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Viva l’Inghilterra, soprattutto quando se ne va

L'editoriale di Victor Ciuffa

 

E' facile parlare il giorno, o qualche settimana dopo. Ma dopo aver chiamato per mesi «Brexit» il referendum tenutosi in Gran Bretagna il 23 giugno scorso per decidere se rimanere o uscire dall’Unione Europea, quale mai altro avrebbe potuto esserne il risultato? E infatti i sudditi di Sua Maestà hanno votato a maggioranza (non ampia ma indiscutibile) per l’«Exit» o, com’era scritto sulla scheda elettorale, il «Leave». Forse se fin dall’inizio si fosse usata per par condicio (istituto però di diritto romano e non anglosassone) l’espressione «Brin» o «Bremain», le cose sarebbero andate diversamente.
Dopo dunque aver fatto il tifo, più o meno inconsapevolmente, per una Manica più larga, quasi tutti i media italiani e non si sono scatenati in una reazione che definire allarmistica è un pietoso eufemismo. Ora che si è interrotta (pronta a comunque a riprendere alla prossima «tempesta») la corsa dietro gli andamenti sussultori delle borse internazionali, per le quali alla lunga i conti tornano sempre come per il banco di un qualsiasi casinò, è cominciato il periodo delle riflessioni più ponderate. Dettate, probabilmente, anche dall’umana tendenza ai fare di necessità virtù, ma non solo da questa.
Abbandoniamo dunque al loro destino gli inglesi (e i gallesi), per la maggioranza dei quali la Manica è più larga dell’Atlantico che li separa dalla grande «ex colonia», e ciò che accade o, peggio, proviene da sud di Dover è nel migliore dei casi solo fonte di guadagno e, nel peggiore, di guai. E vediamo che faranno davvero scozzesi e nordirlandesi, ai quali Buckingham Palace è stato sempre sullo stomaco: magari alla fine il Regno Unito si scoprirà disunito.
Questa sarebbe davvero la grande novità storica di tutta la vicenda. Visto che - vale la pena di ricordarlo - la Gran Bretagna era entrata nell’allora Comunità Europa solo nel 1973, cioè 17 anni dopo la firma dei Trattati di Roma che avevano dato vita alla Cee, e che fino al 22 giugno scorso si era ben guardata dal solo immaginare di lasciare l’amata (e oggi svalutata) sterlina per il disprezzato euro.
Torniamo invece alla domanda: sicuri che dalla Brexit l’Italia abbia da rimetterci? Uno studio della Standard & Poor’s ha elaborato un «indice di vulnerabilità» di 20 Paesi europei di fronte all’uscita dalla Gran Bretagna dall’Unione, prendendo in considerazione quattro fattori: export, investimenti diretti, migrazione e finanza. Dalla classifica che ne è venuta fuori l’Italia figura al penultimo posto, seguita soltanto dall’Austria. La Germania è decima, mentre ai primi tre posti si trovano Irlanda, Malta e Lussemburgo.
Qualcun altro, la tedesca Fondazione Bertelsmann, ha stimato l’impatto della Brexit sul prodotto interno lordo italiano fra lo 0,06 per cento e lo 0,23 per cento, corrispondente, nella peggiore delle ipotesi, a circa 4 miliardi di euro. A questi si aggiungerebbero 1,4 miliardi di maggiori contributi per il funzionamento dell’Unione che l’Italia dovrebbe sborsare per sostituire, pro quota, le risorse prima provenienti dalla Gran Bretagna. Non poco, certo, ma sempre assai meno della Germania, che secondo le stesse stime dovrà tirar fuori 2,5 miliardi in più, o la Francia (1,9 miliardi).
Beninteso, Specchio Economico non ha mai nascosto un profondo scetticismo verso i giudizi di certi think tank e agenzie internazionali sostenendo come l’economia (e la politica) reale sia tutt’altra cosa dai numeri da questi dispensati a piene mani da media compiacenti o, bene che vada, acritici.
E che, stavolta più che mai, certi giudizi e previsioni appaiano scritti sull’acqua lo confermava, con involontario umorismo, il Sole 24 Ore due settimane prima del voto britannico: «Nelle decine di studi pubblicati da quando David Cameron lanciò l’idea del referendum, le visioni sono spesso diametralmente contrapposte, ma su due punti le conclusioni coincidono: per assenza di precedenti nessuno può prevedere con esattezza le conseguenze socio-economiche della Brexit, e tutto dipenderà dalla capacità di Londra di rinegoziare in fretta gli accordi commerciali». Come dire: qualsiasi cosa scriviamo non è certa e tutto dipenderà dalla politica. Niente male.
Però una fonte o la si ritiene autorevole, fino a prova contraria, e dunque la si cita sempre, oppure non la si giudica seria, e dunque non se ne tiene conto. Usarla a seconda dei casi e delle tesi (o interessi) che si vogliono sostenere è troppo comodo. Che fare allora? Per dirla con la lingua di Albione, «wait and see»? Anche se così fosse, mentre si aspetta si può - anzi si deve - vedere, sentire e raccontare.
E che cosa hanno visto e sentito gli italiani dal 24 giugno in poi? Hanno visto il presidente del Consiglio Matteo Renzi, uscito malconcio dalle ultime elezioni amministrative, guadagnare il proscenio europeo accanto ad Angela Merkel e François Hollande, dopo essere stato sistematicamente tagliato fuori dal precedente Direttorio, nel quale sedeva David Cameron, con immancabili sottolineature da parte dei suoi avversari politici.
Hanno visto riprendere fiato le richieste italiane di un’Europa meno sottomessa alle politiche di austerity di matrice centro e nordeuropea che la governano da almeno vent’anni; e allentare di un punto di Pil il vincolo di bilancio, rimanendo comunque al di sotto del fatidico 3 per cento nel rapporto deficit-Pil, significherebbe per l’Italia avere a disposizione 16 miliardi di euro in più (il quadruplo delle perdite calcolate sopra). Soldi da utilizzare in politiche espansive delle quali, con l’aria politica che tira, non è detto che Renzi si gioverebbe in prima persona, ma il Paese sì.
Infine un aspetto più particolare, ma non meno significativo. L’Autorità bancaria europea (Eba), che ha sede a Londra e per inciso è presieduta dall’italiano Andrea Enria, dovrà trasferirsi. Ovviamente è partita la corsa alla sostituzione. Le prime a candidarsi sono state Parigi e Francoforte, ma anche Milano si è fatta avanti: tanto il presidente della Regione Lombardia Roberto Maroni quanto il sindaco Beppe Sala l’hanno caldamente sponsorizzata affermando - a ragione - che la vocazione finanziaria di Milano non è inferiore a nessun’altra. E il secondo ha aggiunto, pro domo sua, che Milano ha un ulteriore vantaggio: «Ci si vive bene». Niente paura, dunque, ma avanti con la forza delle idee e la determinazione nel portarle avanti: come Roma insegna da quasi duemila anni, morto un papa se ne fa un altro.

Tags: Luglio Agosto 2016

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