*SPECIALE ENERGIA* Willer Bordon: con la sfida energetica sfidiamo i nostri modelli di vita e di sviluppo

Chi scrive di energia oggi non può che riprendere alcuni concetti che sembrano essere diventati coscienza comune: le fonti di energia fossile non sono infinite; il cambiamento climatico è sicuramente indotto dalle emissioni di CO2 e ci prospetta, se non interveniamo in tempo, un futuro catastrofico; occorre sempre più incentivare lo sviluppo delle fonti rinnovabili; la green economy, verso la quale dobbiamo inevitabilmente dirigerci, può non essere solo un obbligo indotto dalla necessità di ridurre le emissioni di CO2, ma anche un nuovo ed importante terreno di ricerca e di business.
Tutti d’accordo, dunque? Sembrerebbe, ma tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, che è costituito dal diverso approccio che le nazioni del mondo hanno nei confronti di questi temi. C’è un acronimo che sintetizza questa difficoltà e che indica l’appuntamento più importante dei prossimi anni: la COP21, che si terrà a Parigi a dicembre.
COP sta per «Conferenza delle parti», il denominatore, invece, indica che questo è il 21esimo appuntamento che si tiene dal Protocollo di Kyoto (1997) ad oggi, per trovare un accordo globale. Questa conferenza dovrà segnare una tappa decisiva nei negoziati per il futuro accordo internazionale che dovrà stabilire gli impegni per il dopo 2020, coerentemente con l’obiettivo prefissato di contenere sotto i 2 gradi il riscaldamento globale da qui alla fine del secolo.
«Se il pianeta continua a riscaldarsi nei prossimi decenni, questo ci porterà alla guerra. Non vedremo solo il disastro, ma ciò porterà alla guerra, e a nuovi disastri». Sembrano le parole di qualche estremista ambientalista o di qualche profeta di sventura in servizio permanente effettivo; sono, invece, le dichiarazioni del presidente francese François Hollande, durante la recente visita nelle Filippine, per mobilitare la comunità internazionale sulle questioni climatiche in vista dell’appuntamento di Parigi.
Per fortuna, dopo questi 18 anni non del tutto incoraggianti, c’è una buona notizia. Le emissioni di CO2 - il più importante dei gas a effetto serra - sono rimaste stabili nel 2014 rispetto all’anno precedente. È un risultato importante che da più parti è stato salutato come l’inizio di quel processo di «decoupling» (disaccoppiamento) che consentirebbe la crescita del Pil senza un automatico aumento delle emissioni. In realtà, la crescita delle emissioni a livello mondiale ha già frenato nei primi anni Ottanta, e poi ancora nel 1992 e nel 2009: tutti periodi di crisi economica. La novità è che nel 2014 il prodotto interno lordo mondiale, stando alle stime del Fmi, è cresciuto del 3,3 per cento, così come è accaduto nel 2013, mentre le emissioni sono rimaste invariate.
Tuttavia, pochi analisti si sono soffermati a riflettere meglio su quali fattori possono avere determinato il risultato e se questi fattori sono destinati a permanere o a restare storia di un anno. Per farlo, bisogna considerare con attenzione l’andamento di alcuni indicatori: il reddito pro-capite e l’efficienza energetica, per citare i più importanti. Che cosa ha causato questa riduzione che, a sua volta, è responsabile del raggiungimento dell’obiettivo di crescita zero delle emissioni nel corso del 2014? Due i principali indiziati: gli Stati Uniti, che nel rapporto tra il 2014 e il 2013 hanno «decarbonizzato» per l’1,8 per cento, ma soprattutto la Cina, che negli stessi anni ha portato il rapporto ad una riduzione del 3,4 per cento - a parità di domanda di energia - nel consumo di carbone. Va ricordato che la Cina consuma la metà del carbone mondiale e gioca, dunque, un ruolo fondamentale nella politica ambientale globale.
L’accordo tra Cina e Stati Uniti del novembre scorso con l’impegno reciproco sulle emissioni - per la Cina, raggiungere il picco nel 2030 e poi, ovviamente, scendere in modo costante, e riduzione del 25-28 per cento al 2025 (rispetto al 2005) per gli Stati Uniti - potrebbe non solo favorire un nuovo accordo globale sul clima a Parigi, ma anche consolidare le favorevoli tendenze degli indicatori qui analizzati. L’accordo dovrà poi attuare un cambiamento di paradigma, guardando la sfida climatica non solo come necessaria «condivisione del fardello» delle emissioni, ma anche come un’opportunità di creazioni di posti di lavoro e di ricchezza, di invenzione di nuovi modi di produzione e di consumo. Occorre, dunque, rendere evidente, oggi più che mai, come la scelta della «green economy» sia la scelta vincente anche dal punto di vista dei numeri economici, e una risposta possibile in termini di salute, qualità della vita, opportunità occupazionali di sviluppo e competitività.
Ma c’è un secondo appuntamento che ci riguarda direttamente, anche perché si svolge a Milano, ed è l’Expo, che, com’è noto, ha per tema «Nutrire il pianeta e l’energia per la vita» e che, ovviamente, non può non prendere in considerazione le gigantesche contraddizioni del nostro mondo su questo tema: se da una parte c’è ancora chi soffre la fame (circa 870 milioni di persone), dall’altra c’è chi muore per il motivo opposto: un’alimentazione scorretta e l’eccesso di cibo (circa 2,8 milioni di decessi per malattie legate all’obesità e al sovrappeso).
Inoltre, a livello globale, circa 1,3 miliardi di tonnellate di cibo vanno a finire nella pattumiera. Una quantità che da sola potrebbe sfamare quattro volte gli 800 milioni di persone malnutrite su scala globale.
In Italia e in Europa lo spreco alimentare si attesta su circa il 30-35 per cento della produzione agricola totale. Nel caso dell’Italia ogni anno si gettano complessivamente 10-20 milioni di tonnellate di cibo. L’impatto, anche di carattere ambientale, di questo macro fenomeno è enorme, solo a considerare la produzione di gas serra attraverso il consumo di fertilizzanti e di emissioni connesse allo scarto, laddove non esistano politiche coerenti di recupero della frazione organica (ancora in varia proporzione gettata in discarica). Ridurre lo «spreco» italiano ed europeo del solo 50 per cento equivarrebbe ad un taglio di 250 milioni di tonnellate di CO2 l’anno. In questo contesto, dunque, lo sviluppo quantitativo delle «rinnovabili» e quello di soluzioni innovative all’approvvigionamento, non riesce ad esaurire l’approccio futuro alla questione del consumo e della concentrazione di energia: si pone ormai apertamente il problema della «sostenibilità» e del «senso» di un modello di produzione palesemente squilibrato ed irrazionale.
Non già per invocare chissà quale dimensione «pauperista», tutt’altro. Non sembra sinceramente sostenibile un sistema di consumi in cui la produzione di un chilo di carne necessita tra i 15 e i 20 mila litri di acqua (mentre un chilo di cereali ne richiede si e no mille). Non è immaginabile limitarsi ad abbassare le emissioni di CO2 in atmosfera solo con interventi tecnologici sui processi e sulle fonti energetiche. Una strada interessante è senza dubbio quella - intrapresa ormai anche in Italia - di puntare sulle diverse forme di «risparmio energetico».
Si pone, dunque, una nuova questione basilare: produrre e consumare come stiamo facendo, con una tale concentrazione di energia per unità di prodotto è, ormai, non più sostenibile. Eppure stentiamo ancora a ragionare concretamente sulle diseconomie evidenti sul piano globale, proprio nel settore primario, della stessa produzione alimentare che intrecciandosi con quelle energetiche, ingigantisce l’inadeguatezza della governance di un pianeta sempre più «stretto» e sull’orlo del collasso.
Come si vede dunque, la sfida energetica è sempre più una sfida che ci interroga sui nostri modelli di vita e su quello che nel tempo abbiamo chiamato «il nostro modello di sviluppo».
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