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Combattiamo l’avvocato virtuale e i negozi di strada

di MAURIZIO DE TILLA presidente dell’associazione nazionale avvocati italiani

L'esercizio della professione forense sta cambiando vertiginosamente. Si rischia lo stravolgimento della funzione dell’avvocato. Nei mesi scorsi ho partecipato a Bruxelles al Congresso europeo degli Ordini Forensi nel quale l’unico tema all’ordine del giorno era il seguente: «L’avvocato virtuale». Hanno svolto una relazione alcune colleghe belghe che hanno riferito che si stanno formando dei raggruppamenti di avvocati, centinaia e centinaia di soggetti, che non hanno un ufficio perché questo costa, che non hanno una segretaria perché costa, che non hanno una biblioteca perché costa. Questi avvocati, molti giovani, si sono raggruppati in sigle virtuali che funzionano bene perché la clientela risparmia, la gente si collega con il sito e i cittadini hanno delle risposte inadeguate e di poca attendibilità. Naturalmente non si sa quali avvocati stiano dietro al sito degli «avvocati senza volto».
In Italia il fenomeno sta per arrivare, se non è già arrivato. E nessuno di noi dice niente. Le istituzioni forensi tacciono. Il che ci sembra gravissimo. Bisogna subito intervenire per vietare lo «studio virtuale» imponendo regole deontologiche che devono essere rispettate. Sui nostri tavoli è arrivata anche un’altra «idea pericolosa», portata avanti da quei gruppi di avvocati di strada che hanno telefonato ad avvocati specialisti, ed anche di riguardo, e hanno detto: «Noi procuriamo i clienti e voi svolgete l’attività professionale», quindi una specie di intermediazione, un po’ come i solicitors rispetto ai barristers.
Larga parte di una recente trasmissione di Sky è stata dedicata ai «negozi forensi di strada». Ce ne sono centinaia, con le vetrine e i cartelli: «Prima consulenza gratis, anticipo delle spese ecc.». Un avvocato intervistato ha detto: «È questo un modo di esercitare la professione di avvocato per incrementarne il lavoro». I colleghi che stanno nei «negozi» dicono: «Noi qui lavoriamo bene e arrivano molti clienti». Sono stato in una città della Toscana e, quando ho criticato questo modo di esercitare l’attività forense, un giovane collega mi ha contestato affermando: «Come mi posso procurare la clientela se non in strada?». Ho risposto: «È un vecchio mestiere, quello di andare in strada a procurarsi la clientela».
Mi ricordo di aver visto nelle pagine degli elenchi telefonici di Chicago che gli studi legali, dopo l’indicazione di tutte le specializzazioni, esibivano delle ragazze in topless. Altro che innovazione! Con la pubblicità senza limiti per attrarre clientela si sta sconvolgendo, nel mondo anglosassone l’attività di avvocato. In Francia esiste una professione più rigorosa, perché sono 48 mila gli avvocati. In Italia con 230 mila avvocati è difficile per i giovani procurarsi clienti se non ricorrendo a stratagemmi di tutti i tipi, che ledono l’etica forense.
Molti degli studi internazionali sono in franchising. Roberto Rossi, nome di fantasia, ha la targhetta inglese e non ha più un cognome italiano. Gli ho chiesto: «Scusa, ma hai cambiato cognome?». E lui mi ha risposto: «Ho conferito il mio studio ad una multinazionale; percepisco solo le cedole, non tratto più con i clienti». Vi sono delle «sigle straniere» che hanno guadagnato molto denaro. In queste sigle internazionali i litigators, cioè gli avvocati che difendono nei processi, sono marginali. I grandi studi hanno dato consulenza a tutto il capitalismo finanziario. Gran parte dei grandi studi sono stati vicini alla finanza creativa e lì alcuni hanno fatto guadagni incredibili. Qualcuno ha anche coltivato l’abuso del diritto europeo, favorendo implicitamente l’evasione fiscale e c’è anche chi ha emesso fatture all’estero e non le ha denunciate in Italia.
Poi abbiamo un’ulteriore configurazione da prendere in esame, quella dell’avvocato dipendente che rilascia la fattura, ma è nella sostanza legato al dominus da un vincolo di subordinazione. Ciò può andare bene per un giovane per un limitato periodo: si compie una buona esperienza. Ma non va bene per chi vi rimane dipendente per tutta la vita. E non va bene nemmeno come pratica professionale, perché spesso non vedi il cliente, non vai in Tribunale, non vedi le difficoltà e i pericoli dell’esercizio della professione. Puoi guadagnare anche 5 mila o 6 mila euro al mese, ma non è questa la libera professione di avvocato. Su queste premesse non possiamo consentire alcun cedimento sulle tariffe e sui minimi, sulla necessaria assenza dei soci di capitale, sulla consulenza legale esclusiva, sulla selezione nell’accesso.
Non cediamo sul socio di capitale, che è il più inquietante inquinamento che possiamo avere, perché chi dà i capitali può appartenere alla criminalità organizzata, ovvero può finanziare diecimila negozi di strada snaturando l’identità dell’attività forense. Non cediamo di una sola virgola. La normativa che prevede le società di capitali con i soci di capitale va modificata immediatamente.
Non siamo d’accordo sui parametri che riducono la remunerazione degli avvocati. Gli avvocati non vogliono essere trattati alla stregua di una collaboratrice domestica, con la paga oraria. Si sta, infatti, pensando alle tariffe orarie che negli Stati Uniti costituiscono spesso un abuso. Il titolare dello studio ha la propria tariffa, pari a mille euro all’ora, mentre i suoi collaboratori percepiscono una tariffa di 50 euro. Si conosce che cosa succede in America? Me l’hanno riferito gli avvocati americani: si rivolge allo studio un cliente, si concordano 500 ore per il titolare dello studio e 500 ore per il lavoro dei collaboratori. In realtà il titolare dello studio lavora 100 ore e i collaboratori lavorano le restanti 900 ore.
La paga oraria è un rebus. I parametri non possono essere in forte diminuzione in raffronto con le tariffe. Alle tariffe gli avvocati non possono rinunciare. Così come vogliamo una riforma forense che garantisca il numero chiuso e una forte selezione nell’accesso. Se noi vogliamo evitare la deriva, dobbiamo combattere una grande battaglia sui requisiti necessari, perché vi sia una prestazione di qualità e vi sia un avvocato qualificato e di alto livello deontologico. Non vogliamo il declino morale della professione di avvocato, né che il professionista sia paragonato a un imprenditore. Questa concezione lasciamola ai poteri economici. Noi, come avvocati che crediamo nella professione, continuiamo a credere nella nostra identità tradizionale, senza inflessioni e senza mercantilismo.    

 

L’appello cassatorio elimina di fatto il secondo grado

Si deve esprimere forte preoccupazione riguardo ai nuovi interventi sul processo civile, finalizzati esclusivamente a rendere ancor più difficoltosa la tutela dei diritti dei cittadini e delle imprese. Questo ulteriore e disorganico tentativo di riformare a costo zero il processo, che non è difficile pronosticare si tradurrà a breve nell’ennesimo fallimento, si muove su due direttrici: da un lato un ulteriore intervento sulle impugnazioni, con previsione di un «filtro» in appello e con la sostanziale eliminazione della possibilità di ricorrere in Cassazione per vizio di motivazione ex articolo 360 comma primo n. 5 del Codice di procedura civile, dall’altro la riduzione delle ipotesi di risarcibilità dei danni da irragionevole durata del processo, in base alla legge Pinto, oltre che dell’entità dei risarcimenti.
Non si può che manifestare la più netta contrarietà ad interventi che si intende adottare ancora una volta con l’anomala forma del decreto legge, pur in totale assenza degli indispensabili requisiti di urgenza e al solo scopo di soffocare il dibattito parlamentare che appare essenziale in materie così rilevanti per i diritti dei cittadini, e senza il necessario confronto con l’Avvocatura e con la Magistratura, che quelle norme sono chiamate ad applicare quotidianamente.
Ma, a parte la non condivisione del metodo di intervento in materia del processo, ispirato da sempre meno credibili ragioni di tipo economico, visti i ripetuti fallimenti di tutti i precedenti tentativi, è nel merito che si manifesta la totale inutilità e dannosità degli interventi. Le norme processuali non possono essere costantemente e ripetutamente stravolte, senza una strategia di assieme e per mere ragioni economiche, che non tengono conto che la giustizia è un diritto primario del cittadino costituzionalmente riconosciuto, e che le riforme, soprattutto in un settore che gli economisti ritengono così determinante e strategico per lo sviluppo del Paese, non possono essere eseguite a costo zero, ovvero addirittura con continue riduzioni di risorse economiche e umane, ma richiederebbero cospicui investimenti.
Si ritiene, quindi, inaccettabile ogni intervento che tende a deflazionare il contenzioso comprimendo drasticamente il diritto del cittadino di tutelare le proprie ragioni davanti a un Giudice. Ancor più inaccettabile è che la compromissione di tale diritto avvenga nella delicata fase dell’impugnazione, con la previsione di un complesso meccanismo che, lungi dall’accelerare il giudizio di secondo grado, potrebbe impegnare la maggior parte dei giudici di secondo grado nell’esecuzione di questa preliminare diagnosi sulla possibilità di accoglimento dell’impugnazione svincolata da ogni criterio logico e controllo effettivo, piuttosto che nel loro istituzionale compito di decidere le cause e motivare i provvedimenti.
Compito del Governo di uno Stato liberale è quello di risolvere il problema dell’inadeguata risposta alla domanda di giustizia che proviene dai suoi cittadini e dalle sue imprese, fornendo adeguati mezzi e uomini alla macchina della giustizia, e non è certamente quello di comprimere la possibilità o, peggio, di rendere oltremodo oneroso formulare quella domanda.
Ugualmente negativa è la valutazione degli interventi compiuti sulla Legge Pinto con sovvertimento dei principi affermati dalla Corte di Giustizia europea, e con il rischio che l’auspicata riduzione delle somme da destinare al risarcimento dei danni da ingiustificata durata dei processi si traduca in aumento delle condanne pronunciate dalla medesima Corte in danno dello Stato italiano e, quindi, con un totale aggravio dei costi a carico della collettività.
        Maurizio de Tilla    

Tags: Luglio Agosto 2013

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