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Tornare al latino (anzi all’italiano)? Basta una metamorfosi di un certo Ovidio

Bruno Piattelli

Lo scrittore Vittorio Sermonti ha compiuto un’opera eccezionale. Ha tradotto in una lingua moderna, spigliata, veloce, ma senza perdere in aulicità e storicità, le «Metamorfosi» di Ovidio. Esametri perfetti che, emozionando di per sé, hanno la stupenda capziosità di rimandare il lettore al testo originale, a fronte. Non esito a definire l’opera una meraviglia.  La scuola ha il pregio di far conoscere l’esistenza dei capolavori, ma ha il torto, che un po’ le spetta, di «obbligare» a studiarli. E chi li legge, capisce, quando capisce, e alcune volte deve pure mandarli a memoria.
Ma lo deve fare, ed allora non simpatizza e non si rende conto di cosa gli capiti. Poi, molto poi, le occasioni della vita lo ricordano e si va a ricercarli e a rileggerli. E chi lo fa si entusiasma. E scopre il suono delle parole originarie, i significati profondi delle terminologie che si usano quotidianamente. E si scopre, in questo caso, chi era Ovidio. La metrica, l’eleganza del verso, le parole e i concetti di una modernità assoluta perché è l’attualità che si rifà a ciò che dice.
Il riporto, già allora, di storie e tradizioni, oltre la sua fantasia; e il racconto fantasmagorico degli Dei, della loro essenziale umanità per gli atti, i pensieri, la vita con tutti i nostri pregi e i nostri difetti; di come ci riconosciamo in essi. E pure quando ne combinano, in fin dei conti, li comprendiamo e ci sono simpatici. E ci racconta la nascita dell’uomo: «Sanctius his animal mentisme capacius altae deerat adhuc ed quod dominari in cetera posset. Natus homo est».
Come dire di più, come dire meglio, quali le speranze per la nuova creatura. E Sermonti lo segue senza perdere una battuta nel senso del ritmo e dell’espressione poetica subliminandola: «Ma un animale più nobile, di più elevato intelletto, degno di primeggiare su tutti gli altri mancava. Ed è nato l’uomo».
E poi ci racconta dell’età dell’oro, dell’argento e del bronzo. E poi le scansioni del tempo, le ore, il giorno, l’anno, i secoli; e poi le stagioni.  E poi l’entusiasmante gelida introspezione freudiana di Narciso. Dante, si dice, conosceva a memoria i poeti latini. Ma, genialità a parte, come avrebbe fatto senza tanta scuola? Quasi si scoprono gli altarini, per l’estensione del pensiero come per la tecnica magistrale.  Perché sentì il bisogno d’inventare un nuovo linguaggio? Disponeva di un vocabolario non scarso, ricchezza di terminologie, musicalità nella composizione, possibilità sincretica tanto quanto la lingua anglosassone; e noi ora dobbiamo star lì a fare dei panegirici (va detto ai parolieri). Insomma per farci studiare di più. E ancora si discute se studiarlo, il latino, che insegna a ragionare e a vivere.
Alcuni anni fa, dovendo andare a Pechino per il mio lavoro, l’allora sindaco di Roma Francesco Rutelli m’incaricò di consegnare un invito a venire a Roma al suo collega cinese. Accompagnato dall’ambasciatore italiano in Cina, mi recai nel Municipio della città per essere ricevuto nella classica sala, occupata da tante poltrone quante ne entrano nelle quattro pareti.
Entrando tra l’accoglienza di tutti i consiglieri comunali, mi venne incontro un signore che, tendendomi la mano, mi apostrofò in una lingua sconosciuta. Non che io conosca il cinese, ma quel suono mi era familiare, e dopo pochi secondi di perplessità percepii d’istinto che quel sindaco mi parlava in latino. A più di cinquant’anni di distanza e di non uso, la mia perplessità era giustificata, ma reagii e farfugliai qualcosa. Naturalmente sorridemmo tutti. Quel sindaco di Pechino era un grande latinista e uno storico di Roma.
Quando poi lo ricevemmo in Campidoglio, Rutelli mi chiese: «Ora cosa gli diciamo e come?» «Non ti preoccupare», dissi, e quando entrò nello studio l’accompagnammo nella celebre «loggetta» che domina i Fori. Lo vedemmo eccezionalmente emozionato e non ne fece mistero. Aggiunsi: «Francesco, abbiamo detto tutto». Non possiamo non soffermarci sul fascino della romanità e della sua lingua. Non è un titolo di merito, ma di orgoglio sì.
Dopo quella dei greci è la lingua che più ha influenzato i grandi ceppi linguistici del mondo, quelli latini a parte, e , dopo il diritto romano che fa parte dei grandi Codici del mondo, anche la Chiesa ne ha perpetuato l’uso e l’attualità. Torniamo a questa gratuita ricchezza illimitata.

Tags: Novembre 2014 Bruno Piattelli

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