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le lacune d’italia in un rapporto della banca mondiale

In alcuni quotidiani economici emerge una lodevole attenzione alle rilevazioni effettuate secondo canoni, direttrici e analisi di carattere internazionale, ed in particolare per gli studi di organismi specializzati nel raffronto tra diversi «sistemi paese». Tra questi spicca il sempre più frequente riferimento al Doing Business, rapporto annuale della Banca Mondiale, che classifica sulla base di vari criteri che misurano l’efficienza di sistemi economici e normativi di 185 Paesi. Gli obiettivi sono numerosi, in primis valutare la «predictability», ovvero la possibilità di prevedere, nel caso di esiti contrattuali negativi, i tempi delle risposte giudiziarie; i tempi di recupero di crediti incagliati, specie con riferimento all’area oggi particolarmente ampia e delicata delle ristrutturazioni societarie, delle crisi d’impresa, delle dichiarazioni di insolvenza.
I difetti del sistema Paese italiano sono noti: burocrazia, pressione fiscale, produttività del lavoro deficitaria, amministrazione pubblica inefficiente con risposte, nella concessione di licenze, di autorizzazioni e permessi amministrativi, estremamente lente, senza dimenticare i problemi legati all’erogazione dei servizi delle «public utilities», come suol dirsi, ed ai relativi costi. Una fotografia dei singoli Paesi è senz’altro significativa, seppure con tutti i limiti della sintesi e della mancanza di approfondimenti. Eppure è ciò che orienta organismi internazionali del peso della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, ma anche Agenzie di rating internazionale e finanziatori internazionali per stabilire il grado di fiducia che i singoli Paesi riscuotono, e quindi concedere prestiti, finanziare progetti, stabilire il tasso d’interesse, in una parola misurare il «rischio Paese».
Certamente le nostre zone d’ombra sono numerose; basti pensare alla pressione fiscale che, secondo Banca Italia, si attesta intorno al 44 per cento medio mentre, secondo il Centro Studi della Confindustria, supera il 53 per cento. O ancora i tempi giudiziari, l’incertezza delle liti, il loro costo, le «traversie» di coloro che devono farvi ricorso, in un contesto caratterizzato da una grave «bulimia normativa» e da una vera e propria «galassia di autorità regolatrici» che elidono conoscibilità e certezza del diritto. Ebbene tutto ciò costa al Paese ben di più dei 2 punti di prodotto interno che le fonti ufficiali indicano.
Ecco perché l’Italia quest’anno appare relegata alla 73esima posizione su 185 nella graduatoria dell’efficienza disegnata dal Doing Business. Rattrista dover constatare che ci precedono Paesi non solo come Giappone, Stati Uniti, Nuova Zelanda, Danimarca, Finlandia, Norvegia, Inghilterra e Germania, ma anche Estonia al 21esimo posto, Arabia Saudita al 22esimo, Lituania al 27esimo, Cile al 37esimo posto, Spagna al 44esimo, Tunisia al 50esimo, Polonia al 55esimo, Ghana al 64esimo, Bulgaria al 66esimo, Turchia al 71esimo, Romania al 72esimo posto.
Evidentemente in questa classifica c’è più di qualcosa che non va. In realtà si raccoglie quello che si semina. Il diffuso disinteresse per gli organismi sovranazionali dà questo tipo di risultati. L’immagine del Paese che viene diffusa nel mondo finanziario internazionale e nelle sue strutture regolamentatrici è peggiore di quanto non sia in realtà. Tutto ciò ci obbliga a riflettere sui criteri di valutazione adottati da Doing Business, perché costituiscono la base per comprendere come vengono misurate le diverse economie nazionali, quali sono gli elementi essenziali che fanno di un Paese una realtà progredita e attraente per gli investitori esteri; e che ci conducono a mettere a fuoco gli ostacoli che vanno superati.
I temi centrali del rapporto sono: 1) Paesi che agevolano e accelerano la messa in moto di un’impresa economica, che in sostanza «aiutano a partire», e Paesi che frenano; 2) la valutazione di quanto sia facile o difficile, dal punto di vista legislativo, amministrativo e burocratico realizzare opere edili private o pubbliche; 3) la facilità, la qualità e i costi di erogazione dell’energia elettrica, settore che, grazie alla Acea, fa guadagnare all’Italia migliori posizioni rispetto alla graduatoria dell’anno scorso; anche il miglioramento dei servizi di registrazione dei passaggi di proprietà in termini di facilità, correttezza, costi contenuti e soprattutto visibilità informativa, contribuisce a questa «risalita»; 4) la facilità di erogazione del credito rappresenta un tema particolarmente sentito, purtroppo negativamente, dalle imprese italiane; 5) la protezione degli investitori; lungaggini giudiziarie, «risposte ritardate», sono difetti arcinoti con conseguenze non favorevoli per l’attrattività dell’Italia nei confronti degli investitori esteri; 6) anche il capitolo «fisco» e «tasse» ci vede uscire malconci; 7) infine le facilitazioni degli scambi internazionali: al riguardo l’appartenenza all’Europa costituisce un vantaggio.
Per quanto riguarda più da vicino il mio osservatorio professionale, nel settore del punto 2 dedicato all’esecuzione degli appalti pubblici, e del punto 5 sulla protezione degli investitori, molto dovrebbe e potrebbe essere migliorato. In realtà, e non solo per il Doing Business, non abbiamo superato gli esami, dovremo rimboccarci le maniche, fare molti compiti a casa e reagire decisamente all’insoddisfazione dell’analisi mondiale condotta sul nostro sistema Paese, riflettendo e studiando le esperienze, le migliori pratiche dei Paesi più virtuosi.
A questo punto è inevitabile una considerazione su ciò che è più opportuno, su cosa si potrebbe fare. Mi limiterò a raccogliere alcune provocazioni che sono state rivolte da voci autorevoli in questi tempi sul «sistema giustizia», questa volta «amministrativa». Senza nulla togliere all’importanza e alla grande prova che i nostri Giudici Amministrativi hanno dato con le loro sentenze in termini di attenzione ai principi giuridici che incidono fortemente sul rapporto tra il cittadino e la pubblica amministrazione, autorevoli voci hanno posto recentemente il problema dell’effettiva utilità della Giustizia Amministrativa, in termini molto drastici.
Addirittura ne è stata prospettata l’eliminazione, indicandola quale prima responsabile dei tempi lunghi nell’esecuzione degli appalti delle opere pubbliche, e della mostruosa lievitazione dei loro costi di realizzazione, spropositati in relazione proprio a ciò che accade negli altri Paesi. La sospensione di «gare», l’incertezza nell’applicazione delle leggi, l’inosservanza del precedente giurisprudenziale, la possibilità per la pubblica amministrazione di poter, come vedremo, cambiare «ad libitum» la motivazione del provvedimento impugnato, in sede di «autotutela», l’inefficacia del «giudizio di ottemperanza» sono tutte tessere di questo mosaico che rende estremamente magmatico, costoso e lungo sia il processo amministrativo, sia l’esecuzione di opere pubbliche e non offre adeguata tutela agli investitori contro i provvedimenti della Pubblica Amministrazione.
Una grave dicotomia emerge, in realtà, nell’attuale ma risalente assetto della Giustizia amministrativa. I suoi Giudici da una lato vengono chiamati a far parte dell’Amministrazione, sia pure con funzioni di Sottosegretari, di Capi di Gabinetto, di Capi di Uffici Legislativi, di presidenti di Autorities, dall’altro restano i giudici della legittimità dei provvedimenti della Pubblica Amministrazione e del suo corretto operare. Controllori e controllati sono, sovente, molto vicini.
Ma il problema di fondo ruota intorno ad una domanda ancora più generale, ed ontologica. L’attività del Giudice Amministrativo, nel suo rapporto con la velocizzazione e la realizzazione di opere pubbliche ed ancora con l’erogazione di pubblici servizi, è compatibile e adeguata alle necessità di uno Stato moderno? Oggi nelle pronunce del Giudice Amministrativo risiede la concreta possibilità di veder sospeso ogni appalto ed ogni gara pubblica. Infatti i controinteressati, ovvero coloro che non sono riusciti vincitori, possono proporre ricorsi ed in molti casi riuscire a «bloccare» l’esecuzione di opere pubbliche di importanza centrale per il Paese.
È questa la causa di gravi rallentamenti della nostra macchina produttiva. Ma il danno è più grave: le lungaggini nell’esecuzione o erogazione di servizi si riflettono anche in termini negativi, secondo il Doing Business, sull’affidabilità internazionale del Paese e sulla possibilità di attrarre finanziamenti dall’estero. Connessa a quest’area critica ne esiste un’altra ed è quella del notevole contenzioso che si sviluppa durante o dopo l’esecuzione dei lavori con grave prolungamento dei tempi di esecuzione o di completamento degli appalti.
Molti infatti sono i casi di «claims», di riserve, di contestazioni che poi sfociano in giudizi arbitrali o in contenziosi ulteriori, malgrado le procedure compositive pur previste per legge. Ora, indipendentemente dall’origine di questi contenziosi che spesso risiede su problemi di progettazione dell’opera non sufficientemente completa o approfondita, va sottolineato che anche questa costola del contenzioso amministrativo produce riflessi negativi sull’efficienza del Paese. Ma non è tutto: va ricordato un ulteriore grave «intralcio» che fonda sul principio dell’autotutela della Pubblica Amministrazione, e che, tradotto in parole povere, significa che anche quando si sia pronunciato il Giudice Amministrativo nella sua più alta autorità che è rappresentata dal Consiglio di Stato, che abbia accertato un comportamento scorretto o illegittimo della Pubblica Amministrazione, ebbene il cittadino non raggiunge ancora, e sono trascorsi vari anni, il risultato che dovrebbe essere conseguente al lungo processo conservatosi.
Infatti l’Amministrazione non viene obbligata ad emettere la concessione o l’autorizzazione dovuta in quanto, in forza dell’autotutela, può motivare nuovamente e diversamente il diniego, rispetto al provvedimento giudicato illegittimo. Questo significa che dopo 10 anni di giudizio amministrativo si dovrà ricominciare da capo poiché la Pubblica Amministrazione può cambiare percorso motivazionale e rigettare di nuovo quella domanda, o non concedere di nuovo quella licenza.
Questo significa in realtà rendere inutile il giudizio amministrativo. In tempi di particolare attenzione alla riduzione dei tempi e dei costi della Pubblica Amministrazione, e di ridimensionamento della spesa pubblica, sorge un interrogativo: la «spending review» attuata per il momento con tagli orizzontali, rispetto alle erogazioni dell’anno precedente, forse dovrebbe essere attuata attraverso una rimodulazione ed una riassegnazione delle risorse più vicine ai problemi reali del cittadino e del Paese e, quindi, con maggiore attenzione anche da parte del Legislatore nel rimuovere quegli ostacoli all’efficienza che rendono il nostro Paese incapace di attrarre finanziamenti esteri, e che ci rilegano al 73esimo posto su 185 nella graduatoria dell’efficienza mondiale.
La buona notizia comunque c’è, perché nel Doing Business, in «a more transparent world», nel 2012 l’Italia era posizionata all’87esimo posto malgrado avesse compiuto un grande sforzo legislativo, registrato dagli analisti, sia per rendere le procedure delle crisi d’impresa più veloci, più vicine alle aspettative dei creditori, e sia per ridurne i costi e i tempi di conclusione. Quest’anno grazie ai miglioramenti apportati nella «registrazione dei cambi di proprietà» e nell’«erogazione di elettricità», l’Italia ha guadagnato ben 15 posizioni salendo alla 73esima. È comunque necessaria una maggiore attenzione alla fotografia che inviamo nel mondo, poiché se la nostra immagine internazionale è migliore, tutti gli italiani staranno meglio. 

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