Occhio alla sanità - Barbara Mangiacavalli: sono gli infermieri che si prendono cura dei cittadini
Barbara Mangiacavalli, 46 anni, direttore sociosanitario dell’Asst Bergamo Ovest, è da un anno il presidente della Federazione Nazionale dei Collegi Ipasvi di cui fanno parte 103 collegi provinciali con 423.397 iscritti. Oltre alla laurea magistrale in Scienze infermieristiche e ostetriche all’Università di Milano, è laureata in Business administration alla Canterbury University e in Amministrazioni e politiche pubbliche all’Università di Milano.
Domanda. Lei è presidente Nazionale dei Collegi Infermieri Ipasvi: quando nascono e che cosa rappresentano?
Risposta. I collegi rappresentano l’espressione deontologico-professionale dell’attività dell’infermiere che tutelano e assistono i cittadini. Nascono nel 1955, voluti da un decreto governativo dell’ottobre 1954, e voluti soprattutto da quelle operatrici della sanità consapevoli di essere preziose, ma che non avevano ancora ottenuto uno specifico riconoscimento professionale, perché il decreto del 1946 sulle professioni sanitarie si era limitato a ripristinare gli ordini dei medici chirurghi, dei veterinari e dei farmacisti e a istituire i collegi delle ostetriche. E in questo senso l’iscrizione all’albo da parte del professionista comporta obblighi, doveri, osservanza di un codice deontologico e di disposizioni legislative, ma anche diritti e vantaggi. L’istituzione di un collegio e, speriamo presto, di un ordine professionale e del relativo albo garantisce la tutela dell’assistito che si ottiene vigilando affinché l’iscritto abbia titolo per mettere le mani su di lui anche con l’esercizio della magistratura interna. Quindi il controllo sui comportamenti deontologici e professionali: si lavora per una sorta di accreditamento periodico anche in termini di competenza dei professionisti. Non basta essere iscritto all’ordine se poi l’iscrizione diventa una mera formalità di cui mi fregio senza rivedere la mia preparazione, formazione e competenza. Va introdotto un percorso di accreditamento periodico professionale e continuativo.
D. Dopo quindici anni l’Ipasvi ha cambiato presidente: quali sono le priorità del suo mandato?
R. Tra i punti principali del programma del nuovo comitato centrale della federazione di cui sono presidente, insediato nel 2015 e che prosegue con continuità con i precedenti mandati, ci sono le competenze avanzate degli infermieri. Si tratta in realtà di un cammino già compiuto che per percorrere l’ultimo miglio richiede un salto culturale non solo da parte nostra. Poi apriremo la partita del territorio sul quale rivendichiamo una presenza attiva e responsabile degli infermieri. E per questo stiamo lavorando con le associazioni dei cittadini con l’obiettivo di mettere a punto indicazioni utili su standard, indicatori di esito e fabbisogni di personale. Contemporaneamente c’è da disegnare il profilo della libera professione degli infermieri. In questo senso intendiamo prevedere un meccanismo di accreditamento che dia garanzie anche ai cittadini su che professionista è, quello a cui si stanno rivolgendo. E c’è poi tutta la partita della verifica di ciò che oggi si eroga al di fuori dell’ospedale, spesso da parte di soggetti non abilitati e soprattutto con il rischio che bisogni e crisi diventino un mix dirompente da un lato per lo sfruttamento di situazioni di sottoccupazione e dall’altro anche di poca trasparenza dal punto di vista fiscale. A fianco di tutto questo ci dovrà essere anche una revisione dei percorsi formativi, sia per quanto riguarda le competenze specialistiche, sia per la formazione continua rispetto alla quale la federazione è sempre stata in prima linea proponendo ai suoi iscritti corsi gratuiti perché gli infermieri siano sempre aggiornati e all’altezza della loro professionalità
D. Rispetto al passato, in che modo la professione dell’infermiere si è evoluta in questi ultimi anni? Che cosa chiedono i cittadini quando si rivolgono a voi?
R. L’infermiere ha un ruolo di presa in carico e anche di educazione alla salute, visti i risultati di recenti ricerche che hanno ad esempio messo in evidenza come il nostro sia un popolo che sta tutto sommato bene, ma con pessimi stili di vita. E il cittadino all’infermiere può chiedere di «prendersi cura» di lui, soprattutto nei casi di maggiore fragilità. L’invecchiamento della popolazione è un fatto ormai evidente e tutti sanno che gli anziani saranno presto la parte preponderante dei cittadini. Ma l’età anziana se da un lato aumenta proprio grazie ai progressi della scienza, dall’altro presenta una serie di ostacoli che si moltiplicano con gli anni e a cui la scienza, o meglio l’assistenza dovrà rispondere: le malattie croniche, la presenza nello stesso individuo di più patologie, fino alla disabilità e alla non autosufficienza che oltre a cure e assistenza richiedono attenzione anche per il mantenimento della dignità della persona. Al cittadino non basta più essere curato, ma ha bisogno di chi si prende cura di lui. Il paziente nella sanità deve trovare cure, è vero, ma anche la risposta a tutti i suoi bisogni, modificati con l’aumento dell’età, della non autosufficienza, delle cronicità. Questo perché i bisogni di salute una volta usciti dalle mura degli ospedali divengono paradossalmente maggiori, viste le difficoltà che spesso si incontrano per far fronte a volte anche alle minime necessità. Allora dobbiamo modificare il sistema, fare prossimità, andare vicino ai bisogni delle persone. E per farlo, ripeto, occorre valorizzare gli infermieri, che sono persone formate professionalmente per stare vicino a questi bisogni. Gli stessi cittadini lo chiedono.
D. Qual è il percorso formativo degli infermieri rispetto ai nuovi bisogni della popolazione italiana? In che modo occorre valorizzare gli infermieri?
R. Laurea triennale, laurea magistrale, master di primo e secondo livello, corsi di perfezionamento, dottorati di ricerca e così via. Lo stesso percorso di ogni professione intellettuale che si rispetti. E che vogliamo implementare grazie all’attività di collaborazione avviata dal comitato centrale con l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari (Agenas) sui percorsi formativi, di tipo gestionale e manageriale per gli infermieri. Ci sono poi le competenze avanzate. Nuovi ruoli cioè, già individuati nelle aree specialistiche descritte nella bozza di accordo Stato-Regioni ancora non approvato ufficialmente, ma su cui tutti concordano. Si prendono a riferimento le necessità del cittadino a cui spetta la vera leadership nell’assistenza e si disegna un percorso al termine del quale il «nuovo» professionista condivida alla pari con altre professionalità le scelte cliniche. Nel modello Ipasvi è prevista una figura di infermiere con perfezionamento clinico che si riferisce a un infermiere che ha seguito un corso di perfezionamento universitario che lo ha messo in grado di perfezionare le sue competenze «core» applicate a un’area tecnico operativa molto specifica. Poi c’è l’infermiere esperto clinico con master che si è formato con un master universitario di primo livello che lo ha messo in grado di approfondire le sue competenze declinandole in un settore particolare dell’assistenza infermieristica. E infine l’infermiere specialista clinico con laurea magistrale, formato con laurea magistrale in Scienze infermieristiche con orientamento in una delle aree previste dall’accordo Stato-Regioni. Questo infermiere è in grado di orientare, governare sia i processi assistenziali tipici di una certa area clinica, sia le competenze professionali necessarie per realizzarli.
D. Rispetto agli infermieri «in servizio», quanto sarebbe il fabbisogno infermieristico nelle strutture pubbliche italiane?
R. La stima l’abbiamo fatta abbastanza precisa. Diciamo che se si dovesse coprire la carenza generata dal nuovo orario di lavoro europeo che prevede riposi obbligatori di 11 ore, di infermieri in più ne servirebbero quasi 18 mila. Ma ci sono anche altri parametri per calcolare il fabbisogno. Tra questi c’è il calcolo delle unità a tempo pieno rispetto agli attuali infermieri in part time, c’è l’aumento della domanda legato alle patologie croniche e alla non autosufficienza, c’è l’invecchiamento della popolazione che anche a livello di riparto del fondo sanitario nazionale genera diversi livelli di pesatura della popolazione. Stime possibili ne abbiamo fatte graduando i vari indicatori. E si va, al di là delle necessità legate all’orario di lavoro che sono davvero quelle minime, da un fabbisogno di circa 47 mila unità considerandone 30mila per effetto della conta per unità a tempo pieno e circa 17 mila per effetto dell’aumento della domanda dall’attuale 6 al 6,3 per mille. E via via, considerando l’aumento della domanda rispetto a tutti i fattori che abbiamo visto, si raggiungono le 60mila unità con una domanda al 6,5 per mille e le 90 mila unità con la domanda al 7 per mille. Parametro quest’ultimo comunque ben al di sotto del 9 per mille medio dei paesi Ocse, ma in questo senso si devono considerare anche i diversi sistemi sanitari e la diversa organizzazione dei modelli assistenziali.
D. Perché rimane sempre una sorta di «diffidenza» da parte delle figure mediche riguardo a questa professione? Quali sono le altre figure professionali con le quali l’infermiere può entrare in «conflitto»?
R. Non abbiamo trovato diffidenza da parte dei medici quando, in occasione del XVII congresso nazionale che si è svolto un anno fa, abbiamo presentato una ricerca Eures da cui è emerso che nove medici su dieci sono soddisfatti del loro rapporto con le professioni sanitarie. E il 94,2 per cento - anche di più quindi - lo è nei confronti proprio degli infermieri. Anzi, oltre i due terzi dei medici sono convinti che proprio la presenza dell’infermiere specialista sarà «molto» o «abbastanza utile ed efficace» in tutte le aree mediche in cui sarà impegnato. Se qualcuno ancora non è d’accordo si tratta sicuramente degli ultimi nostalgici del «vecchio stile»: è solo il muro di preoccupazione - mi auguro non di paura - che chi vede vacillare lo status quo ante ha, nei confronti di ciò che secondo lui lo fa vacillare. Un discorso di pochi, ma chiassosi professionisti che gridano al lupo al lupo, non vedendo però quella crescita professionale che non riguarda solo la nostra professione, ma che, come hanno sottolineato e codificato nelle loro analisi a più riprese illustri centri di ricerca e Università, coinvolge tutte le professionalità sanitarie che orbitano attorno al paziente. D’altra parte già oggi ordini provinciali dei medici e collegi provinciali degli infermieri collaborano gomito a gomito per risolvere i bisogni reali di salute dei loro territori.
D. Gli infermieri italiani guadagnano di più o di meno rispetto ai colleghi europei?
R. Sarebbe necessario fare dei distinguo prima di tutto in base ai sistemi sanitari dei vari Paesi, poi anche in funzione del diverso potere di acquisto con cui i professionisti hanno a che fare. Il guadagno a parità di incarico e di funzione, considerando le variabili che ho indicato, può essere considerato quasi analogo, ma guadagnano un po’ meno gli italiani. Se invece si guarda alle diverse funzioni, ai diversi ruoli e alle diverse competenze avanzate di altri Paesi europei allora il gap si allarga. In Inghilterra un infermiere con funzioni specialistiche e dirigenziali arriva a guadagnare anche oltre 100 mila sterline l’anno, quasi il doppio di quello che un suo collega italiano può sperare. Tuttavia, seppure si tratta di un argomento evidentemente importantissimo, direi che in questo momento per noi oltre al contratto da rinnovare possibilmente in termini positivi, c’è tutto il percorso professionale da rilanciare, di cui ormai la nostra professione non può e non deve fare più a meno.
D. Che tipo di strategie possono mettere in campo i sistemi di salute pubblica per consentire da un lato la disponibilità di terapie sempre più efficaci e dall’altro l’accesso e la sostenibilità?
R. La prima strategia è l’appropriatezza, parola chiave della gestione della sanità pubblica che oltre a rendere più efficiente il servizio sanitario è in grado anche di liberare risorse per investire nell’innovazione che il progresso clinico-assistenziale richiede. Un intervento appropriato risolve i bisogni del paziente e bilancia gli interventi clinici con una spesa che ormai è ridotta all’osso. L’appropriatezza in realtà ha due metà, due facce: quella clinica e quella organizzativa. L’appropriatezza clinica riguarda l’indicazione o l’effettuazione di un intervento sanitario in condizioni tali che le probabilità di trarne beneficio superano i rischi. L’appropriatezza organizzativa si riferisce al livello assistenziale che deve essere adeguato all’intervento sanitario e clinicamente appropriato in termini di sicurezza, economicità e consumo delle risorse. Il concetto di appropriatezza, anche se affonda le radici nella qualità professionale, rappresenta una delle modalità per fronteggiare la cronica carenza di risorse, attraverso una loro ottimizzazione. Di conseguenza, professionisti e decisori mantengono una «visione strabica» dell’appropriatezza: riconoscono prevalentemente le inappropriatezze in eccesso, la cui riduzione può offrire boccate d’ossigeno al bilancio economico. In realtà, esistono una serie di interventi, servizi e prestazioni sanitarie di provata efficacia largamente sottoutilizzati, la cui necessaria implementazione determina, almeno nel breve e medio termine, un incremento dei costi. E per il controllo e la gestione dell’appropriatezza organizzativa, è necessario che siano previste risorse umane in grado di assumere responsabilità trasversali di coordinamento perché tutti gli interventi abbiano la loro giusta quantificazione e posizione. In questo senso le ultime indicazioni date da centri di ricerca come la Sda Bocconi o il Cerismas dell’Università Cattolica di Roma, indicano la necessità di uno skill mix, cambio di pelle: bisogna comporre équipe con competenze diverse tenendo conto dell’upgrading della professione infermieristica e delle altre professioni sanitarie e, in qualche modo, riconfigurare l’organizzazione dei servizi sanitari e socio sanitari.
D. In cosa consiste la campagna di comunicazione lanciata dall’Ipasvi per far conoscere la professione?
R. Abbiamo cercato di distinguere la presenza sui media legata a necessità purtroppo contingenti a fatti di cronaca che in realtà, spesso, non avrebbero nemmeno dovuto coinvolgerci, con una necessaria e auspicabile presenza per far capire alle persone chi è e cosa fa l’infermiere oggi. Il tutto senza cercare di attirare l’attenzione ricorrendo ad atti, spesso anche plateali, che si trasformano in un boomerang dal punto di vista dell’immagine - e per l’assistenza - tra i cittadini. Cittadini che invece hanno bisogno di essere rassicurati, parlando loro di chi e di ciò su cui possono contare davvero per difendere la propria salute. Dal punto di vista organizzativo la campagna di comunicazione Infermieri 2016 è stata avviata con la Giornata internazionale dell’infermiere, da cui prende spunto il messaggio da divulgare fino a fine novembre e dal 20 giugno è entrata nella sua seconda fase, quella della campagna istituzionale. Fino al 1° luglio sono stati trasmessi 2.555 spot radio su 43 emittenti nazionali e locali e sarà pubblicata mezza pagina stampa su testate nazionali e free press. La campagna prosegue con la diffusione di infografiche, pagine web, locandine, brochure e presenza sui social, attività in cui i materiali saranno forniti anche ai Collegi per la relativa partecipazione e condivisione. Dal mese di ottobre poi è prevista la diffusione di uno spot TV da 20 secondi (1.088 passaggi) su venti reti Tv. Gli stessi strumenti verranno usati a partire dall’estate per la diffusione da parte dei collegi di una campagna di comunicazione su best practice scelte in ospedale, sul territorio e per l’emergenza. I risultati e gli effetti della campagna saranno poi illustrati pubblicamente in un evento conclusivo previsto a fine novembre.
D. Che consigli darebbe a un giovane aspirante infermiere?
R. Gli direi che ha scelto la professione del futuro e che non deve demordere mai. Personalmente ritengo sia meglio impegnarsi in ciò in cui si crede davvero che non correre dietro a traguardi che lascerebbero chi li raggiunge con la sensazione di aver rinunciato a qualcosa di importante. Per sé e per gli altri. E chi vuole intraprendere la professioni infermieristica lo fa sicuramente perché crede in una serie di valori che devono andare al di là delle paure generate dalla crisi che da anni è provocata dai blocchi del turn over nelle Regioni e dall’assenza dei contratti. Lo diciamo da tempo ormai: la qualità dell’assistenza e perfino il risparmio economico che deriva dall’appropriatezza delle prestazioni è prima di tutto legata alla qualità del personale. Ci vuole coraggio, come per affrontare qualunque cosa in cui si crede davvero. E soprattutto i giovani devono averlo per il loro futuro.
D. Come sarà in futuro la professione?
R. Dobbiamo garantire una nuova governance, diversa, per il Servizio sanitario nazionale, dove gli infermieri possano estrinsecare tutte le potenzialità della loro professione. Poi dobbiamo presidiare l’applicazione del recente patto per la salute e degli standard ospedalieri e territoriali per sviluppare nuovi modelli organizzativi per l’ospedale e per il territorio. Per tutto questo sarà necessario presidiare anche le relazioni interprofessionali e intraprofessionali per superare paure regressive e battaglie di retroguardia. Evidentemente tutto questo sarà possibile se si deciderà di «invertire» la rotta sul mercato del lavoro per evitare ulteriori depauperamenti di numeri e professionalità, oltre che di competenze. La nostra idea generale è rendere gli infermieri protagonisti del proprio futuro, assumendo un ruolo più forte e di solida presenza dove si discute, si dibatte e si decide per la sanità, per la formazione, per le professioni, per il lavoro. Il comitato centrale della federazione in questo senso darà sostegno pieno ai collegi provinciali e ai coordinamenti regionali perché siano il «luogo» per i cittadini e i liberi professionisti dove si incrociano con trasparenza domanda e offerta di professionalità e assistenza infermieristica. E in questo senso vogliamo realizzare anche un percorso di accreditamento dei professionisti per certificare le competenze acquisite e la qualità della professione anche nel libero mercato.
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