Federico Vecchioni: Gruppo Terrae, all’agricoltura reddito aggiuntivo dall’energia
a cura di
DARIO DE MARCHI
La soluzione è geniale. Anche se sottende l’esistenza di diverse complessità manageriali, gestionali, organizzative, tecnologiche e burocratiche (quelle più ardue). È un accorgimento dimostratosi intelligente e in grado di dare utili risposte organizzative, ambientali, energetiche e, soprattutto, di reddito al comparto agricolo, da tempo in profonda sofferenza, con lo spopolamento di braccia e l’abbandono dei terreni. Negli ultimi anni l’Italia ha perso 3 milioni di ettari di superfici agricole, oggi a 12,8 milioni, mentre il fatturato medio delle imprese rurali è inferiore ai 13 mila euro l’anno.
Quella sperimentata e ora in via di sviluppo è, insomma, una sorta di quadratura del classico cerchio. Il «portatore sano» di questa non banale rivoluzione è il Gruppo Terrae - già il nome è un chiaro identificativo dell’attività -, che prende le mosse dai tagli imposti dall’UE al nostro Paese nel 2006 per ridurre drasticamente la nostra capacità saccarifera, sopprimendo 15 dei 19 zuccherifici italiani, e dalla conseguente esigenza di avviare una riconversione intelligente.
A condurre la svolta è Federico Vecchioni, 46 anni. Laurea in Scienze agrarie, imprenditore di successo di un’azienda agricola in Toscana, a soli 37 anni è stato presidente per 6 anni della principale organizzazione dell’imprenditoria agricola, la Confagricoltura. Vicepresidente dell’Accademia dei Georgofili, la più antica accademia europea di agricoltura, Vecchioni è presidente del Gruppo Terrae, una spa partecipata da azionisti di peso: Associazione Nazionale Bieticoltori, Enel Green Power, Allegro Gruppo Generali, Gruppo Gavio, Confagri Consult, cui si aggiunge una quota di azioni proprie in via di collocamento.
«Il progetto Terrae, partendo dalla riconversione degli zuccherifici, nasce dalla consapevolezza e dalla volontà del mondo agricolo di avere nuove possibilità d’integrazione di reddito e dalla convinzione che il capitolo dell’energia, in particolare quella da biomasse, può coinvolgere il settore agricolo non solo come utente finale, ma anche come produttore», spiega Vecchioni ricordando che «all’interno del mercato delle energie da fonti rinnovabili, le bioenergie costituiscono la seconda fonte con un contributo che si aggira sugli 11 terawatt, sui 291 di produzione complessiva nazionale».
In poche parole, «Terrae offre al mondo agricolo, coinvolto dal socio ANB, l’Associazione Nazionale Bieticoltori, una serie di opportunità: l’utilizzo energetico dei residui dei sottoprodotti delle lavorazioni agricole e agroforestali, ben 17 milioni di tonnellate, il cui smaltimento ecologico è un costo per le aziende, evitando che sia un problema ambientale. Abbiamo un enorme giacimento energetico rinnovabile in grado di produrre biomasse per creare energia alternativa, ossia una risorsa per il Paese e un reddito aggiuntivo per le imprese agricole».
Così, prosegue il presidente, «Terrae si pone come il principale operatore di riferimento in Italia nella minigenerazione distribuita di energia da biomassa agendo come integratore di sistema, affiancando anche l’imprenditore agricolo nell’accesso alle fonti di finanziamento, gestendo le complessità autorizzative, burocratiche e tecniche, propedeutiche allo sviluppo agroindustriale e finanziario, occupandosi di progettazione, acquisizione, realizzazione e gestione degli impianti come da Piano industriale».
Si tratta di trasformare in energia e in denaro una gamma molto vasta di scarti agricoli, animali, alimentari, forestali e dell’industria conserviera. Come la sansa di olive, prima non considerata e il suo smaltimento era un problema e un costo per l’industria olivolicola, polpe di barbabietole e buccette di pomodoro, pastazzo di agrumi; la derivazione della lavorazione dei cereali, come il cruschello. Ma anche i residui lignei della pulizia dei boschi. Il 70 per cento del nostro Paese è in collina e il 63 per cento delle foreste è privato.
Così, sfruttando il rilevante patrimonio di scarti diversificati, si dà loro una nuova destinazione energetica, si alimenta una fonte rinnovabile sicura, si elimina il costo del loro smaltimento, si rispetta l’ambiente e, non ultimo, si fornisce un reddito integrativo all’agricoltura.
«Con questa filosofia Terrae ha realizzato i primi 6 megawatt, ha avviato in questi giorni il grande impianto da 15 megawatt a Casel Gerola (PV), riconvertendo l’ex zuccherificio, e ha avviato le procedure autorizzative per 5 impianti da 300 chilowatt. Se ne produrranno per 47 megawatt complessivi nei prossimi cinque anni, considerando anche due strutture da 5 megawatt ciascuna, ciò anche attraverso acquisizioni esclusivamente nel territorio nazionale, concentrate su biogas e biomasse legnose».
Grazie anche all’azione di promozione delle bioenergie da parte di Terrae, l’Italia si pone seconda solo alla Germania per presenza di biomasse usabili per produrre energia elettrica, detenendo il 13 per cento del totale europeo, contro il 15 per cento tedesco. E le cifre sul tavolo sostengono il trend. «Con questa politica, sancita dal recente Piano industriale di Terrae, che nella strategia energetica nazionale è un riferimento di rilievo soprattutto per quanto attiene il tema dell’approvvigionamento in collaborazione con il socio ANB», afferma Vecchioni, «di fronte degli obiettivi industriali gestiti direttamente dai soci che ci siamo dati, mobiliteremo fino al 2017 investimenti complessivi per circa 200 milioni di euro e avremo un fatturato consolidato intorno agli 80 milioni di euro».
E che il piano industriale di Terrae non sia un libro dei sogni lo testimonia la crescita negli ultimi anni del settore: più 23 per cento di potenza installata tra il 2007 e il 2011, spinta anche dagli incentivi alla produzione di energia rinnovabile. Il nuovo decreto sulle rinnovabili elettriche ha modificato lo scenario introducendo i contingenti di potenza incentivabile, modificando l’entità stessa degli incentivi rimodulando i benefici in tariffa base, legata alla taglia degli impianti e alla materia prima con cui si alimenta.
«Gli incentivi sono stati formulati con l’obiettivo di favorire gli impianti piccoli, inferiori o pari a 300 chilowatt, alimentati principalmente con sottoprodotti agricoli o colture dedicate. In tal modo si sono create le condizioni affinché la minigenerazione di energia da biomasse possa ottenere significativi risultati economici se provvisti di competenze di elevato profilo e relazioni legati al mondo energetico, impiantistico, agricolo e finanziario. Gli incentivi per le biomasse sono stati oggetto di una riformulazione, più che di una riduzione, che ha valorizzato i sottoprodotti rispetto alle colture dedicate, ha dato un’indicazione chiara sulle dimensioni degli impianti e, quindi, sull’incentivo legato al piccolo impianto».
«Noi abbiamo ritenuto che l’aver scelto questa strada abbia in un certo qual modo riequilibrato gli incentivi stessi, stabilizzandoli in un arco di 20 anni. È ben chiaro che l’incentivo erogato per le bioenergie con una corretta gestione dell’impianto rappresenta una vera opportunità per l’agricoltura», aggiunge Vecchioni, ricordando che «esso vale circa un miliardo e mezzo di euro».
Sta di fatto che ciò che si è perso in termini di occupazione nel settore bieticolo-saccarifero è stato in parte riassorbito dalla filiera energetica. L’aver creato in questi anni un sistema di incentivi di medio-lungo periodo che potesse garantire gli investimenti e la programmazione, come è stato il certificato verde prima e poi la tariffa onnicomprensiva con lo 0,28 euro per chilowatt, ha dato una dimensione notevole alla diffusione delle biomasse. Questi numeri confermano che le biomasse, come materiale di risulta delle lavorazioni e delle trasformazioni, sono per l’Italia un grande giacimento energetico e per la filiera agricola una grande opportunità per diversificare la produzione e integrarla.
Non solo. Vecchioni rammenta che a beneficiare di questa strategia è il Sistema Paese, non solo gli agricoltori. «L’incentivo erogato per le biomasse, infatti, ha una forte ricaduta sull’indotto produttivo e industriale. E poiché si vuole promuovere la tecnologia e l’innovazione made in Italy, si generano un know-how e un indotto occupazionale qualificati, di assoluto rilievo nella fase della produzione di tecnologia e non solo nel suo mero uso».
Non si può nascondere, però, uno dei mali endemici del Sistema Paese: la burocrazia, la proliferazione delle normative e la loro non omogeneità. Vecchioni non esita: «Sinora anche per lo sviluppo di questo settore, strategico per il Paese, ci sono stati troppi interventi spot, che non hanno tenuto conto degli impegni assunti in sede UE e non considerano l’assetto burocratico, amministrativo e istituzionale in cui opera l’impresa italiana. Nello stesso tempo abbiamo bisogno di un sistema di incentivi che dia stabilità agli investitori, senza essere oggetto di una revisione perenne, ogni 24 mesi. Tuttavia la frammentazione normativa territoriale crea una grande confusione, soprattutto laddove questo meccanismo viene ad essere, nel momento applicativo, assolutamente disomogeneo nelle diverse Regioni. Sta di fatto che sulle biomasse, sul biogas e sulle biomasse ligno-cellulosiche le Regioni hanno comportamenti e regole difformi».
Insomma, secondo il top manager di Terrae, «in Italia è essenziale un coordinamento Stato-Regioni, come già avviene in altri settori, teso a chiarire iter amministrativi, regolamenti territoriali, strumenti urbanistici e prassi di investimento omogenei per non esporre gli imprenditori a rischi ben superiori a quelli di mercato. Si tratta di rischi burocratici, amministrativi e giudiziari assolutamente sproporzionati rispetto all’entità dell’investimento».
Così anche Terrae deve scontrarsi con l’elefantiaca burocrazia nazionale. «L’iter amministrativo, sia per i piccoli che per i grandi impianti, è analogo, in quanto contempla comunque il passggio dalla Conferenza dei Servizi: molto complesso, frammentato, appeso a ricorsi e controricorsi. Per una Conferenza dei Servizi abbiamo mediamente tempi che si aggirano dai 18 ai 24 mesi, ma in alcuni casi si arriva a 36 mesi. È un quadro di incertezze che supera di gran lunga la valutazione imprenditoriale. E scoraggia gli investitori, soprattutto quelli stranieri», ribadisce rilevando che, «in definitiva, il tema normativo è prioritario per l’energia. Così come la sua applicazione è sicuramente, in termini di tempistica, un gap che ci allontana molto dagli altri Paesi. Con questa situazione si hanno riflessi pure sul costo dell’accesso al credito stravolgendo nei mesi un piano finanziario, generando per l’imprenditore un numero enorme di variabili esogene che disincentivano l’investimento».
E, invece, afferma ancora il presidente di Terrae, «si ignora così che per l’agricoltura il sistema incentivante del recupero energetico degli scarti ha innescato una modernizzazione del settore, ma anche un volume di investimenti significativi e nuove opportunità, come l’integrazione di reddito, assolutamente essenziale per la vita stessa dell’impresa agricola, soprattutto laddove i residui o i liquami e il loro spandimento secondo le regole europee ha determinato problemi ambientali molto difficili».
Tutto questo, per Vecchioni, «deve inoltre essere oggetto di una comunicazione corretta ai cittadini. In assenza di tale azione informativa, le biomasse sono identificate come materie prime inquinanti e gli impianti alimentati a biomasse sono erroneamente considerati destinatari di altre tipologie di approvvigionamenti. Tutto questo crea molta inutile confusione. Conoscere il potenziale economico e sociale delle biomasse, pensiamo al possibile sviluppo del biometano, significa evitare di ricommettere l’errore compiuto troppe volte: sacrificare il terreno coltivabile per altri usi. Oggi dobbiamo salvaguardare il potenziale produttivo agricolo del Paese. Ossia non scendere più sotto i 12 milioni di ettari coltivati. Andar sotto questo limite vuol dire compromettere ancora una volta la capacità di rigenerazione da fonte rinnovabile rappresentata dalla biomasse. Le bioenergie hanno rappresentato una leva per rilanciare la capacità competitiva del fattore terra e, nello stesso tempo, per ottimizzare cicli produttivi il cui impatto ambientale, anche per le norme europee, era oggetto di costi rilevanti», conclude Vecchioni.
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