Spesa pubblica, politica fiscale, burocrazia, Europa
Lo scenario è peggiorato negli ultimi anni. Tutti parlano di tutto. Tutti dicono cosa occorre fare. Pochi si impegnano per cambiare. I ministri pur essendo al governo fanno dichiarazioni tipiche degli oppositori: denunciano con veemenza i difetti delle loro amministrazioni e criticano i propri colleghi. I titolari di responsabilità amministrative, politiche e sindacali oltrepassano troppo spesso il limite delle proprie competenze per esprimere opinioni su qualsiasi argomento. Siamo al dilagare degli opinionisti. È un aspetto tipico della seconda Repubblica. Lo fanno i presidenti della Camera e del Senato; lo fanno i magistrati; lo fa la Banca d’Italia; lo fa la Corte dei Conti; lo fa la Corte Costituzionale, lo fa la casta dei grandi burocrati, lo fanno gli esponenti del mondo sociale e del mondo politico.
È un coro di voci stonate che indebolisce l’autorevolezza delle istituzioni e delle forze sociali. Che dire? Il potere in Italia è ovunque, cioè da nessuna parte. Eppure mai come ora è necessario che le istituzioni riacquistino autorevolezza. La crisi strutturale della nostra economia è destinata a protrarsi nel tempo. Ne usciremo tutti cambiati. Il Paese dovrà essere molto diverso. I temi da affrontare e da risolvere sono essenzialmente quattro: l’Europa, la burocrazia, la spesa pubblica, la politica fiscale. Così com’è oggi l’Europa si presta a molte, troppe, critiche. L’euro non è il punto di arrivo dell’Europa. È una tappa intermedia. Presuppone, anzi impone, la necessità di procedere gradualmente in tempi certi all’integrazione politica e sociale.
I vantaggi non sono uniformi, la politica dell’austerità sta strangolando l’economia europea, la politica fiscale per molti Paesi, tra i quali l’Italia, è nociva, la politica sociale subordinata alle logiche del mercato. Incombe sull’Europa il problema dei derivati. Un’arma di distruzione di massa di 633 trilioni di dollari tra Usa e Ue. Anche l’Italia, soprattutto le autonomie locali, li hanno utilizzati per finanziarsi fuori dei vincoli di bilancio, senza controllo da parte del Ministero dell’Economia e della Banca d’Italia.
L’Italia deve farsi sentire. Ha le carte in regola. È uno dei Paesi costituenti, Da dieci anni il saldo tra dare e avere è favorevole per l’Europa (l’Italia ha dato molto di più di quello che ha ricevuto). Il risanamento del bilancio è andato molto avanti. Ci vuole meno retorica e meno complessi di inferiorità. Se non si vuole che in Italia prevalga un irrazionale stato d’animo contrario all’Europa, occorre che il Governo spinga affinché si facciano passi in avanti verso l’unione politica e l’allentamento dei vincoli di bilancio al 3 per cento sul prodotto interno.
L’Italia ha speso solo il 40 per cento dei fondi strutturali europei spettanti per il periodo 2007-2013. I 17 miliardi residui debbono essere spesi entro il 31 dicembre 2015 con un cofinanziamento di 13 miliardi. Rischiamo di perdere 5 miliardi che il Governo potrebbe e dovrebbe dirottare su lavoro e povertà. Auguriamoci che ci riesca.
La burocrazia è il secondo intoppo alla ripresa dell’economia. La struttura dello Stato si è polverizzata in innumerevoli organismi istituzionali: Circoscrizioni, Comuni, Comunità montane, Province, Regioni, Parlamento, Magistratura, Tar, Consiglio di Stato, Corte costituzionale, Authority e via dicendo.
L’Italia è bloccata. La burocrazia ci fa perdere molti miliardi. Per ogni legge di semplificazione se ne producono altre quattro simultanee: così si finisce in un pantano. Alcuni dati. Cento miliardi di euro sono i debiti accumulati dalle Pubbliche Amministrazioni con i diversi fornitori di servizi. Sono state approvate tra il 2008 e il 2013, 491 norme tributarie, di cui 288 hanno complicato e aggravato la vita delle aziende. Il costo burocratico che grava sulle imprese per la lentezza della giustizia è pari a 31 miliardi. La spesa dello Stato per la gestione della sanità pubblica è aumentata negli ultimi dieci anni di 50 miliardi.
Ancora alcuni dati recentemente elaborati dalla Confartigianato: sono necessari in Italia 234 giorni per avere un permesso edilizio (27 in Usa, 97 in Germania, 99 in Gran Bretagna); 1.210 giorni invece per concludere un procedimento civile (390 in Francia, 394 in Germania, 399 in Gran Bretagna). La burocrazia made in Italy, secondo un’efficace battuta di Cesare Fumagalli, segretario della Confartigianato, «fa sì che le nostre imprese nella competizione internazionale corrano rispetto agli altri con uno zaino pieno di sassi».
Nessun pregiudizio sulla burocrazia. Non è condivisibile né il giudizio di Pierre Larousse («La burocrazia ha un’influenza abusiva del personale degli uffici nell’amministrazione») né di Emilie de Girardin («La burocrazia è il dispotismo dell’inerzia»). È giusta invece la riflessione di Max Weber, che vede nella burocrazia un fondamentale principio strutturale delle società moderne. Il problema non è se la burocrazia sia in sé un bene o un male. Occorre che sia onesta, competente e non, come purtroppo avviene sempre di più, impreparata, arrogante, corrotta e invadente.
Pietro Ichino sul Corriere della Sera del 15 luglio di quest’anno ha raccontato le sue disavventure per registrare un contratto d’affitto, constatando di persona come la burocrazia sia ossessiva, presuntuosa, saccente, stupida. Sembra di leggere Kafka o, se si è indulgenti, si possono ricordare i racconti di Cechov.
La spesa pubblica è il terzo punto su cui occorre realizzare un cambiamento. Non ci siamo. Non si è fatto e non si fa alcun passo in avanti. Ogni volta che si parla di tagli alla spesa pubblica, di eliminazione degli enti inutili, si verifica sempre il contrario. Tagliare le spese. È un obiettivo ricorrente. I rinvii sono continui. Francesco Giavazzi ha spiegato come è fallito il suo piano per disboscare i contributi pubblici alle imprese per destinare il ricavato alla riduzione della pressione fiscale. Giavazzi racconta che quando consegnò il suo piano a Mario Monti gli dissero che si doveva avviare la concertazione con gli altri Ministeri. I dirigenti ministeriali affossarono con grande abilità il provvedimento: «Cominciarono a sollevare obiezioni di ogni tipo, si creò la classica situazione del vecchio detto sui tacchini e l’abolizione del Natale; nessuno li avrebbe licenziati ma avrebbero perso il loro potere».
La spesa pubblica ha ormai superato il 50 per cento del prodotto interno, senza che sia aumentata la ricchezza nazionale. Tra il 2001 e il 2012 mentre la spesa lievitava di 200 miliardi, il prodotto interno pro capite a prezzi contenuti è crollato del 6,5 per cento. L’indebitamento è salito dai 1.400 miliardi del 2003 ai 2.034 del 2012. La spesa di Regioni, Province e Comuni è salita del 12,6 per cento e quella degli enti previdenziali del 127 per cento. Per fronteggiare questa dinamica è esploso il gettito derivante dalle imposte (dirette ed indirette) a livello locale con un aumento del 500 per cento, al quale si è associato il sostanziale raddoppio a livello centrale. Nell’ultimo decennio è quasi triplicata l’incidenza delle addizionali regionali e comunali sull’Irpef, mentre è rilevante la differenziazione tra le diverse Regioni.
In base all’incidenza della tassazione locale, l’aliquota Irap per un’impresa della Campania è quasi il doppio di quella che deve pagare un’impresa di Bolzano. Il gigantismo fiscale statale e locale è cresciuto e cresce a dismisura per finanziare una spesa pubblica caratterizzata da sprechi, da clientelismo, da ruberie. Il federalismo fiscale si è rivelato una truffa. Doveva essere a costo zero. Invece si sono quadruplicate le tasse locali; il fisco regionale è salito di 30 volte; il servizio sanitario è peggiorato; è difficile ed arduo elencare tutte le tasse occulte che continuano a proliferare a livello locale.
L’infausta riforma del Titolo V della Costituzione ha moltiplicato i centri di spesa privi di controlli dal centro: sono 23 mila con conseguenze paradossali. Nel Lazio l’eliminazione di cinquemila posti letto ha comportato per la Regione un aumento del 17 per cento della spesa per l’acquisto di beni e di servizi.
I blocchi delle assunzioni sono stati aggirati. Sono nate migliaia di società controllate dagli Enti locali, con moltiplicazioni di competenze, sovrapposizioni di funzioni, sprechi mostruosi.
La Corte dei Conti ha calcolato che queste società occupano 255 mila persone ed hanno 38 mila tra consiglieri di amministrazione, alti dirigenti, revisori contabili. In media ognuna di queste imprese ha 68 dipendenti e addirittura 12 persone in posizioni di comando. Ad esempio, il Comune di Roma ha 62 mila dipendenti, di cui 37 mila sono occupati nelle municipalizzate o nelle aziende partecipate.
Un ulteriore e clamoroso caso di spreco è quello della Cassa per il Mezzogiorno. È stata soppressa nel 1993 dal ministro Beniamino Andreatta. È riuscita a sopravvivere. È ancora diretta da un Commissario ad acta. Via via in questi venti anni i vari Governi le hanno assegnato funzioni e finanziamenti. È così divenuta titolare degli interventi irrigui nelle aree depresse; di progetti promozionali nel settore del Mezzogiorno interno; della forestazione e... della valorizzazione dei prodotti agricoli tipici con la concessione di contributi alle produzioni mediterranee di qualità. L’ultima iniziativa, di qualche mese fa, si è concretata addirittura nell’apertura delle «strade della mozzarella». Esiste una cronica incapacità ad intervenire sulla spesa pubblica. Accanto allo Stato lo spreco coinvolge anche le Amministrazioni locali (Regioni, Comuni e Province) che, incapaci o impossibilitate, ad operare in quella direzione per le diffuse resistenze politiche e per i condizionamenti asfissianti della politica, sanno solo inventare nuove tasse, consistenti imposte, incredibili gabelle.
Poco o niente si fa sul fronte della Spesa Pubblica, ma poco si realizza anche nella Politica Fiscale. L’Italia è al Top Ten in Europa per le tasse. La pressione fiscale è al 44 per cento; la pressione effettiva (incidenza di imposte e contributi sugli utili di una piccola e media impresa) al netto del sommerso al 68,3 per cento. Modesti sono i risultati dell’azione di contrasto all’evasione fiscale. Leonardo Sciascia a suo tempo aveva rotto il conformismo denunciando «i professionisti dell’antimafia» che facevano carriera politica evocando la lotta alla mafia senza in realtà compiere fatti ed atti concreti per combatterla e per vincerla. Lo stesso si può oggi dire della lotta all’evasione fiscale. Ci sono molta retorica, molta indignazione, molti luoghi comuni. Se ne parla da anni. Sono state approvate norme sempre più severe ed invasive. Sono state predisposte campagne più o meno terroristiche. Ma i risultati non ci sono. Si calcola che l’evasione raggiunga ormai i 180 miliardi. Si ammette, anzi si confessa che il recupero è stato nel 2012 appena di 10 miliardi di euro. Una somma che è composta in gran parte da sanzioni, da introiti una tantum, da multe. La base imponibile non si è allargata. Una parte non irrilevante dei cittadini è ignota al fisco.
Nel 2013 l’Agenzia delle Entrate prevede 700 mila accertamenti con un recupero di 12 miliardi, rispetto ai 10 miliardi del 2011 e agli 8 del 2010. Eppure l’agenzia delle Entrate e la Guardia di Finanza dispongono di strumenti eccellenti ed efficaci. Se i dati rimangono così, va fatta qualche autocritica. L’aver puntato tutto sul terrorismo fiscale e sulla repressione sta determinando effetti controproducenti. Di fronte ad uno Stato che lo considera come un evasore il cittadino non collabora più nella lotta all’evasione fiscale, stordito dalla complessità dei provvedimenti fiscali, dalla loro astrusità, dalla violazione sistematica dello Statuto del Contribuente, dall’arroganza e dalle soperchierie.
Sui paradisi fiscali in Europa (Irlanda, Andorra, Isole del Canale, Belgio, Olanda, Inghilterra, Lussemburgo, Monaco, Svizzera, Austria, Ungheria) si è fatto e si fa troppo poco. Sulla finanza, sui giochi di prestigio delle multinazionali e sui soldi portati all’estero si è stati poco determinati. La Guardia di Finanza e l’Agenzia delle Entrate hanno le professionalità per violare i santuari. Ci vuole solo la volontà politica, senza guardare in faccia nessuno, senza complessi di inferiorità nei confronti dei Paesi che sono nella lista dei paradisi fiscali.
Il discorso va portato in Europa, se necessario anche battendo i pugni sul tavolo perché quella è ricchezza che viene sottratta al nostro Paese. È l’atteggiamento che deve cambiare, che deve essere convinto. Per ragioni ideologiche non si è capaci di costruire nel nostro Paese una normativa agile, moderna, intelligente che possa consentire di utilizzare, come avviene nel resto del mondo, strumenti idonei per svolgere attività complesse in una economia ormai globalizzata.
Il valore dell’evasione in Europa è enorme. È in miliardi di euro: 2.499 in Germania; 1.933 in Francia; 1.697 nel Regno Unito; 1.549 in Italia; 1.063 in Spagna. Le tasse perse dall’erario italiano superano i 180 miliardi. I soldi sottratti alla Ue sono mille miliardi, di cui circa il 20 per cento riguarda l’Italia. Con la crisi la ricchezza vola nei paradisi fiscali. Le finanze custodite nelle aree a bassa fiscalità sono cresciute del 6,1 per cento rispetto al 2011. Nei forzieri dei paradisi fiscali sono stipati 8.500 miliardi, in pratica il prodotto interno d’Italia. Le riforme annunciate sono rimaste al palo. Il Paese si trova di fronte a misure abborracciate. Contraddittorie. Casuali. Inutili. Ingannevoli. Così, inevitabilmente, l’unica strada percorribile è diventata quella del progressivo, inesorabile aumento del prelievo fiscale. Il fisco è ingiusto. È violato platealmente l’art. 53 della Costituzione: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività».
Il malessere è crescente. Protestano i giovani ai quali giorno per giorno vengono tolti i diritti; protestano le famiglie e i contribuenti onesti che si trovano ad affrontare lo stillicidio di tasse, imposte, balzelli; protestano le imprese che non riescono a contare sul credito; protesta la società per il peso della burocrazia, per la corruzione e l’affarismo dilagante. Si parla in questi mesi di una nuova riforma fiscale. Il Parlamento ha proceduto speditamente per definirne i criteri. L’intesa sembra unanime. La previsione è che si ripeterà quello che è avvenuto in passato. Non si farà nulla per «eccesso di consenso». Eppure per contrastare l’evasione, l’elusione e l’erosione fiscale (le tre terribili «e» evocate da Bruno Visentini) è importante realizzare una ripartizione più equa del carico fiscale sulle famiglie, sui redditi da lavoro dipendente, sui pensionati, sull’industria manifatturiera. Non è accettabile che l’Italia diventi un paradiso fiscale per chi evade ed un inferno per la maggioranza dei contribuenti.
Negli ultimi anni è cresciuto il senso civico degli italiani, c’è un generale consenso ad iniziative anche clamorose per colpire l’evasione fiscale, ci sono strumenti tecnologici sofisticati per portare allo scoperto le risorse occultate dagli evasori fiscali. I risultati sono però troppo modesti. Il costoso apparato burocratico, tranne le dovute eccezioni, si dimostra forte con i deboli e debole con i forti.
Negativa è anche la politica fiscale per le imprese. Le aziende sono soffocate. Il 70 per cento della ricchezza prodotta dall’azienda va al fisco. La Banca Mondiale indica per il sistema manifatturiero un tax rate del 68,5. Se a ciò si aggiungono i biblici ritardi nei pagamenti delle Amministrazioni pubbliche e l’eccesivo costo del credito, si capisce come in queste condizioni creare lavoro sia sempre più difficile, quasi impossibile.
L’handicap delle aziende italiane è enorme: se operassero all’estero avrebbero una redditività tre volte superiore. Il sistema di tassazione, il costo del lavoro sono notevolmente superiori alla media degli altri Paesi. Si paga inoltre il ritardo nelle mancate riforme, nell’energia e nei servizi. Si devono fare i conti con una Pubblica Amministrazione ipertrofica, inefficiente, ostaggio di burocrazie, di clan, di lobby. La situazione si è aggravata: non solo non arrivano più investimenti dall’estero ma molte imprese italiane emigrano in altri Paesi dove le condizioni sono più vantaggiose e soprattutto idonee a garantire la competitività. Non vanno via dall’Italia solo le aziende, emigrano talenti e professionalità.
La lotta all’evasione fiscale, nonostante l’impegno delle Agenzie fiscali, della Guardia di Finanza, di Equitalia, non dà i risultati sperati. I dati recentemente comunicati in Parlamento dal viceministro Luigi Casero sono allarmanti. In 13 anni, dal 2000 al 2012, il fisco è riuscito ad incassare solo 69 miliardi sugli 800 dovuti (di cui 193 sgravati per cartelle errate dell’Agenzia o del commercialista). L’80 per cento di quella cifra incredibile è riferibile a 121.409 superdebitori iscritti a ruolo per 452 miliardi. Dove sono? Si sono dati alla macchia? Chi sono? Esperti in artifici, trucchi, scatole cinesi? Introvabili perché all’estero o deceduti? Interrogativi che rimangono senza risposta. Ha dichiarato l’onorevole Casero che di quella cifra enorme gli incassi in concreto potranno essere solo 55 miliardi di qui al 2024. Sessantanove sono i miliardi recuperati. Sono una goccia nel mare.
In questo scenario il Governo delle grandi intese procede con molta difficoltà. La politica fiscale è sinora incerta. Si sono prorogati di qualche mese il pagamento dell’Imu e l’aumento dell’Iva. L’operazione è stata finanziata con una serie di nuove tasse o meglio di piccole gabelle. Potremmo alla fine avere come risultato beffardo che a dicembre rimarranno le nuove tasse e scatterà lo stesso il pagamento dell’Imu e l’aumento dell’Iva. L’Imu è una imposta iniqua. Non è basata sul reddito ma sul valore della casa. È sperequata perché colpisce i redditi più bassi: non è progressiva ma proporzionale. Il catasto che deve essere alla base del calcolo della rendita non è aggiornato e non è controllato. Proliferano le finte prime case. Gli edifici rurali (ville in campagna, villini, tenute, fattorie, etc.) risultano al catasto come stalle o come capanne, con le piscine considerate vasche di irrigazione e i campi da tennis definiti «battute per le mandorle».
La maggior parte delle abitazioni di pregio è accatastata sotto altre voci. I casi clamorosi si osservano nei centri storici, ove le case sono ancora considerate prive di servizi igienici: a Roma ci sono molti appartamenti in Piazza Navona e in Piazza di Spagna accatastati come case popolari, e abitazioni nuove nella periferia che pagano tariffe residenziali. Tutto ciò è inconcepibile. In 20 anni sono stati fatti accertamenti, controlli incrociati, verifiche aerofotogrammetriche, è stata costituita l’Agenzia del Territorio. Nessun risultato. Basterebbe saper utilizzare le piantine di Google: non c’è volontà politica, ma un sistematico sabotaggio all’aggiornamento del Catasto. Troppi inconfessabili interessi, connivenze, opportunismi.
L’ulteriore aumento dell’Iva, come è ampiamente dimostrato, aggraverà gli aspetti recessivi dell’economia con effetti pesanti sull’inflazione. Non aumenteranno le entrate, si rafforzerà la spinta al sommerso, crollerà la domanda interna. È una strada senza ritorno. L’Europa non pone problemi sugli aumenti Iva: ogni riduzione deve essere invece autorizzata, perché è sul gettito di quella imposta che vengono calcolati i finanziamenti all’Europa. Per concludere, più che fare piccoli passi si deve pensare ad un grande disegno. Il Governo delle grandi intese non deve trasformarsi nel Governo delle lunghe attese, dei continui rinvii, delle grandi baruffe. Insomma il Governo del fare non deve essere il Governo del dire.
La svolta della politica economica si realizza mutando il rapporto tra spesa ed entrate che va riequilibrato. Il sistema fiscale deve essere equo ed intelligente, orientato allo sviluppo e alla solidarietà. Così riacquisteremo credibilità ed autorevolezza per ritornare da protagonisti nella battaglia per la realizzazione dell’Europa sociale e politica.
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