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Etruria Story: tutti hanno ignorato i danni compiuti ad ignari risparmiatori

L'editoriale di Victor Ciuffa

 

Il termine «Etruria» è ricorso frequentemente nelle scorse settimane, animando i dibattiti non solo tra correntisti e dirigenti delle cinque banche (delle Marche, Cassa di Risparmio di Ferrara, Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio, Cassa di Risparmio di Chieti e Banca Popolare di Roma) più direttamente interessate a recuperare, se possibile, i risparmi versati agli istituti il cui anomalo comportamento ha costretto il Governo ad intervenire, sia pure con ritardo di una decina di anni, per sanare gli errori compiuti sia da chi ha acquistato azioni da esse consigliati, sia in generale da tutto il popolo dei risparmiatori, che in passato aveva avuto sempre fiducia e creduto ad esse e soprattutto alla loro correttezza.
Il dibattito e le polemiche sull’argomento non si sono esauriti con la distrazione indotta dalle Festività natalizie e dagli annunci consolatori emanati da autorità di Governo - a cominciare dal presidente del Consiglio - sulla fine della crisi economica, la ripresa in atto, i risultati sicuramente migliori che il 2016 e gli anni seguenti dovrebbero assicurare. Nessuno ha rievocato come e perché è sorto un caso Etruria che avrebbe dovuto chiamarsi, molto tempo prima, casomai Banca Popolare di Roma: un nome altamente allettante data l’esistenza e la multiforme attività della Banca di Roma.
Per costituire una banca popolare occorreva depositare presso la Banca d’Italia una somma pari a 10 miliardi di lire; dopo mesi di contatti, ricerche, colloqui, i quattro principali promotori erano quasi riusciti a far sottoscrivere le quote richieste e ottennero l’autorizzazione. Per essere stato uno dei pochi protagonisti, amanti del risparmio e delle buone abitudini degli italiani di un tempo, mi trovai invece coinvolto in una vicenda allucinante nella quale ho perduto non solo i miei risparmi ma la fiducia di centinaia di persone, attente come me al valore del denaro soprattutto se proveniente dal lavoro e da sacrifici. I quattro promotori della nuova banca popolare sapevano, come tutti i promotori di tali istituti sanno, di andare incontro a una miriade di difficoltà, specialmente nel periodo anteriore all’ottenimento dell’autorizzazione della Banca d’Italia. In Italia varie banche non sono state sciolte secondo le norme di legge, ma si è permesso loro di continuare l’attività ed hanno continuato ad offrire e a far acquistare ad onesti risparmiatori piccole o consistenti quote di azioni.
Questa l’allucinante storia. Un giorno d’estate del 1991 incontrai su una spiaggia di Forte dei Marmi tre persone che ritenevo avessero la mia stessa idea, quella di fondare una «Popolare», gestita dagli stessi sottoscrittori di azioni, per avere più facile accesso al credito. Fui eletto consigliere di amministrazione con l’incarico addirittura di vicepresidente.
Trascorsero mesi di attività frenetica per i promotori che avevano il compito di far sottoscrivere ad eventuali soci un importo complessivo di 10 miliardi di lire, stabilito dalla legge, da versare nelle casse della Banca d’Italia per il rilascio dell’autorizzazione all’esercizio del nuovo Istituto. Dopo l’apertura del primo sportello, la banca visse un anno di successi: il primo bilancio chiuse con un utile netto di 264 milioni di lire, interamente destinati a riserve; l’utile lordo superava i 557 milioni, il capitale sociale ammontava ad 11 miliardi 300 milioni. Il presidente Gian Roberto Nicoli - già amministratore delegato dell’Efimdata del Gruppo Efim - espresse l’intenzione di dare ai romani una banca telematica, moderna.
Un lavoro improbo per le complicazioni e gli interessi di politici e di aspiranti tali, desiderosi di crearsi un seguito tra i soci e cioè tra gli azionisti e quindi tra i consiglieri di amministrazione, aventi il potere ad esempio di concedere mutui, di intervenire nel mercato dei capitali, nell’attività finanziaria e di borsa. Appetiti, aspirazioni, organizzazioni anche parafinanziarie erano molteplici, ma l’amministrazione era difficile: quanti clienti, respinti da altre banche per la loro scorrettezza in campo finanziario, avrebbero potuto fare ricorso alla nuova banca, che non li conosceva, e intrattenere rapporti, ossia ottenere finanziamenti senza avere possibilità o desiderio di rispettare gli obblighi sottoscritti? È un rischio che corrono tutte le banche esordienti, costrette a respingere molte richieste, partecipazioni, sottoscrizioni, depositi.
Ovviamente la dirigenza della nuova banca avrebbe dovuto essere sempre espertissima in materia, attenta, severa, sia verso il proprio personale, sia verso la clientela, offrire prodotti nuovi e professionalità del personale standard. La prima filiale fu aperta nel giugno 1992 nella centralissima Piazza Venezia a Roma; nella città operavano all’epoca 23 banche popolari.
«Vorremmo fare a Roma una banca davvero nuova», precisò il presidente Nicoli. Dell’Etruria si cominciò a sentir parlare quando, dopo aver conosciuto alcuni casi di cattiva gestione, arrivarono gli ispettori inviati dalla Banca d’Italia. Che però decise di intervenire solo quando i bilanci cominciarono ad evidenziare consistenti e ingiustificate perdite. Dopo un’ispezione verificatasi dal primo ottobre all’8 novembre 1996, la Banca centrale scrisse: «Operativa dal settembre 1994, la Banca Popolare di Roma ha manifestato sin dall’avvio dell’attività numerosi elementi di debolezza sotto il profilo sia gestionale sia tecnico-operativo».
Il progressivo aggravarsi della situazione indusse la Banca d’Italia a svolgere - nel corso di incontri con i responsabili di codesta azienda e attraverso lettere di intervento - un’azione pressante affinché fosse realizzato un piano di risanamento con il sostegno di un organismo bancario affidabile. Peraltro, i contatti avviati in successione da codesta Banca con due diverse controparti non produssero alcun risultato concreto. L’ispezione di vigilanza condotta dal primo ottobre all’8 novembre 1996, conclusasi con un giudizio complessivo sfavorevole, confermò lo stato di degrado in cui versava codesta Popolare, la cui gestione apparve censurabile sotto tutti i profili, ivi inclusi quelli attinenti all’iter costitutivo.
Il Consiglio, interessato da continue contrapposizioni e da una forte litigiosità interna che aveva dato luogo a numerose dimissioni, aveva disatteso invece temi di vitale importanza quali sviluppo e organizzazione aziendale. La conclusione fu la proposta della Banca d’Italia di obbligare una delle migliori banche di media dimensione, cioè la Popolare dell’Etruria e dell’Alto Lazio, a salvare la Popolare di Roma rilevandone le quote ad un concambio certamente sfavorevole ai proprietari. Via via l’Etruria divenne proprietaria, o comunque uno dei maggiori azionisti, ripetendo tanti errori precedenti, ad esempio reinserendo nel Cda i principali autori dell’errata politica seguita e della gestione compiuta.
Allora, per un vicepresidente come me operante solo nell’interesse di tutti i soci, non restava alcun compito da perseguire in quella banca e in quella carica che non consentiva appunto la difesa dei soci. Incarico a cui decisi di rinunciare.
Ad oltre 10 anni da quella situazione e per un caso di rivalità politica tra gruppi di soci, il Governo Renzi ha deciso di intervenire istituendo un fondo, finanziato dalle banche, di 100 milioni di euro aumentabili a 130 milioni. Restano esclusi dal calcolo dei rimborsi almeno 250 milioni di euro in titoli posseduti da 13 mila investitori. Il Governo ha ideato un meccanismo per far accedere al fondo di solidarietà gli obbligazionisti subordinati delle 4 banche: un arbitrato che stabilisca se c’è stata vendita corretta oppure no. Ebbene, da anni esisteva un analogo Istituto preposto ad intervenire proprio in casi del genere e che prevedeva l’accesso in seguito a un arbitrato. Nell’ottobre del 2007, in osservanza a quanto disposto dalla legge sul risparmio del 2005, precisamente dall’articolo 27, commi 1 e 2, della legge 28/12/2005, n. 262, era stato previsto che presso la Consob fosse istituito un particolare Fondo di Garanzia. Esso poteva essere chiamato ad indennizzare un risparmiatore non risarcito che avesse vinto una causa o un arbitrato riguardo i servizi di investimento nei confronti di un intermediario. Il Fondo era stato poi istituito dal decreto legislativo n. 179 dell’8 ottobre 2007 (lo stesso che ha istituito la Camera arbitrale presso la Consob), ed era destinato a indennizzare i danni patrimoniali causati dalla violazione, accertata con sentenza passata in giudicato o lodo arbitrale non più impugnabile, delle norme di cui alla parte II del decreto 58 del 24 febbraio 1998.
Si trattava esattamente della stessa procedura che il Governo intende attuare per le obbligazioni subordinate dei quattro istituti finiti in dissesto. Perché parliamo al passato di questo Fondo di Garanzia? La legge di Stabilità 2016 appena approvata ne ha previsto la cancellazione, dirottandone la disponibilità finanziaria verso un nuovo fondo per la tutela stragiudiziale di risparmiatori e investitori che consentirà l’accesso al nascente Organismo arbitrale Consob in forma gratuita (contro i 100 euro inizialmente previsti); per poi riattivare il Fondo di Garanzia presso la Consob a favore degli obbligazionisti delle quattro banche fallite che ne abbiano diritto, dopo che un arbitrato l’abbia accertato.
Non finisce qui. La decisione consentirebbe l’indennizzo dei danneggiati falliti e non in grado di risarcire i clienti. Il pubblico interessato è quindi vastissimo. Il Fondo di Garanzia presso la Consob non era mai stato avviato per scarsa dotazione finanziaria: veniva infatti alimentato dalla metà degli importi delle sanzioni annualmente comminate agli intermediari per le violazioni relative alla prestazione dei servizi di investimento alla clientela, meno di un milione l’anno.
Quanto avrebbero risparmiato clienti e banche se la vigilanza della Banca d’Italia avesse funzionato bene sin dall’epoca? Così invece i bond dell’Etruria sono finiti nei conti dei piccoli clienti mentre già nel 2012 la banca presentava la prima grave perdita per oltre 200 milioni. Poi l’accelerazione nefasta con crediti malati saliti a 3 miliardi pari al 42 per cento del portafoglio impieghi e svalutazioni sui prestiti deteriorati che si cumulano per quasi un miliardo. In mezzo, le ispezioni ripetute di Banca d’Italia che hanno sollevato il velo sulla gestione disinvolta della banca, sui fidi milionari concessi ad amministratori e sindaci con perdite per la banca stessa.
Nella confusione di fine anno nessuno ha badato ad una soluzione semplice e già esistente: il Fondo di Garanzia presso la Consob che l’Aduc propone di riattivare assieme all’affidamento degli incarichi ad arbitri competenti in diritto finanziario. Negli ultimi giorni, la questione dell’indennizzo agli obbligazionisti portatori di titoli subordinati delle quattro banche si è molto ingarbugliata e sembra ad alcuni che stia prendendo una piega ancora peggiore per tutti i soggetti implicati. Il previsto fondo di solidarietà, che pareva poter indennizzare la gran parte dei danneggiati sebbene con una quota non elevata, sarà invece orientato a garantire un indennizzo elevato solo a chi versa in stato di bisogno, facendo rimanere all’asciutto tutti gli altri. I bond subordinati in mano al pubblico «al dettaglio» ammontano a 350-400 milioni, mentre la dotazione del fondo, finanziato dalle banche, è di 100 milioni e pare sarà aumentata a 130 milioni.
Ma è possibile risolvere la mancanza di adeguata dotazione economica riattivando il Fondo di Garanzia presso la Consob e dotarlo di somme anch’esse in origine destinate al risarcimento di crack finanziari?
Stiamo parlando del fondo previsto dall’articolo 1, comma 343, della legge finanziaria 2006, ossia la legge 23/12/2005, n. 266, per indennizzare i risparmiatori che, investendo sul mercato finanziario, erano rimasti vittime di frodi. Il fondo avrebbe dovuto indennizzare i tanti incappati nei crack quali Argentina, Parmalat, usando i rapporti (conti correnti, libretti, dossier titoli, polizze,) giacenti presso gli intermediari e non più reclamati dagli aventi diritto, vale a dire i rapporti dormienti. Quel fondo non ha mai visto la luce - la prevista Commissione fu costituita ma si sciolse per l’impossibilità di adempiere al mandato - perché l’ammontare dei rapporti dormienti ad esso devoluti fu di circa due miliardi, briciole rispetto alle perdite da risarcire.
Anche per questo motivo, nel tempo la sua disponibilità è stata utilizzata per altri scopi quali il finanziamento della social card, della stabilizzazione dei precari della Pubblica Amministrazione, del fondo esuberi Alitalia e della ricerca scientifica, al punto tale che a febbraio 2010 il residuo disponibile era di 600 milioni. Il 30 luglio 2014, in risposta ad un’interrogazione in Commissione Finanze della Camera di iniziativa Aduc e presentata dai deputati Sara Moretto e Marco Causi, il Ministero dell’Economia aveva affermato che alla voce dedicata nel proprio bilancio non era iscritta alcuna somma e che occorreva attendere la prescrizione del termine per gli aventi diritto a recuperare i rapporti dormienti per registrare un importo che sia affidabile. Una risposta alquanto elusiva.
Quanto occorre per indennizzare tutti gli aventi diritto? Possiamo ragionevolmente stimare che il tetto di intervento del Fondo venga dalla Consob fissato ad almeno 50 mila euro. È probabile che l’attuale residuo del Fondo Rapporto Dormienti non sia sufficiente a coprire gli oneri dell’intervento del ripristinato Fondo di Garanzia presso la Consob, ma l’eventuale eccedenza può essere reperita senza eccessive complicazioni. A proposito della procedura di arbitrato, la scelta del Governo di affidarla alla Camera Arbitrale presso l’Anac secondo alcuni appare poco oculata: i componenti non sono esperti in diritto finanziario.

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