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il trattato TTIP, un ponte verso la ripresa

di ENRICO SANTORO  professore, avvocato

Se dopo un terremoto la macchina dei soccorsi non si ferma e funziona bene, pur dopo giorni sotto le macerie c’è chi riesce a salvarsi. Il nostro Paese, per esempio, pur sommerso di detriti e apparentemente privo di capacità di reazione, è inserito in una rete economica internazionale tale da garantirgli ancora flebili speranze di sopravvivere. La rete di aiuti internazionali può riuscire laddove noi, scavando con le mani, non riusciamo a fare di più.
I problemi da risolvere sono ancora tutti là. Governabilità compresa. Ma per fortuna la loro gravità si stempera grazie ai segni di ripresa registrati sulle due sponde atlantiche: la nostra penisola - economicamente incardinata nello scenario produttivo europeo, intenzionato in prospettiva a dialogare sempre più con il mondo statunitense -, può dare ai «soccorritori» presenti sui mercati motivi validi per non abbandonare i tentativi utili ad effettuare il salvataggio. È vero infatti che i mercati sobbalzano ad ogni rischio di instabilità nei Paesi verso cui hanno deciso di orientare i loro investimenti. Qualche scossone in Piazza Affari è stato registrato in seguito alla «querelle» riguardante le sorti di Silvio Berlusconi. Ma è anche vero che, se si escludono le scelte finanziarie puramente speculative, le prospettive e i segnali di ripresa italiani oggi, insieme a quelli europei, hanno iniziato a riaprirsi, almeno se confrontati con quelli di altre economie.
Per individuare bene questi segnali bisogna volare alto. Il Fondo Monetario Internazionale ha recentemente ribassato le previsioni di crescita mondiale: calano le stime relative ai Paesi emergenti e in particolare alla Cina. A sostenere l’economia potrebbe in parte subentrare il Giappone, ipotizza il settimanale del servizio studi BNL, ma non si esclude un ritorno al passato, ossia alla spinta del vecchio motore americano, alimentato dai consumi della classe media e dal mercato immobiliare in ripresa.
La vera «notizia» per noi è, però, che qualche settimana fa sono cominciati i lavori che dovrebbero portare alla firma del Transatlantic Trade and Investment Partnership, un trattato che punta ad abbattere le barriere, soprattutto tariffarie, che complicano gli scambi commerciali tra le opposte rive oceaniche. Qualcuno l’ha suggestivamente definito una Nato economica perché richiama l’idea di un’alleanza tra economie democratiche.
 Per il nostro terremotato Paese si tratterebbe di un argano capace di sollevare la pietra crollata sul nostro futuro: le attuali tariffe rappresentano il 3,5 per cento degli scambi transatlantici e, secondo stime statunitensi, farebbero crescere annualmente il prodotto interno europeo di 120 miliardi di euro e quello americano di 125 miliardi di dollari. Il negoziato è in fase di lancio e ci farebbe comodo, anche se la sua valenza, anche politica, potrebbe determinare una forte opposizione ad Est. La Cina è tornata a rivalutare gli accordi della WTO, l’Organizzazione Mondiale del Commercio, sottoscritti dopo la seconda Guerra Mondiale: sostituire il multilateralismo attuale con siffatta partnership euramericana può preoccupare le economie di Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, che ultimamente hanno accusato imprevisti ritardi. La formula di nuovo conio del nuovo trattato TTIP, anche per l’inconsistenza del disegno di Cindia, ossia Cina e India, alimenta le potenzialità di uno scontro economico.
A prescindere dal rischio di quest’ultimo e dei contraccolpi politici che potrebbe determinare, per l’Italia e per l’Europa nel suo insieme, non ci sono altre scelte: va agganciato subito il TTIP, che in qualche modo rappresenta il nostro «ultimo treno per Yuma». Il che per noi comporta un severo cambio di ritmo di ripresa, visto che gli ultimi dati dicono che l’Eurozona, seppure senza esagerare, è pronta a un dialogo alla pari con gli Usa.
In dettaglio, è vero che nell’indagine condotta dalla Zew i 250 analisti intervistati dicono che la fiducia degli investitori nell’Europa sta ritornando e che l’ottimismo è salito da 36 a 42 punti in agosto; e che riguarda anche l’Italia che balza da 13,1 a 24,6 punti in agosto. Il quadro si aggiunge a timidi ma crescenti segnali di crescita della produzione industriale, sia nell’Eurozona che in Grecia, Spagna e Italia (ma non bisogna esagerare: la nostra realtà la vediamo tutti i giorni). L’economia europea, ha certificato l’Eurostat, dopo oltre un anno e mezzo ha rivisto nel monitoraggio della crescita il segno più. Solo 0,3 per cento contro 1,4 per cento degli Usa ma, se per la media dei 17 Paesi europei ciò significa uno spiraglio di luce in fondo al tunnel - più vivida per il Portogallo, più tenue per Francia e Germania, ancora «notturna» per Spagna e Italia -, soprattutto noi, che siamo in segno negativo da due anni, non possiamo cantare certo vittoria.
L’Ocse ha recentemente certificato che con un prodotto interno a meno 1,8 per cento il nostro Paese è l’unico tra i 7 Grandi a non essere uscito dalla recessione e a non aver saputo sfruttare i venti di ripresa dai quali altri Paesi europei hanno saputo farsi sospingere verso un rilancio dei loro sistemi. Ci sono segnali contrastanti che meritano di essere valutati con attenzione ma con la consapevolezza che non c’è più tempo da perdere. Anche le banche americane credono nella ripresa europea. Nomura, Citybank e Bank of America hanno assunto nuovi trader; un sondaggio della Merril Lynch sostiene che l’88 per cento dei gestori di fondi europei ritiene che l’economia della zona euro si rafforzerà nel prossimo anno. E secondo i dati dell’EPFR Global, società statunitense che tiene d’occhio l’andamento dell’industria dei fondi d’investimento, ad agosto il saldo positivo di investimenti era di 2 mila miliardi di dollari.
C’è da sperare in un contagio transatlantico della ripresa? Sì, anche perché l’alternativa è la disperazione. Una ripresa economica potrebbe essere utile a superare le mille divisioni sorte con la crisi, acuite dalla farraginosità della costruzione europea. Molti oggi pensano che il destino dell’economia europea, e italiana, dipenderà dall’esito delle elezioni tedesche. Ma in Germania avanzano i partiti che vorrebbero tornare al marco.
Gli economisti che sostengono «Alternativa per la Germania» trovano il 2,5 per cento dei consensi nei sondaggi ma potrebbero essere una sorpresa ad urne chiuse. E se riuscissero ad entrare nel Bundestag superando il 5 per cento potrebbero mettere in crisi l’intera costruzione europea chiedendo il giudizio di costituzionalità della Corte federale su ogni provvedimento approvato in sede europea, ponendo il classico sassolino nell’ingranaggio. Un simile scenario equivarrebbe al collasso degli aiuti internazionali ai terremotati, tra cui l’Italia.
In estate si sono registrate punte di ottimismo fuori luogo: l’abbassamento dello spread con la Germania, ai minimi da due anni sotto il sole ferragostano, era connesso, secondo il capo di uno dei maggiori fondi di investimento internazionali specializzato in titoli di Stato, con l’accelerazione dell’economia tedesca e il calo di quella cinese che hanno spinto al rialzo i tassi sui bund.
Quel calo arrecherà beneficio al costo degli interessi che il nostro Paese sarà chiamato ad onorare, ma poiché il debito pubblico complessivo cresce a dismisura malgrado le scelte di spending review evidentemente assai poco incisive, c’è poco da stare allegri. Il livello della spesa pubblica in Italia negli ultimi due anni ha subito un’impennata disdicevole e ciò in mancanza di una seria determinazione alla sua riduzione. Rischiano perciò di essere patetici quei politici che enfatizzano l’arrivo della ripresa. Non è solo il portafoglio delle famiglie a smentirli, o l’evidenza dei problemi occupazionali di giovani e meno giovani, ma anche fior fiore di ricerche. Quella della società di analisi britannica Oxford Economics sulla convergenza di 17 Paesi dell’Unione Europea mostra che dopo 20 anni anziché avvicinarsi si sono allontanati.
L’esperienza dell’Unione, che inizialmente aveva condotto ad un avvicinamento dei tassi occupazionali e di crescita pro capite, appare in seria crisi. La convergenza sviluppatasi tra il 1991 e il 2005 è tornata ai livelli di inizio millennio e secondo le previsioni continuerà a calare fino al 2014, con l’Italia tra i Paesi meno virtuosi Grecia, Spagna, Irlanda e Portogallo, sempre più distanti dai primi della classe Austria, Germania e Finlandia.
 Un’elaborazione dei dati Ocse e FMI, divulgata dal Corriere della Sera a cura di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, mostra che la pagella dell’Italia è insufficiente quanto a qualità delle istituzioni, infrastrutture, valorizzazione del capitale umano, mercato del lavoro e dei servizi professionali, e carente anche più della Spagna, purtroppo, quanto ad opportunità, liberalizzazioni nel commercio, regolazione di reti e innovazione, elementi indicanti che, per agganciare il treno, il nostro sistema economico deve effettuare un scatto d’orgoglio enorme rimboccandosi subito le maniche, mantenendo una ferrea dieta basata su ricette che variano il menù di guerra ma rendono raggiungibile un obiettivo ineludibile: tonificare l’organismo del Paese.
Una ricetta assai appetibile è quella indicata da Vittorio Grilli: tagliare sia la spesa pubblica che le tasse. Non facile ma possibile se si lavora sull’evasione fiscale, l’inefficienza dei servizi pubblici, le duplicazioni di amministrazioni e programmi di spesa effettuando economie di scala europee su alcuni capitoli come ricerca, difesa, infrastrutture, energia e ambiente. Occorre più managerialità.
Ma è possibile, c’è da chiedersi, che debba essere il commissario alle Politiche regionali europee ad ammonire l’Italia a non spendere i fondi UE per feste e infrastrutture locali? Avremo a disposizione 325 miliardi di euro fino al 2020 ma il nostro Paese ha ancora da assorbire 16 miliardi messi in budget da Bruxelles per l’esercizio 2007-2013. Rischiamo di perdere 5 miliardi di aiuti comunitari per incapacità di usarli: spendiamo il 40 per cento dei fondi UE rispetto a una media del 51,8 per cento degli altri 16 membri. Siamo uno Stato poco efficiente che non restituisce i debiti alle imprese: dei 20 miliardi messi a disposizione dal Governo, ne sono stati versati solo 5.
Lo conferma il declassamento della Lombardia nella classifica elaborata a Bruxelles sulla competitività dei territori dell’Eurozona: la nostra Regione pilota è uscita dalle prime 100 ed è scesa al posto 128, Emilia e Lazio si trovano rispettivamente al 141 e 143. I parametri con cui si stila questa classifica sono qualità delle istituzioni e della vita sociale, stabilità macroeconomica, livello delle infrastrutture, scuola, salute, efficienza del mercato del lavoro, tasso di innovazione, avanzamento tecnologico. Quanto sia da sperare nel successo dell’Expo del 2015 lo vedremo. Ma, anziché rimboccarsi le maniche dopo le bocciature, si preferisce giocare a «colpa mia colpa tua».
Per un operazione di soccorso che vada a buon fine c’è bisogno della collaborazione di tutti gli attori in campo. L’Italia deve rimettersi in sesto ma l’Europa deve recuperare flessibilità e ammorbidire l’austerità. Il rispetto rigoroso dei parametri di Maastricht e il fiscal compact possono trasformarsi nel classico strappo che finisce per uccidere chi sta sotto le macerie. A meno che questa severità non sia provocatoria. Il direttore del «Mulino» Michele Salvati ipotizza che a monte di questa durezza di alcuni protagonisti dell’Eurozona ci sia una miscela tra moralismo, senso di rivalsa contro le economie meno virtuose, intenzione di liberarsi dei Paesi più deboli attraverso una frantumazione dell’euro. E fotografando la condizione di asfissia delle economie di Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna, spinge affinché, visti i segnali di buona volontà, i Paesi forti concedano più tempo ai Paesi con il fiatone.
A lui risponde Paolo Savona sottolineando che sin dall’epoca dell’ingresso nell’euro - come avevano rammentato Guido Carli, Paolo Baffi e Azeglio Ciampi -, l’Italia avrebbe dovuto cambiare spartito di politica economica; e ricordando, ispirato da un’osservazione di Baffi, che fatto salvo l’impegno interno delle regioni che credono nella costruzione europea, occorre da parte di tutti la volontà di coesione monetaria ed economica.
Il problema più grande però è ora rappresentato dalla crisi in Medio Oriente. È alta la divaricazione tra le economie occidentali e dei Paesi musulmani. Il Capitalislam - sostiene Timur Kuran, studioso turco-americano che l’ha analizzato - è finora rimasto una battuta giornalistica. Le nuove crisi in Egitto e Siria sono l’effetto di tale divergenza. Una partnership euroamericana sul piano economico potrebbe esasperarla.
Per far scoppiare la pace, come dice il Papa, occorre creare un ponte; utile sarebbe un crescente coinvolgimento della finanza islamica nel rilancio economico occidentale. Consentirebbe di non creare nuove esclusioni e di mostrare comprensione verso le più recenti posizioni della Turchia e le delusioni di parte dell’Egitto. Ma soprattutto eviterebbe che l’uscita dalla crisi finanziaria del 2007 avvenisse in modo cruento.  

Tags: Novembre 2013 commercio Enrico Santoro

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