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dipendenza da cibo e obesità, conseguenze di una crisi globale

di LUCIANO CAGLIOTI Professore Emerito dell’Università Sapienza di Roma

di LUCIANO CAGLIOTI, professore emerito dell’università Sapienza di Roma

I tempi che corrono ci stanno abituando al vocabolo in voga, «crisi»: crisi economico - finanziaria, crisi ambientale, crisi energetica, crisi di approvvigionamento idrico, crisi sanitaria. Un po’ come se di colpo i vari scenari negativi che possono colpire il pianeta e i suoi abitanti avessero «deciso» di scatenarsi tutti insieme in una sorta di «crisi delle crisi» alla quale, proprio per questa simultaneità, è difficile dare un’appropriata risposta. 

Le crisi possono derivare da carenza, come sopra esemplificato, ma paradossalmente anche da eccesso. È il caso dell’alimentazione, che sta colpendo la specie umana attraverso due modalità-limite: c’è una frazione affamata ed una che mangia troppo. Per quanto riguarda la prima delle due modalità, la fame, le cause sono ovvie. Meno ovvie invece sono le cause dell’obesità. Per dare una idea delle quantità in gioco, in Italia le persone in soprappeso si aggirano sul 35-40 per cento mentre quelle obese sull’8 per cento. Non basta dire che «chi ingrassa mangia di più di chi non ingrassa», o programmare una drastica riduzione del welfare nei confronti delle persone soprappeso come propongono gli inglesi.
È ovvio che questo avvenga, ma un esame scientifico della situazione, degli aspetti qualitativi oltre che quantitativi, delle abitudini, sta mettendo in luce fenomeni inattesi e talvolta inquietanti. Con una premessa: per quanto riguarda i dati statistici ci si riferisce qui soprattutto agli Usa, che peraltro sono una sorta di mosca cocchiera per quanto riguarda il sistema alimentare mondiale. Chi frequenta ad intervalli gli Usa ha la sensazione visiva di un aumento del fenomeno, e la domanda che ci si pone è come mai, a differenza di quanto accade per le vie di Roma, negli Usa una percentuale non trascurabile di passanti giri con un bicchierone in mano ed una cannuccia assorbendo calorie delle quali, almeno a giudicare dall’aspetto, non sembra abbia bisogno, ma delle quali sembra che letteralmente non possa fare a meno. E da studi condotti in varie università statunitensi appare chiaro che alcuni alimenti vengono considerati più appetibili di altri.
Molto interessante sotto questo aspetto è il saggio di David Kessler «The End Of Overeating» («Instant New York Times» Bestseller) che affronta il problema in modo accessibile ed esauriente. Dall’insieme dei dati riportati risultano conclusioni in qualche modo sconcertanti. Innanzitutto, che alcuni cibi risultano più appetibili (viene molto usato il termine «palatabile») di altri. Cibi ai quali «non è facile resistere, che provocano il desiderio di mangiarne sempre di più». E la tendenza indica, in prospettiva, un continuo aumento dei consumi di questi alimenti. Ma la cosa più interessante ed inquietante al tempo stesso è che dalle osservazioni «sul campo» risulta che i cibi più palatabili «contengono qualche combinazione di sale, zuccheri e grassi». Le proprietà sensoriali di questi cibi «palatabili» fanno sì che essi stimolino l’appetito fino a poter essere definiti come iperpalatabili. Al punto che se ne mangiano in quantità superiori a quelle necessarie per saziare la fame. Diventa una specie di irresistibile abitudine, per non usare i vocaboli «assuefazione» o «dipendenza». Questa osservazione non è sfuggita agli scienziati che, dopo attenti studi, hanno potuto concludere che «i neuroni del cervello che vengono stimolati dal gusto e da altre proprietà dei cibi fortemente palatabili fanno parte del circuito degli oppioidi, che è il sistema primario del piacere». In altri termini lo stesso circuito che determina la dipendenza da morfina, eroina, tabacco ecc. E ancora: «Stimolare questo circuito con il cibo porta a mangiarlo».
Una vera e propria dipendenza? Qualche segnale in questo senso sembra esserci, anche considerando lo stato d’animo di alcune delle persone intervistate dall’autore del libro. Risulta da queste confessioni una lotta: «Io non voglio mangiare, ma non posso controllare il desiderio di farlo». O anche: «Sono ossessionata dal cibo. Mi sento totalmente fuori controllo». O ancora: «Mangio quando ho fame. Mangio quando non ho fame. Mangio per festeggiare, mangio quando sono triste. Mangio di notte». Da quel che si può capire, un’ossessione che sembra avere la capacità di annullare la volontà.
E le conseguenze sono osservabili nelle statistiche che affermano che «il peso degli americani sta aumentando in modo drammatico e generalizzato, senza distinzione di sesso o di etnie». Sarà una combinazione, ma la Fiat 500 degli anni 50 era molto più piccola della nuova eppure i ragazzi di allora riuscivano ad entrarvi in cinque. E i fabbricanti di mobili, auto, aerei si stanno ponendo il problema di un aumento della «stazza» della clientela. Si può discutere tutto, ma di certo quella che su alcuni organi di stampa è stata definita come la vera pandemia odierna sta avanzando nell’ambito di un sistema, quello alimentare, caratterizzato da aspetti psicologici e patologie di estrema delicatezza.
Con una propaganda che mitizza taluni cibi, certo non assimilabili all’innocua pasta e fagioli della nonna. Il pericolo è la diffusione di un sistema alimentare tecnologico, globale, non sufficientemente controbilanciato da quella che viene chiamata «dieta mediterranea», che sembra costituire un’alternativa valida qualitativamente, ma non ancora diffusa in misura quantitativamente adeguata.   

Tags: Settembre 2013 sanità alimentazione cibo tutela della salute alimenti Luciano Caglioti

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