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abbiamo perso venticinque anni di progresso

di ENRICO SANTORO  professore, avvocato

«La grande bellezza», il film di Sorrentino in questi giorni nelle sale, ha già generato mille controversi spunti di riflessione, ma tutti gli spettatori, tutti indistintamente, hanno apprezzato l’affresco fotografico che il regista ha dedicato alla Capitale e al mare dell’isola del Giglio. Tutti hanno pensato alla dovizia e alla qualità dei tesori che possediamo in Italia. E tutti purtroppo hanno commentato che non sappiamo valorizzarli a dovere.
Il «flash» sulla Concordia piegata ad inquinare le acque pure del Giglio lo prova. Era stato ripreso anche nel film «Girlfriend in a coma», tratto dal libro di Bill Emmott, ex direttore dell’Economist che, innamorato dell’Italia, soffre nel vederla umiliata dalla trascuratezza dei suoi stessi abitanti. Quell’immagine era posta al punto più basso di una linea grafica che indicava la china da noi imboccata dopo il boom degli anni Sessanta e mai più risalita. La lettura della storia economica del nostro Paese nei trent’anni a cavallo tra i due secoli effettuata dal governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco il 31 maggio scorso davanti al gotha dell’economia e della finanza, ha purtroppo confermato l’impietosa analisi: abbiamo perso 25 anni di progresso.
Il presidente della Confindustria, Giorgio Squinzi qualche giorno prima aveva sviluppato simili argomenti di riflessione, lanciando un allarme chiaro. D’altra parte sarebbe sciocco negare l’evidenza. Visco segnala un Pil nel 2012 al 7 per cento meno del 2007 e un tasso di disoccupazione raddoppiato. Si teme che il 2013 non porti ripresa: l’Ocse addirittura stima un ulteriore calo di produttività dell’1,8 per cento. Ci sono ipotesi allarmanti: la Cgil sostiene che senza correttivi ci vorranno 13 anni per tornare a tassi di crescita analoghi al 2007 e 63 anni per ritrovare i posti di lavoro persi con la crisi.
Ecco il punto: senza correttivi. Ma i correttivi - anche per scongiurare l’avvertimento di Draghi: «ripresa solo nel 2014» - possono e devono essere trovati. Come? Analizzando gli errori del passato e sanando gli squilibri che hanno creato. In che modo? Cambiando politica economica. Al riguardo il richiamo iniziale al «bel Paese» non è casuale ma è parte del piano d’azione indilazionabile che a nostro avviso il nuovo Governo può e deve attuare. Inquadrandolo logicamente in un riassetto istituzionale ma senza perdere di vista l’urgenza legata al quadro economico. E senza dimenticare che l’Italia, contrariamente ad altri Paesi europei, ha convertito la propria economia da agricola a industriale da appena tre generazioni e che di conseguenza l’architrave della sua struttura industriale ancora poggia sul sistema delle piccole e medie imprese.
Né dimenticando, occorre aggiungere, che il sistema delle imprese minori, linfa dell’economia nazionale - in seguito al processo di globalizzazione e al sostanziale dissolversi delle frontiere, con la caduta del meccanismo dei dazi doganali, soprattutto nell’Europa assoggettata all’euro - ha visto ridursi i margini di competitività legati in passato alla svalutazione della lira e non ha avuto indicazioni utili per reagire.
Finora è mancata una strategia di sostegno alle imprese minori, capace di indicare loro criteri «ragionati» di delocalizzazione produttiva; capace di convincere i proprietari ad aprire il capitale a terzi, in maniera consapevole e funzionale a un’iniezione di managerialità che consentisse alle famiglie di far compiere alle «loro creature» un salto di qualità internazionale, ispirato da un posizionamento economico del Paese condiviso e non casuale.
In che senso? L’Italia è pur sempre il secondo Paese manifatturiero di un’Europa che ha dimostrato di voler rafforzare la politica di sostegno all’industria. Però possiede un parco-imprese che non ha mai saputo valorizzare appieno: lasciando che restassero piccole, prive di cultura e di proiezione internazionale. Si può uscire da questo «cul de sac»: provando a porsi in sintonia con una logica di politica industriale comune europea, possibilmente condivisa negli Usa.
Gli italiani hanno «voglia di farcela», dice l’Eurisko nel suo Osservatorio di maggio sui climi sociali e di consumo: cercano attivamente e con pervicacia soluzioni alla crisi. Non sembrano rassegnarsi a cedere ai Paesi emergenti del Bric tutte le fette della torta del mercato. Chiedono una guida economica intelligente anche i giovani industriali, ricordando che se manca la prospettiva rimane solo il rischio della rivolta. E si indignano di fronte ai ritardi della classe politica.
È evidente che se non verranno adottate subito iniziative di forte impatto in termini di capitale umano e innovazione, il futuro rischia davvero di diventare fosco perché la ricchezza e la domanda continueranno a spostarsi verso l’Asia e il Sud America. Spetta al Governo in conclusione, di fronte a così evidenti prospettive di crisi di competitività del prodotto italiano, premere l’accceleratore senza indugio alcuno. La litania delle percentuali di disoccupazione mai raggiunte prima non deve restare un fastidioso sottofondo ma deve trasformarsi in un grido disperato capace di smuovere chi siede a Palazzo Chigi. Aspettare che l’Europa si muova all’unisono è importante, ma quando la casa brucia deve salvarsi chi può. Soprattutto se ha carte da giocare, e se c’è l’intenzione di salvare qualcosa di quel sistema industriale che ha perso il 15 per cento di produttività e 600 mila addetti in un anno.
Il Governo deve immediatamente intervenire, voltare pagina in politica economica, agevolare la crescita dei settori che ritiene possano sostituire i fatturati persi dalle aziende in crisi. Deve prevedere di impiegare la «folla» di lavoratori licenziati dalle industrie in crisi o da quelle che per sopravvivere hanno scelto la delocalizzazione produttiva in grandi lavori infrastrutturali per un periodo di almeno cinque anni.
In Italia mancano 1,7 milioni di posti dice l’International Labour Organization. Bisogna trovare i soldi per recuperarli. Con il benestare dell’Unione europea si possono ora sbloccare oltre 80 interventi per circa 20 miliardi su ferrovie, strade, scuole, acquedotti che potrebbero assottigliare la fetta di 320 mila posti persi nel settore dell’edilizia dall’inizio della crisi ad oggi. Ma esistono anche ulteriori ipotesi da prendere in considerazione.
Una di esse è architettare a livello governativo una strategia di delocalizzazione produttiva delle imprese. Mobilitando le competenze ministeriali per esplorare possibili mercati di sbocco alla nostra produzione ma prevenendo nel contempo i contraccolpi sull’occupazione interna. Delocalizzare, non dimentichiamolo, può servire a salvare gli equilibri economici di alcune aziende ed evitare che falliscano.
I fallimenti di imprese - se ne contano migliaia al giorno - si ripercuotono non dimentichiamolo sulla quota complessiva di contribuzione all’erario, di versamenti previdenziali, e così via. Mantenere o accrescere i fatturati vuol dire generare più flussi di reddito e maggiori entrate fiscali. Se per riuscire in questa sfida sarà necessario delocalizzare è importante saperlo fare impostando politiche di reinserimento lavorativo per non alimentare disoccupazione.
Formazione e riconversione richiedono peraltro un forte impegno economico; così anche gli investimenti per le infrastrutture. Un grande volano finanziario potrebbe essere avviato dando seguito all’idea del ministro Saccomanni che prevede la possibilità di emettere un prestito obbligazionario di duecento miliardi di euro garantito dal patrimonio immobiliare statale. Da non scartare neanche l’idea di coniare bond di progetto anziché eurobond.
Ma il volano finanziario non basta a garantire quella «prospettiva» che i giovani della Confindustria hanno reclamato. Ci vuole anche la collaborazione delle banche che hanno ridotto il sostegno all’economia e in questo senso occorre riflettere a livello europeo e nazionale se non sia il caso di rivedere la normativa sul credito in modo tale da favorire l’entrata in gioco dei meccanismi di finanza islamica che altrove funzionano con successo.
Credito a parte, il rilancio può essere alla nostra portata se sapremo liberarci dalla dittatura della burocrazia, con la realizzazione di riforme da lungo tempo attese, indirizzate a ridurre i processi autorizzativi, i contenziosi, le lungaggini giudiziarie, responsabili dei mancati investimenti e del calo dei flussi di capitali esteri nel nostro Paese. È inutile illuderci: a rilanciare il nostro Paese, a credere in esso dobbiamo essere noi.
Dobbiamo saper riprogrammare la nostra economia ottimizzando i nostri punti di forza in una logica di integrazione europea. Sostenendo i settori in cui rispetto ad altri il nostro Paese può primeggiare con facilità, il made in Italy legato alla moda, lo sviluppo dell’agricoltura, la qualità dell’alimentazione: in questo senso il progetto Eataly rappresenta un vero e proprio esempio da imitare in maniera organizzata. E poi il turismo.
Non è ammissibile, tanto per fare un esempio, che in mancanza di fondi pubblici i 25 milioni di euro messi a disposizione anni fa da un noto imprenditore per restaurare il Colosseo, per essere usati siano ancora in attesa del responso di commissioni, della promulgazione di ordinanze, di pareri inespressi ma vincolanti per l’avvio dei lavori. Il nostro Paese ha il 70 per cento del patrimonio artistico e culturale mondiale e lo lascia andare in rovina.
Il turista che viene in Italia oggi si limita per lo più a visitare Roma, Firenze e Venezia ma trascura Napoli, la Sicilia, le Dolomiti, le Isole perché nessuno lo sa indirizzare bene, nulla gli consente di considerare attrattive altre località. Invece in Italia non esiste un paesino che non abbia un mosaico, una chiesetta, uno scavo da visitare. Negli scantinati dei musei giacciono quadri non esposti e soggetti a deteriorarsi.
Se esistesse il reato di crimine contro l’arte, analogamente a quello di crimine contro l’umanità, noi - se pensiamo ai molteplici crolli di Pompei o delle Mura Aureliane - ne saremmo certamente responsabili. Tutti. Anche solo per aver eletto classi dirigenti politiche che non sono state in grado di attuare politiche di spesa per la conservazione, di sostegno al mecenatismo, di incentivazione fiscale ai privati intenzionati a curarsi del patrimonio ambientale, come si fa negli Usa.
Qualche dato può suffragare questa denuncia. E ricordare nel contempo che il turismo può essere il nostro petrolio. Un’analisi del servizio studi Bnl rivela che nel 2012 per la prima volta il numero di turisti internazionali ha superato il miliardo di unità e che il giro d’affari totale è di mille miliardi. Gli introiti da turismo culturale a Roma equivalgono a quelli dell’export provinciale di merci: in soli tre anni i turisti cinesi hanno triplicato la loro spesa.
Riferendosi alla Cina l’Organizzazione mondiale per il turismo ha segnalato che negli ultimi dieci anni la Cina è diventata nel 2012 il primo Paese al mondo per spese in viaggi all’estero con una crescita del 20 per cento annuo pari a 82 milioni nel 2012 e pari a 79,4 milioni di euro per movimento di denaro complessivo. Questo significa che il turismo ormai va considerato un mercato, non solo un settore.
Invece a Roma in un anno i visitatori sono calati del 6,3 per cento. Le risorse stanziate dal Campidoglio sono diminuite di 15 milioni di euro in 5 anni. Il Fai e Federculture hanno denunciato che abbiamo avuto 20 milioni di presenze in meno rispetto a Parigi. Nel 2012 tutti i musei italiani messi insieme hanno incassato il 25 per cento in meno del Louvre. Se lo Stato concedesse a terzi investitori la gestione di siti carenti di turisti e manutenzione si potrebbe voltare pagina.
Pubblicità e impegno economico dei privati potrebbero invertire la tendenza. Così pure un supporto governativo alle iniziative alberghiere e turistiche, accompagnato da una contestuale ed ampia operazione di marketing sul territorio. Trasformare l’Italia nel parco turistico del mondo non è un sogno irrealizzabile ma è davvero alla nostra portata. Soprattutto se sapremo sfruttare al meglio le opportunità offerte dalla tecnologia.
Quella digitale, in particolare. Progetti di comunicazione multimediale, scelta di servizi e prodotti accessibile da turisti che viaggiano con smartphone, portali e riviste capaci di attirare l’attenzione di un turismo sempre più colto, con uso di web e social network finalizzati al rilancio dell’economia turistica. «Il turismo è una questione nazionale» ha giustamente detto Giorgio Squinzi e invece conta appena il 5,4 per cento del pil contro il 6,2 per cento della Spagna e il 6,2 per cento della Francia.
Per rilanciarlo occorre che si conoscano esattamente i dati del problema, le statistiche sull’incidenza del settore sul pil, sui flussi di presenze riguardanti agriturismi e bed and breakfast e così via. Ma occorre anche che all’estero ci sia adeguata conoscenza della nostra offerta, che i siti museali e archeologici siano ben conosciuti, che siano note e confrontabili tariffe e regole di accesso ai musei. I turisti vanno facilitati e non ostacolati.
L’Italia è scesa dal primo al quinto posto fra i Paesi più visitati. Il libro bianco di denuncia pubblicato da Federturismo in occasione del suo ventennale, individua alcune tracce per il rilancio: fisco, formazione di qualità, promozione di un brand unico nazionale, un «master plan Paese» secondo il quale tutte le imprese trasversalmente concorrano - con l’aiuto intelligente del Governo - al rilancio dell’Italia turistica. È una delle poche carte che abbiamo. Ma è un «asso».    

Tags: Luglio Agosto 2013 Enrico Santoro

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