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USCIRE DALLA RELIGIONE DEL RIGORE

«È di coraggio non di autocompiacimento che abbiamo bisogno oggi, di leader non di imbonitori». La frase sembra tagliata a misura sulla situazione che stiamo vivendo. In realtà è stata pronunciata cinquantatré anni fa da John Fitzgerald Kennedy davanti alla Convention Democratica che gli consegnava la candidatura presidenziale. Il suo avversario era Richard Nixon passato poi alla storia per il Watergate.
Kennedy le elezioni le vinse e fu un successo storico, il primo cattolico in una Casa Bianca che era riservata ai wasp, white anglosaxon protestant. Kennedy era bianco ma non protestante e portava dentro il soffio di una modernità travolgente. Fu per l’America e per il mondo intero una scelta innovativa. Nel discorso della Nuova Frontiera, poneva problemi veri e complessi, cercava soluzioni serie e articolate. Il suo messaggio, replicato oggi, forse non farebbe guadagnare consensi: «La Nuova Frontiera di cui parlo non è fatta di promesse che io intendo offrire al popolo americano, bensì di quel che intendo chiedere al popolo americano».
Probabilmente in Italia, dove le campagne elettorali si sono trasformate in un’asta di promesse con i «battitori» che alzano sempre di più la posta, a metà della frase la platea si sarebbe svuotata. Quello è stato un momento di grande vitalità per l’America e per il mondo. E quel che Kennedy disse allora ha ancora una grandissima validità perché ci sono valori, ci sono proposte che attraversano il tempo, che non hanno una data di scadenza come quella che si accompagna ai cibi.
Kennedy pensava alla Frontiera, ai pionieri, guardava l’orizzonte, una distesa di migliaia di miglia; noi fatichiamo persino ad avere una idea compiuta anche dei confini del nostro condominio: a volte anche girare l’angolo ci sembra un’impresa altamente avventurosa. Lentamente l’Italia sta diventando illegale nel senso che c’è una separatezza insopportabile tra le istituzioni: progressivamente stanno venendo meno la coesione e la solidarietà che sono collanti essenziali del vivere insieme. Ma la gente di tutto questo non ha colpa.
Accade che in un momento di gravissima crisi, tutti quanti immaginano di camminare in un tunnel buio: non vedono l’uscita, non vedono un raggio di sole che conforti e rassicuri. Non solo non si è felici, non solo non si è appagati, ma si è soprattutto rassegnati. Manca la speranza. Si guarda attorno e il panorama non conforta. Si fa appello ai valori costituzionali che sono sempre validi ma poi ci si scontra con un bipolarismo sgangherato, che non esiste: era nato perché c’erano tanti partiti, sette, e adesso fioriscono come limoni, una ventina. Le istituzioni sono screditate e vengono vissute con imbarazzo, con fastidio. Ci vorrebbe un cambiamento di rotta. Bisognerebbe abbandonare la strada di questo leaderismo fatto di «Uomini della Provvidenza» che non si sono mai rivelati provvidenziali e ricostruire una società in cui la vita associativa, collettiva si esprime e si esalta nelle organizzazioni rappresentative.
Va ricostruita la spina dorsale del Paese che col tempo è venuta meno. Non si può pretendere di applicare la Costituzione se poi gli strumenti che dovrebbero favorire quella attuazione prescindono dalla stessa. A quel punto, delle due l’una: o cambi la Costituzione o riporti tutto il resto in quell’alveo. Come si può, ad esempio, coniugare l’attuale sistema elettorale con la nostra Costituzione. I padri costituenti nella costruzione del meccanismo elettorale furono coerenti. L’incoerenza è venuta dopo. Non si possono tenere i due piani separati: oggi la riforma elettorale e domani la riforma della Costituzione.
Qualunque legge elettorale oggi si possa realizzare, deve fare i conti con un bicameralismo perfetto che rallenta le decisioni, «incarta» la dinamica parlamentare, non soddisfa quelle esigenze di efficienza e rapidità che un mondo così interconnesso pone. Quel disegno costituzionale aveva una sua logica: si veniva dal fascismo, i confini in cui il mondo era diviso erano decisamente robusti, le scelte più che alla rapidità delle decisioni si ispirarono al ricordo del passato che era peraltro estremamente prossimo; era prevalente il bisogno di creare un sistema di pesi e contrappesi che evitasse una ricaduta in quella ventennale malattia che aveva afflitto e debilitato il Paese conducendolo in una avventura tragica come la guerra.
Bisogna ora rivedere la Costituzione. Il bicameralismo va superato e, d’altro canto, così perfetto è ormai una peculiarità italiana. Bisogna dare maggiori poteri al Presidente del Consiglio e occorre aumentare il peso delle autonomie locali. Insomma, il quadro di riferimento può essere un semi-presidenzialismo alla francese. La Francia è il modello migliore per la cultura, per le dimensioni stesse del nostro Stato. Poi ci si può guardare attorno, vedere se esistono altri modelli che garantiscono contemporaneamente efficienza, rapidità di decisioni e saldezza dei princìpi democratici. La Costituzione, ripeto, è nata in un particolare momento. Era stata riconquistata la libertà, si abbracciava completamente, anche grazie al suffragio universale maschile e femminile, una idea democratica a cui non si era particolarmente allenati.
La polemica sull’inciucio, parola onomatopeica e piuttosto sgraziata, sulla grande coalizione vissuta da molti come un insulto più che come una necessità, riapre una questione antica ma irrisolta: quella della legittimazione reciproca. Ma contemporaneamente solleva anche un dubbio. La destra e la sinistra italiane non hanno conosciuto la loro Bad Godesberg. Fondamentale è il ritorno dei partiti, quelli veri. C’è un problema irrisolto. La reciproca legittimazione è fatta di simboli che poi tanto simbolici non sono. In Francia, il 14 luglio è festa per Hollande e per Sarkozy. In Italia, il 25 aprile, il giorno in cui l’Italia ritorna libera, lo è per alcuni, altri la vivono con fastidio, altri ancora la detestano. È pensabile che questa nostra democrazia possa diventare matura se non riesce nemmeno a condividere la sua data di nascita?
Da noi tutto viene vissuto in negativo. Per superare quelle divisioni ormai storiche bisognava cancellare da un lato gli errori dei partigiani, dall’altro quelli dei «ragazzi di Salò». La sinistra ha le proprie colpe perché per troppo tempo ha consegnato la difesa della Patria all’altra parte. Da questo punto di vista, tre persone hanno scardinato questo modo di intendere: Sandro Pertini, Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano. Ci siamo portati dietro per molti anni un retaggio della fase precedente alla guerra, quando nello Stato liberale i partiti non si riconoscevano e non venivano riconosciuti nemmeno i sindacati.
L’avvento del fascismo ha reso ancora più forte quella rottura. La Liberazione non è un «fatto di sinistra», è un momento di identificazione. La conferma che si tratta di questo è venuta dalla Costituzione: tutti si sono identificati in quel testo e quella legge è stata varata anche quando socialisti e comunisti erano già usciti dal governo. In Italia il campo della sinistra è stato egemonizzato dal Pci e quella situazione ha impedito la nascita di un vero partito riformista europeo. L’esaltazione della Patria, in questo contesto, è diventata monopolio della destra. Pertini, uomo della Liberazione, rimise tutto in movimento quando cominciò a onorarla baciando la bandiera; Ciampi, anche lui formatosi in quell’agone storico-politico all’ombra del Partito d’Azione, ha rilanciato quell’inno che veniva dileggiato e da molti considerato una brutta marcetta; Napolitano, con i festeggiamenti per il 150esimo anniversario dell’Unità, ha tenuto insieme un Paese già sfibrato dalle difficoltà.
Si è parlato molto di pacificazione a proposito delle «larghe intese». Il fatto è che in Italia la pacificazione avviene attraverso la rimozione: si annulla tutto, il buono e il cattivo, il positivo e il negativo. È una storia che ricorda quella del Pci che in Italia non voleva essere socialista ma in compenso voleva esserlo all’estero, tanto è vero che entrò anche nel Pse (Partito Socialista Europeo). Il problema è sempre lo stesso: l’identità. La sinistra deve avere la sua forte identità. Non si contrasta la Lega o il Movimento 5 Stelle imitandoli, inseguendoli.
Il Paese appare economicamente sempre più in mezzo al guado: la disoccupazione ha superato il record storico del 1995 e sotto il 9 per cento non tornerà prima del 2020. Il Pil ricomincerà a crescere stabilmente solo a partire dal 2016 e a quei ritmi di crescita ci vorranno quattordici anni per recuperare quel che in queste lunghe stagioni di crisi abbiamo perduto. È il bollettino di una guerra perduta. Si deve uscire dalla religione del rigore. Coniugare il rigore con una politica selettiva degli investimenti. L’esperienza del Giappone qualcosa dovrebbe insegnare. Quel Paese è rimasto bloccato per quindici anni dalla politica di austerità. Adesso sta riemergendo avendo aggiustato la rotta.
Torniamo al discorso di Kennedy o, ancor di più, a quello con cui Roosevelt avviò il New Deal. Può il nostro Paese limitarsi al piccolo cabotaggio: un po’ di lavoro, qualche alleggerimento fiscale, un minimo di protezione sociale? Manca nella proposta politica l’idea di una società nuova, di un percorso, anche complicato, anche doloroso, ma capace di portare non semplicemente fuori dal guado, ma dentro una realtà migliore di quella che abbiamo lasciato alle nostre spalle. Bisogna indicare una direzione di marcia, una prospettiva. I sacrifici possono anche essere chiesti ma alla gente si deve spiegare perché e con quali finalità vengono richiesti. Il nostro non è un Paese estremista: il rischio è di identificare le posizioni estreme con quelle dominanti.
Il premio Nobel, Joseph Stiglitz, spiega che l’avanzata del liberismo con l’abbattimento «seriale» delle regole è stata agevolata fornendo dei sindacati l’immagine, negli Usa e in Europa, di organizzazioni votate alla creazione di rigidità. E, in effetti, negli anni Ottanta vi sono state vertenze-simbolo: quella dei controllori di volo di Reagan e quella dei minatori della Thatcher. Il sindacato, in qualche maniera, è stato dichiarato colpevole senza processo e probabilmente senza colpe.
Si tratta di una impostazione datata. Oggi manca una certa apertura mentale, e non solo da parte dei sindacati. Siamo fermi ai primordi del confronto, ai tempi in cui il rapporto tra i datori di lavoro e le organizzazioni dei lavoratori era basato sulla diffidenza reciproca. In questa maniera ci si è astenuti dall’esplorare quelle aree in cui il confronto poteva essere non conflittuale. Ancora oggi la sola idea che un’intesa possa portare dei vantaggi all’imprenditore, fa scattare una sorta di richiamo della foresta.
Al posto di nemici, si deve parlare di soggetti «distinti», persone con interessi diversi tra le quali su alcuni temi si possono trovare soluzioni pacifiche mentre su altri rimarrà la conflittualità. Ci sono spazi da percorrere insieme. Un esempio: in molti posti di lavoro si organizzano contratti di solidarietà per far fronte alla crisi. Ma cosa impedisce di utilizzarli anche nelle fasi di espansione per favorire l’occupazione? Sì, bisogna aggiornare un po’ il lessico accettando parole come partecipazione, collaborazione, conti economici in equilibrio, competitività. La crisi ha favorito in alcune zone del nostro Paese la celebrazione comune del Primo Maggio di lavoratori e di datori di lavoro insieme. È possibile che qualcuno abbia interpretato la cosa in maniera strumentale, come un modo per fare pressione sui cordoni della borsa statale. Però è una novità interessante.
Stiglitz riporta alcuni dati che riguardano gli Usa ma che non sono molto dissimili da quelli europei. Dal 1949 al 1980 salari e produttività sono cresciuti di pari passo. Per quindici anni, poi, i salari sono rimasti fermi mentre la produttività è cresciuta; a partire dal duemila i salari sono tornati a crescere ma in misura decisamente inferiore alla produttività. Alla fine c’è chi ci ha guadagnato e chi ci ha rimesso.
Anche sulla produttività non si riesce a fare un discorso compiuto perché, alla fine, se ne parla solo a livello centrale. Ma la realtà è che avremmo bisogno di meno leggi e più contrattazione. Si deve contrattare con un obiettivo: volere una azienda che dia più soldi, volere un’azienda che dia più occupazione. Ma non si può pensare che l’aumento dell’occupazione possa essere favorito solo dal vantaggio fiscale garantito per i neo-assunti. È il sindacato che attraverso la contrattazione deve affrontare le rigidità per ottenere più occupati. Non c’è nulla che non si possa toccare ma tutto va negoziato. E bisogna farlo soprattutto a livello aziendale.

 

Tags: Luglio Agosto 2013 Giorgio Benvenuto

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