Che c’entra Sophia Loren con la ripresa economica?
L'editoriale di Victor Ciuffa
L'ottantesimo compleanno di Sophia Loren, celebrato lo scorso mese a Roma con una ricca e affascinante mostra di fotografie eseguitele sin dai primi anni della sua carriera artistico-cinematografica dal fotografo romano Carlo Riccardi, ha costituito una preziosa e rara occasione per presentare, ai visitatori, uno squarcio improvviso e imprevisto di luce sulla realtà di un’Italia del dopoguerra. E quindi anche la possibilità di constatare, quasi «de visu», l’infinita sua distanza che la separa dall’Italia di oggi. Ossia la differenza tra una popolazione decimata, di un Paese distrutto materialmente e idealmente da una guerra durata dove 4 e dove 5 anni, vinta da una coalizione militare costituita da Paesi di oltre mezzo mondo guidata da un colosso come gli Stati Uniti, rappresentante la maggiore potenza economica del pianeta; e una popolazione, quella italiana odierna, ridotta in soli 3 o 4 anni di crisi economica in uno straccio di quello che si riteneva e forse continua a ritenere tuttora di essere, ovvero una delle maggiori 5 potenze economiche ed industriali del mondo. Forse occorreva proprio una crisi dalle proporzioni di quella attuali, ossia globalizzata, estesa a tutto il mondo, per ridurre la presunzione, la supponenza, l’alterigia, l’autoreferenzialità di certi italiani, da se stessi ritenuti tra i migliori popoli del mondo, tra i più intelligenti, creativi, operosi, brillanti. Pensiamo a tante dichiarazioni sullo stile, sul gusto, sull’inventiva, in una parola sulla superiorità italica. Pensiamo alle autoadulazioni del piccolo mondo nostrano della moda, del cinema, della gastronomia. Ci rendiamo subito conto, allora, di due realtà: della falsità di tali affermazioni e del raggiro che compiamo a danno di noi stessi e in certa misura anche del resto del mondo. Questo non è autolesionismo, non è disfattismo né masochismo: è la realtà. Una realtà e una verità che emergono ora grazie appunto alla crisi globale e italiana in particolare, che ci ha costretto a scoprire gli altarini: non solo della moda e del cinema, ma soprattutto dei politici italiani i quali, non avendo vissuto o avendo dimenticato a poco a poco la lezione della guerra, degli immani sacrifici, delle sofferenze, delle fatiche del dopoguerra, continuano a credere alla favola di un Paese tra i primi nel mondo per creatività ma anche per laboriosità. Tanti singoli cittadini, famiglie e intere categorie continuano a credere e a comportarsi come se esistessero ancora i frutti di quella bellissima ma durissima stagione, durata un ventennio, della ricostruzione dell’Italia distrutta, e poi della costruzione di una nuova Italia fatta di autostrade, aeroporti, porti, scuole, ospedali, fabbriche, elettrodomestici, due auto e due case per famiglia, pranzi al ristorante, feste, ponti, ferie diffuse, settimane corte, settimane bianche, weekend e poi villaggi-vacanze di massa, villeggiature esotiche, insomma benessere non solo diffuso ma tale ritenuto. A tutto ciò bisogna aggiungere le conseguenze del 18 politico nelle Università, della pensione e della laurea a tutti, addirittura dello stipendio garantito a tutti i disoccupati e chi più ne inventa più ne metta. Un giorno un assessore della Regione Lazio si vantò con me di aver inventato i «lavori socialmente utili», ossia il reimpiego presso enti pubblici di lavoratori posti in cassa integrazione da aziende private in crisi. «Lavori socialmente utili», una frase magica, oltreché una trovata libera-tutti. Quando ebbi la malaugurata idea di accettare la candidatura e l’elezione a sindaco del mio paese natale, a confine con Roma, appena eletto visitai le scuole, nel cui giardino trovai un baldo quarantenne seduto su un muretto, manifestamente sfaccendato. Gli chiesi il motivo della sua presenza. «Sono un cassintegrato, il Comune mi ha assunto per fare lavori socialmente utili». «E quali sarebbero?», chiesi. «Aspetto che cadano le pigne dai pini del giardino e le raccolgo», la risposta. Capii perché i cassintegrati non accettavano posti fissi in altre aziende: tra cassa integrazione e indennità del Comune guadagnavano di più e avevano tutto il tempo per fare altri lavori in nero. Sarà anche colpa dei nostri politici che ci hanno consegnato con mani e piedi legati ad una pseudo Unione Europea, ma forse il loro scopo era proprio quello di venderci come schiavi sul mercato europeo. Ma come è possibile che un popolo comunque «di eroi, santi, poeti e navigatori», come lo definiva «il Puzzone», detto però anche «Buonanima», non riesca a risollevarsi, a superare la crisi in sei o otto mesi, come faceva ai tempi delle pur ricorrenti svalutazioni della liretta, tanto disprezzata da questi pseudo politici e pseudo economisti? Cosa ci impedisce allora la ripresa, anzi una ripresina economica, un superamento graduale ma sensibile delle difficoltà, il ritorno o il mantenimento del livello di benessere raggiunto in una trentina o quarantina di anni da un popolo di intelligenti, volenterosi e laboriosi straccioni, affamati, analfabeti, semianalfabeti, contadini, servi della gleba cioè degli aristocratici del tempo, emigranti, lavapiatti, lustrascarpe di cinquant’anni fa? Ci sarà pure qualcosa che blocca, ferma, ostacola gli italiani, lavoratori, imprenditori, famiglie, istituzioni. Il primo ostacolo sono proprio le istituzioni, è il «popolo delle istituzioni» che non intende fare un passo indietro, semmai uno in avanti, ossia escogitare tasse e leggi che aggravano ancor più la loro presenza, i loro raggiri e meccanismi, i loro privilegi e illegalità. Sono rarissimi i politici che in questo campo interpretano i veri bisogni e aspirazioni di chi li ha eletti. Un altro ostacolo grandissimo, un macigno che ostruisce qualsiasi possibilità di giudizio umano, di riflessione e soprattutto di onestà, solidarietà e altruismo, sono gli strumenti di informazione, asserviti ad interessi e ad imprenditori ignoranti, ottusi, incolti ed egoisti. Ma è soprattutto la televisione, le televisioni pubbliche e private in mano a gente legata ai partiti e quindi a servizio dei suoi padroni e padrini, interessata non certo alla massima diffusione della conoscenza e della cultura, ma al rimbecillimento delle masse con la manifesta e massiccia strumentalizzazione delle notizie, e con trasmissioni politiche animate da dibattiti da lavanderia e pollaio, chiamate talk show, create e condotte sul modello di acerebrali ma verbosi beauty center di parrucchieri femminili suburbani.
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