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Merenderi milanesi: non sempre le ciambelle riescono col buco

L'editoriale di Victor Ciuffa

Mostra di Milano 2015, un’Expo che, alla fin fine, pubblicizza il cibo. In Italia. Che intende, in Italia, stimolare l’appetito. Che promuove, in Italia, sushi e feijoadas accanto a nostrani cannelloni. Per la prima volta e in modo clamoroso, esibisce il cibo (a fronte di un pedaggio), e ci fa vergognare come italiani (romani, napoletani, siciliani, milanesi) facendoci passare per milioni di provinciali, come già il mondo ci considera da tempo.

Ebbene, ne diamo conferma a Milano, anche convinti e contenti di essere nel mondo ritenuti tali. Non solo nel cibo. Ciò anche a leggere i nostri maggiori giornali, sempre inneggianti paesanisticamente al fatto che, ad esempio, l’alta moda italiana è sicuramente più «alta» di quella francese la quale, invece, ebbe il merito di risorgere e risplendere appena dopo la seconda guerra mondiale.

Questa impasse avviene anche quando stiamo solo parlando di noi e tra noi, e ci vantiamo e ripetiamo, senza più meritarlo, di essere detti e conosciuti nel mondo come «Il Bel Paese» grazie a Dante Alighieri e alla sua «Divina Commedia». Più che «Bel Paese» all’Italia di oggi sarebbe più adatta un’altra definizione, lo «Smemo Paese», se è vero che non sappiamo più chi e perché siamo ritenuti così bravi, e che dimentichiamo i veri meriti nascosti ma non quelli costituiti da premi, titoli sportivi, coppe varie, campionati mondiali o internazionali. I quali suscitano l’attenzione e la passione delle masse intese come masse odierne. Inutile dire di quali masse si parla.

Quante sono le attività culturali, industriali, artigianali nelle quali gli italiani eccellono? Molti ricordano subito quali supremi esempi le Olimpiadi di Roma nel 1960 con i loro campioni Livio Berruti, l’eritreo Abebe Bikila, Tiberio Mitri, i titoli dei Premi internazionali, perfino il Festival della canzone di Sanremo. E tante altre iniziative che sono nate oggi appositamente, per la Mostra di Milano. Ad esempio la pubblicazione «A tavola» sul tema oggetto della mostra di Milano sul cibo, ideata e organizzata da un vivace e intraprendente drappello di politici di livello regionale e nazionale.

Paesani non solo nell’alta moda, settore in cui almeno due volte l’anno in gennaio e in luglio a Roma, in qualche altro mese a Milano e in numerose manifestazioni, si inneggia sempre e ancora al primato nazionale o internazionale ottenuto da altri settori ideativi, creativi, produttivi. Nel mondo economico-produttivo occorre dare sempre una dimostrazione del possesso di certa vitalità, soprattutto nei tempi di una crisi economica prolungata come l’attuale: come nell’alta moda anche il pret-à-porter, i profumi, l’abbigliamento, l’automobilismo, la gioielleria, l’oreficeria ecc., tutti i settori necessitano di un’idea-spalla. Questo per gli italiani non era difficile, soprattutto per i meridionali emigrati subito dopo la guerra nel Nord, a Milano. In Italia perfino l’ultimo Papa impara a salvare dalla crisi il Vaticano. Ma specialmente a Milano c’è bisogno del lancio.

Ecco in quattro e quattro otto sorgere una mostra, non difficile anche perché le categorie sono interessate a un supplemento produttivo alimentare, che comporta anche servizi e lavoro sia pure di basso livello, ma incentivato da qualcuno:oggi si è indiscriminatamente incentivati a spendere e far spendere soldi, purché avvenga la spesa. Lo dimostra, appunto, anche la scelta di realizzare questa mostra milanese sul cibo, il tema più facile da tentare. Soprattutto e specialmente per l’estrema facilità e possibilità di cadere in quel solito difetto nostrano: l’autoesaltazione delle eccellenze italiane, se di eccellenze si tratta sempre. Di eccellere ce ne convinciamo e continuiamo a ripeterlo al punto da renderlo credibile. In effetti non è tanto male compiere il miracolo di indurre tutti gli italiani a pensare di essere ancora i migliori artigiani del mondo.

La stampa e i mezzi di comunicazione di ogni tipo si sono letteralmente scatenati nella campagna di sostegno della Mostra alimentare di Milano pubblicizzando in ogni modo l’iniziativa e invogliando le masse ad intervenire, quanto meno a visitare l’Expo a Milano e a fare qualche appetitoso spuntino. Produttori, organizzatori, commercianti, industriali, somministratori, piccoli e medi operatori, grandi merenderi nostrani:che volevano fare? Sviluppare il «business del food». Sforzo superfluo ed inutile, perché non si è mai dovuto assistere in Italia e nel mondo a sforzi per incrementare l’appetito.

Siamo già i primi nel mondo, e non solo nei consumi dei cibi, ma tra chi li produce, chi li importa o li esporta, chi li trasforma, chi li distribuisce e chi li somministra: e così le persone interessate a partecipare ad una gigantesca iniziativa sul cibo non potevano non riportare un successo clamoroso. Hanno pensato di farci credere nei vini, nell’eleganza, nella moda. Di essere i primi in tutto, in tutti i campi, come ad esempio nell’automobilismo: pensare, disegnare, ideare, far correre le auto sportive. Non abbiamo infatti solo la Ferrari ma la Maserati, l’Alfa Romeo, le tantissime Fiat.

Le iniziative sono state tante, ma non ha avuto un vero successo questa rinvigorita efficienza ed efficacia dei supermercati, comunque a danno dei prodotti genuini dell’antico orto, offrendo prodotti per masse incolte dalla bocca buona, disposte ad acquistare tutto quello che si offre da mangiare, come in certi allevamenti. Quale allora il progresso compiuto con l’Expo di Milano grazie alle disponibilità trovate e al potere finanziario ed organizzativo mosso? Non risolvendo i problemi dei più affamati, resta una vetrina come quella dell’alta moda, della quale solo certuni possono acquistare l’abito.

Tags: Luglio Agosto 2015 cibo Milano food Victor Ciuffa moda

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