionale, con diverse strutture di costi rispetto a noi. L’importante è restare bianco in mezzo ai rossi ed evitare di diventare rosso anch’io, o che qualcun altro diventi bianco come me. È tutta qui la mia salvezza di imprenditore.     

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