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il difficile equilibrio tra lotta al terrorismo e tutela di diritti umani

di ANTONIO MARINI

Ripropone il delicato problema del difficile ma necessario contemperamento tra la tutela dei diritti fondamentali e la garanzia della sicurezza nazionale e internazionale la recente sentenza con la quale il 12 settembre 2012 la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato la Svizzera per violazione degli articoli 8 e 13 della Convenzione dei diritti dell’uomo. La condanna riguarda l’adozione di provvedimenti interni, attuativi delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che sanciscono sanzioni nei confronti di soggetti sospettati di terrorismo internazionale.
Prima di esaminare la sentenza, è bene ricordare che il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha istituito un regime di sanzioni personali, che gli Stati sono tenuti ad adottare, contro persone o entità associate ad Al Qaeda, e ha creato un apposito Comitato delle sanzioni incaricato di controllarne l’applicazione. Tali misure consistono, in particolare, nel congelamento dei beni, nel divieto di ingresso o soggiorno nel territorio dello Stato e nell’embargo di armi. L’iscrizione o la radiazione del nominativo di presunti terroristi o favoreggiatori e la conseguente applicazione di tali sanzioni hanno sempre sollevato difficili questioni sotto il profilo della tutela dei diritti fondamentali.
Una di queste questioni era stata già affrontata dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea nel caso Kadi, con la sentenza del 3 settembre 2008 nella quale i giudici di Lussemburgo si sono ritenuti competenti a sindacare la liceità di un regolamento comunitario con il quale veniva disposto il congelamento di beni personali in attuazione della risoluzione del Consiglio di sicurezza 1390 del 2002, emanata a modifica e integrazione delle precedenti risoluzioni 1267 del 1999 e 1333 del 2000.
I fatti all’origine della sentenza in esame riguardano, invece, l’inserimento di Youssef Moustafa Nada, un cittadino italo-egiziano residente nell’enclave italiana di Campione d’Italia, nella lista degli indiziati sostenitori dell’associazione terroristica dei talebani, allegata alle suddette risoluzioni dell’Onu. Benché all’epoca non facesse ancora parte delle Nazioni Unite, la Svizzera aveva attuato le risoluzioni in questione con un’ordinanza federale denominata Taliban V, inserendo il nome di Youssef Moustafa Nada nella lista allegata all’ordinanza medesima.
In seguito a ciò, a questi venivano impedito l’ingresso e il transito nel territorio elvetico a tempo indeterminato, salvo che per giustificate ragioni di salute e familiari e previa autorizzazione del Comitato incaricato dal Consiglio di Sicurezza della gestione del sistema sanzionatorio. Il Nada allora proponeva ricorso al Tribunale Federale Svizzero per ottenere la cancellazione del suo nome dalla lista allegata alla suddetta ordinanza, ma il Tribunale lo respingeva sostenendo che l’interpretazione dell’articolo 103 della Carta delle Nazioni Unite induceva ad assegnare preminenza alle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza sugli altri obblighi internazionali assunti dalla Svizzera relativi alla protezione dei diritti dell’uomo.
Di qui il successivo ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo nel quale si deduceva, da parte dell’interessato, la violazione dell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, consistente nel divieto di transito nel territorio elvetico, che gli aveva impedito di raggiungere la propria famiglia in Italia nel periodo in cui era stato sottoposto a regime sanzionatorio. Nel ricorso l’interessato deduceva, altresì, la violazione dell’articolo 13 per non aver avuto un’effettiva tutela giurisdizionale. Convenuto quindi a giudizio, a propria difesa lo Stato svizzero rimarcava la natura vincolante delle risoluzioni adottate dal Consiglio di Sicurezza in base al capitolo VII della Carta dell’Onu e, per quanto disposto dall’articolo 103 della stessa, ne sosteneva la supremazia rispetto alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, come già ritenuto dal Tribunale federale.
Il 30 settembre 2010 la Camera declinava la propria competenza a favore della Grande Camera, conformemente all’articolo 30 della Convenzione dei diritti dell’uomo e all’articolo 72 del Regolamento di procedura della Corte, che prevedono l’intervento della Grande Camera in via eccezionale qualora la causa sollevi questioni importanti relative all’interpretazione della Convenzione stessa.
Nell’adottare la decisione la Grande Camera ha rigettato l’impostazione del Tribunale federale e dello Stato svizzero, in favore di un’interpretazione «armonica» dei diversi strumenti simultaneamente applicabili, richiamando in tal senso la sentenza resa nel caso Al-Jedda nella quale per la prima volta aveva introdotto questo criterio interpretativo.
In quella sentenza, riguardante la detenzione arbitraria di un sospettato di terrorismo internazionale in due prigioni irachene gestite dalle truppe britanniche sotto l’egida delle Nazioni Unite, la Corte aveva affermato il principio secondo cui uno Stato, laddove si trovi a dover rispettare contemporaneamente diversi obblighi in apparente contrasto tra loro, deve tentare di coordinarne gli effetti in modo da evitare ogni possibile opposizione.
Ammettendo come presupposto che il Consiglio di Sicurezza non intende imporre agli Stati di violare i diritti umani, in quella stessa sentenza la Corte precisa che, se i termini della controversia risultano ambigui, occorre scegliere l’interpretazione in senso conforme alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Infatti, se è vero che l’obiettivo della sicurezza nazionale e internazionale rientra tra i fini che consentono legittime restrizioni all’esercizio del diritto alla vita privata e familiare, è anche vero che dall’interpretazione letterale della risoluzione in oggetto emerge, secondo i giudici di Strasburgo, un certo potere discrezionale nell’attuazione dei provvedimenti restrittivi disposti dalla stessa, tale da permettere alla Svizzera di contemperare il divieto di transito sul suolo elvetico con le particolari esigenze del soggetto sottoposto a quel divieto e di bilanciarlo con il fine della sicurezza nazionale.
Nel caso di specie, pur riconoscendo la gravità della minaccia terroristica, la Corte non ha condiviso il mantenimento e il rafforzamento delle misure restrittive nei confronti del ricorrente per un periodo di tempo così esteso. In particolare, nella sentenza si censura il ritardo di circa quattro anni con cui le autorità elvetiche informarono il Comitato Onu competente della conclusione delle indagini svolte, dalle quali non era risultato alcun collegamento tra il Nada e l’associazione terroristica dei talebani.
La tempestiva comunicazione dell’esito delle indagini avrebbe contribuito ad abbreviare la sottoposizione dello stesso al regime restrittivo del Consiglio di Sicurezza Onu e, conseguentemente, la limitazione del godimento del diritto alla vita privata e familiare. Inoltre, secondo la Corte, le autorità elvetiche non avrebbero tenuto nella giusta considerazione la peculiare situazione geografica di Campione d’Italia e la condizione personale del Nada.
Risiedendo nell’enclave italiana, egli non solo non poteva entrare nel territorio elvetico, ma gli era negata altresì la possibilità di raggiungere qualunque altra parte dell’Italia senza violare il divieto di transito. Peraltro la sua età avanzata e le sue precarie condizioni di salute avrebbero dovuto indurre le autorità elvetiche a ricercare le misure più idonee per adattare le limitazioni disposte nei suoi confronti. Tutto ciò comportava la violazione dell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. In sostanza, secondo la Corte, la mancata considerazione da parte delle autorità elvetiche della specificità del caso e la possibilità di influire, in misura certo limitata ma pur sempre effettiva, sulla scelta delle modalità concrete di attuazione sul piano delle più volte citate risoluzioni del Consiglio di sicurezza, comporta una violazione dell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo
Quanto alla violazione del diritto a una tutela giurisdizionale effettiva, previsto dall’articolo 13 della stessa Convenzione, la Corte, dopo aver ricordato che tutte le istanze di radiazione dalla lista allegata all’ordinanza Taliban V, avanzate dal ricorrente erano state rigettate dalle autorità nazionali competenti, ha respinto l’impostazione del Tribunale federale che aveva escluso la possibilità di revocare il provvedimento restrittivo per le ragioni anzidette, richiamando la decisione resa dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea nel caso Kadi sopra citato, che aveva modificato radicalmente le conclusioni cui era giunto il Tribunale di prima istanza.
Come si è già accennato, in quel caso la Corte di giustizia dell’Unione Europea aveva rivendicato la propria competenza sul regolamento adottato per dare attuazione al regime di sanzioni individuali instaurato dal Consiglio di Sicurezza. Secondo la Grande Camera, il Tribunale federale svizzero avrebbe dovuto applicare, al caso di specie, la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione, specificamente nella parte in cui esclude che dall’ordinamento giuridico internazionale creato dalle Nazioni Unite possa desumersi un limite al controllo giurisdizionale della legittimità interna del regolamento controverso, sotto il profilo dei diritti fondamentali.
La risoluzione del Consiglio di Sicurezza in questione non pone alcun ostacolo all’introduzione di meccanismi di controllo a livello nazionale. Peraltro il Tribunale federale, dopo aver correttamente accertato che la procedura di radiazione a livello Onu non costituiva un rimedio giurisdizionale effettivo, anziché rigettare il ricorso avrebbe dovuto verificare, in base alle proprie attribuzioni, la conformità dell’ordinanza Taliban V con i diritti fondamentali.
In conclusione, nella sentenza in esame la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo ha confermato l’incompatibilità delle controverse sanzioni individuali del Consiglio di Sicurezza Onu con i diritti fondamentali e, più in generale, ha ribadito il dovere di condurre la lotta al terrorismo internazionale nel rispetto dei diritti fondamentali.
Ha precisato che la natura vincolante delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza non esime gli Stati membri della Convenzione europea dei diritti dell’uomo di agire in modo appropriato per addivenire a un’armonizzazione tra i loro obblighi internazionali derivanti dalle suddette risoluzioni e quelli discendenti invece dalla Convenzione, ogni qualvolta si profili un conflitto tra gli stessi sulla loro concreta attuazione sul piano interno.  

 

di ANTONIO MARINI

Tags: Novembre 2013 Svizzera sicurezza terrorismo Antonio Marini

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