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*SPECIALE UNIVERSITÀ* Giuseppe Novelli: Tor Vergata è ma non è la seconda università

Il professor Giuseppe Novelli, Rettore dell’Università degli Studi di Roma Tor Vergata

L’Università degli Studi di Roma «Tor Vergata» ha avviato le proprie attività nel 1982. Progettata sul modello dei campus universitari anglosassoni, occupa un’estensione territoriale di 600 ettari e ospita importanti istituzioni di ricerca, come il Cnr e l’Agenzia spaziale italiana. La presenza di altri centri in prossimità dell’università, quali l’Enea, l’Esa-Esrin, l’Istituto nazionale di astrofisica, l’Osservatorio di Monte Porzio Catone e l’Istituto nazionale di Fisica nucleare, ha fin dagli inizi contribuito a rendere Tor Vergata una dinamica aggregazione di ricerca. All’interno del Campus è anche presente una delle strutture ospedaliere più moderne d’Italia, il Policlinico universitario Tor Vergata, centro assistenziale e di ricerca di riferimento per tutta la Regione Lazio, nel quale opera anche la Facoltà di Medicina e Chirurgia. Sono presenti nel complesso un centro universitario sportivo di ateneo, un orto botanico di nuova generazione, il Garden Golf University, il Tor Vergata Sailing Club, il Museo Archeologia per Roma. L’ateneo è strutturato in 6 macroaree (Economia, Giurisprudenza, Ingegneria, Lettere e Filosofia, Medicina e Chirurgia, Scienze matematiche, fisiche e naturali), organizzate in 18 dipartimenti. Oggi l’Università  ha scelto di porre il tema dello «sviluppo sostenibile» al centro della propria attività per contribuire all’agenda globale dei prossimi quindici anni, definita dalle Nazioni Unite e approvata lo scorso 26 settembre: lo ha annunciato il 23 novembre scorso, nel corso della cerimonia inaugurale dell’anno accademico 2015-2016, il rettore Giuseppe Novelli.
Domanda.  Quali le novità del nuovo anno accademico di Tor Vergata? 
Risposta. L’anno accademico si apre con un segno positivo degli iscritti, che non crollano come purtroppo sta accadendo in molte università del Sud. I giovani migrano verso regioni nelle quali pensano di avere maggiori possibilità di impiego, perché questo è il nocciolo della questione: le opportunità. Per me c’è anche un secondo aspetto, quello legato alla possibilità di modificare i corsi di studio, cosa che noi abbiamo fatto investendo molto in questi ultimi 8 anni. Servono le competenze: perciò ci siamo dedicati a cambiare alcuni corsi perché non diano non solo un pezzo di carta, che non serve più, ma il saper fare. Così  abbiamo aperto un nuovo ufficio di placement che aiuta i laureati a trovare lavoro con un’azione che è diretta alle aziende ed è caratterizzata da un colloquio continuo con esse. Questo impegno ci sta dando ragione perché alcuni dei nostri giovani trovano impiego immediatamente.
D.  In che modo avete modificato i vostri corsi di laurea?
R. Abbiamo guardato con grande interesse alle  nuove figure professionali. Ad esempio, quest’anno abbiamo aperto il corso di Ingegneria di internet, l’unico corso di questo tipo nel mondo, una laurea magistrale in lingua inglese, e il nostro intento è di attirare più giovani e studenti stranieri possibile, ecco perché la scelta della lingua, oltre che per la considerazione che in quel dato settore informatico l’inglese è dominante. Altro corso di laurea che stiamo potenziando, sempre in lingua inglese, è quello in Bioinformatica, che prepara gli esperti che dovranno gestire i dati biologici: ormai questi ultimi si stanno digitalizzando, oggi non c’è azienda od ospedale che possa permettersi di non avere un bioinformatico. Non solo placement: stiamo aumentando i servizi, questione più faticosa perché non dipende solo dalle risorse dell’università, ma da quelle regionali e nazionali. 
D. Tor Vergata ha una strategia «aziendale»?
R. Stiamo ragionando su un’idea nuova, che è venuta riflettendo sul vecchio concetto delle start up, cioè mettere insieme l’università e l’impresa per fare un prodotto nuovo, una piccola impresa dentro l’università. Purtroppo in Italia questo non funziona, anche perché non siamo la California, che ha grandi investimenti e grandi imprese; l’87 per cento del nostro tessuto imprenditoriale è formato da piccole e medie imprese con non più di 10 dipendenti, che hanno reso ricco questo Paese, ma che nei prossimi anni chiuderanno perché fare innovazione, sviluppo e ricerca con 10 persone non è competitivo. Il nostro progetto, dal nome «Spin in», ha lo scopo di portare le piccole e medie imprese dentro l’università per modificare il prodotto che le imprese del nostro territorio già danno. Giorni fa un imprenditore mi ha detto di avere in mano un kit diagnostico che copre solo l’80 per cento dei malati, mentre una ditta belga ne ha fatto uno simile coprendone il 90 per cento, per cui è normale che quest’ultimo venda di più; gli ho risposto:  «Un nostro ricercatore in due settimane lo perfeziona». Questo può fare l’università e a costo zero, e se il prodotto va bene l’introito è divisibile; è questa la grande idea. Ogni università può avere questo tipo di portafoglio, che poi può divenire un fondo d’investimento da impiegare per le borse di studio e l’assunzione dei ricercatori.
D. Anche se è tanto criticata, cosa ha di buono la nostra università?
R. L’università italiana ha tre peculiarità: i giovani, i talenti e le idee, è questo il capitale umano che tutto il mondo ci invidia, ma ogni anno 3 mila dei nostri medici vanno a Londra e trovano subito lavoro. Il nostro trucco è nella formazione scolastica e universitaria, che è tra le migliori del mondo. Ma è proprio questo l’assurdo. Scappare non è un difetto, anzi, io mi preoccupo degli altri che non vengono in Italia. La ricerca internazionale è un mercato, e se l’italiano è bravo ed ha una proposta di lavoro di livello all’estero è normale che l’accetti. Il problema è: come si fa a competere con gli stranieri su questo? Ho provato a far venire gli stranieri, a volte ci sono riuscito, altre no, anche perché noi siamo vincolati agli stipendi statali, questo è il punto, di più non possiamo dare.
D. Perché non siamo competitivi?
R. Ci vuole l’autonomia nelle università e noi non l’abbiamo, è proprio questo che non ci consente di competere: se voglio assumere un premio Nobel nessuno deve imporre il concorso e il tetto di stipendio. O come possiamo competere con l’Inghilterra? Per non parlare di tutta la burocrazia che c’è da sbrigare: bandi, domande, una commissione, l’approvazione degli atti, per poi sperare che non ci sia un ricorso. Se tutto va bene, occorre un anno e mezzo per acquisire un professore straniero. Un’altra università lo assume in 15 giorni. E allora come facciamo a competere con gli altri? Questo è il punto cruciale, ecco perché i nostri vanno via e qui non viene nessuno. Noi li formiamo bene ma poi manca la possibilità di lavoro, e come esempio cito i dottori di ricerca: ne formiamo 10 mila l’anno, le università ne assumono 800 l’anno, e gli altri 9 mila dove vanno? Con la nuova legge di stabilità qualcosa si sta muovendo, vi sono mille nuovi posti di ricercatore, 500 per stranieri, e gli altri restanti? Non solo dovrebbero trovare spazio nelle università, ma anche negli ospedali e nelle aziende pubbliche. Il titolo di dottore di ricerca, richiesto in tutto il mondo, il più importante nel settore universitario, in Italia non è valorizzato.
D. Roma sogna le Olimpiadi del 2024. Proprio intorno alla zona dell’ateneo vi sono le strutture mai completate e abbandonate della Città dello Sport dell’architetto Santiago Calatrava. Cosa ne pensa?
R. Le Olimpiadi costituiscono una grande occasione perché in questo Paese le cose si fanno solo se c’è un’occasione. L’Expo l’ha dimostrato, e la prossima occasione sarà il Giubileo. Sento parlare di questo grande Centro di ricerca universitaria che si farà a Milano, e ciò accadrà solo perché c’è stato l’Expo. A Roma manca tutto questo e Tor Vergata si è candidata ed è stata inserita nel progetto Olimpiadi perché ha 600 ettari di terreno e la possibilità di investire su quello che già ha. Per esempio gli alloggi con le residenze per gli atleti che poi rimarrebbero, noi ne abbiamo 1.500 ma non bastano, anche perché abbiamo 40 mila studenti. Presenteremo il progetto nel 2017 insieme al comitato Roma Olimpiadi.
D. Pensereste di costruire questi alloggi entro il 2017?
R. Stiamo ragionando con il Comitato sul progetto, Luca Cordero di Montezemolo e Giovanni Malagò sono venuti a Tor Vergata proprio per avere idee nuove dagli studenti e farli lavorare nel progetto Olimpiadi, che potrebbe essere un’arma in più al momento della selezione. Speriamo tanto in questo anche perché ci porterà qualcosa che poi non rimarrà una cattedrale nel deserto ma che, finito l’evento, verrà gestita da un’università di 40 mila studenti. Si può usare una parte delle famose vele di Calatrava, opera per cui noi italiani abbiamo speso 200 milioni di euro e che sono rimaste là, incompiute per una serie di motivi; una vela potrebbe essere usata, come da progetto, per il famoso Palasport che a Roma non c’è; per la seconda vela stiamo cercando finanziamenti in Europa.
D. Quali altri progetti?
R. Vogliamo creare un centro di conoscenza, valorizzare la facoltà di Scienze, la quale oggi non ha una sede decente, creare un orto botanico di tipo biotecnologico, che a pagamento attragga anche visitatori esterni. Questo progetto è stato ben accettato dall’Unione Europea e stiamo aspettando il finanziamento. Il progetto dovrebbe partire a breve, siamo in attesa della risposta degli enti valutatori. Stiamo inoltre lavorando su un master plan, con l’idea di individuare varie isole o strutture in questo grande spazio di 600 ettari e provare a chiedere finanziamenti per ognuna di esse con bandi diversi, da convogliare poi in un progetto unico e condiviso.
D. Nei ranking mondiali l’Italia non è affatto negli ultimi posti eppure ci si piange sempre addosso. Cosa fare per aumentare il livello di eccellenza e la visibilità?
R. Ognuno ha la propria classifica, molte di queste sono fatte da agenzie private che non hanno alcun riconoscimento. Il fatto è che nessuno stabilisce le regole, le quali dovrebbero essere prima condivise da tutti. Dobbiamo partire tutti uguali, per poi concorrere. Ma non è sempre così, ed è ciò che è successo nel ranking della QS, una società inglese che fa questo: in questo ranking gli italiani andavano molto bene perché era valutata la qualità scientifica delle università; quest’anno è stato però modificato un indicatore, quello dei prodotti delle aree umanistiche in lingua inglese, di conseguenza penalizzando italiani, spagnoli e greci, perché normalmente in queste aree le pubblicazioni sono effettuate in lingua autoctona, mentre nelle scienze e nella medicina no. Ho protestato fortemente, non solo personalmente ma anche nella conferenza dei rettori, e abbiamo presentato una lettera alla QS affinché comunichi con un preavviso di anni quali sono i nuovi indicatori che intenda impiegare. Le classifiche funzionano quando sono omogenee per densità, dimensione ed operazioni, oppure quando sono effettuate per categorie, come quella dell’Agenzia nazionale di valutazione italiana, che ha compiuto confronti per dimensione e per dipartimenti e ha fatto emergere questo dato: il dipartimento di Chimica di Tor Vergata è il primo in Italia.
D. Quali le vostre eccellenze?
R. Chimica, Fisica e Matematica; quest’ultima è tra le prime nel mondo. Medicina è tra le prime in Italia, e mediamente Tor Vergata si può classificare tra le prime 20 università italiane. Come «università giovane» siamo tra le prime 50 nel mondo.
D. Tor Vergata è la seconda università romana?
R. «Seconda» è un termine che non usiamo più, anche perché se c’è una seconda vuol dire che c’è una prima. In termini numerici è esatto, perché la Sapienza è una delle più grandi d’Europa, ha 125 mila iscritti, Tor Vergata 40 mila. A molti siamo noti come Roma Due, ma il due non sta a significare che c’è una prima o una seconda. Seconda come iscritti certamente, perché ha solo 30 anni di storia, è un’università giovane e dinamica, che ha sviluppato molto la ricerca proprio perché ha laboratori moderni. È inoltre l’unica in Italia ad avere l’idea di «campus», il 70 per cento dei nostri studenti provengono dalla regione, il 30 per cento da fuori, e questo non è poco perché in molte altre Università gli studenti provenienti dalla stessa Regione raggiungono quote del 90-95 per cento. Riusciamo prima di tutto ad attrarre studenti fuori regione e questo è per noi importante, oltre ad avere 16 su cento iscritti stranieri.
D. L’idea del campus è ancora nuova in Italia?
R. Non è ancora sviluppata e la difficoltà deriva dal fatto che dobbiamo creare le infrastrutture che servono al campus: non è tollerabile l’assenza di una metropolitana che colleghi un’università di 40 mila studenti, nella quale sono presenti la Banca d’Italia, l’Agenzia Spaziale Italiana, il Consiglio Nazionale delle Ricerche, il Policlinico. Ciò è assurdo.
D. Non potete mettere le navette?
R. Le abbiamo istituite, le paga l’università. Ma ai trasporti deve provvedere il Comune.
D. Quindi questo è un messaggio che invia a Graziano Delrio, ministro delle infrastrutture e dei trasporti.
R. Assolutamente sì. Il campus va sviluppato con trasporti e alloggi. Noi abbiamo già costruito 1.500 alloggi con un accordo pubblico-privato, ospitando sui nostri terreni Campus X, il primo «student-housing» italiano.   

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