DIRITTO FALLIMENTARE - ISTITUZIONI E POTERI FORTI CONTRO L'INTERESSE GENERALE PER MANTENERE I LORO VANTAGGI
Momenti difficili per il Paese, quelli che stiamo vivendo. Il presidente del Consiglio Mario Monti prefigura un «duro percorso di guerra», il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi parla di «guerra contro l’Italia». Ormai dovrebbe essere chiaro a tutti che l’Italia è considerata un Paese ricco ma debole, e quindi i Paesi più forti possono trarre, dalle pressioni finanziarie alle quali sono sottoposti i nostri titoli di Stato, vantaggi lucrosi e in sostanza senza rischio. La ricchezza del nostro Paese è notoria, ben conosciuta e invidiata. Non parlo solo delle opere d’arte, il 75 per cento delle quali si trova in Italia. Non mi riferisco solo alla riserva aurea, che è la quarta o quinta del mondo, non parlo del nostro prodotto interno, che malgrado tutto rappresenta una fetta importante di quello mondiale e ci colloca tra le prime dieci posizioni.
Penso ai depositi bancari, alla liquidità ancora esistente nel Paese e nelle banche. Parlo della ricchezza diffusa delle famiglie, le meno indebitate del mondo. Il tenore di vita, così come la bellezza dei paesaggi, la bontà e la varietà della cucina, fanno dire ai miei amici americani: «Voi italiani avete un grande pregio che è anche il vostro grande difetto, la qualità della vita». È questo l’obiettivo finale degli assalti della «finanza nemica», il prezzo che grava su tutti noi e che abbiamo già cominciato a pagare.
Una volta le guerre venivano dichiarate, erano fatte di eserciti, morti violente, bombe, attacchi terrestri, aerei e marittimi. Oggi le dichiarazioni di guerra non ci sono più, gli eserciti non scendono in campo, ma si agisce a colpi di spread, di rating, di costo del danaro, di tassi d’interesse: la sostanza non cambia, l’effetto è lo stesso. Ovvero l’assalto, il depauperamento, lo spostamento di ricchezze a «casa del vincitore». Di fronte a questo scenario, il Paese non ha bisogno di rispolverare chissà quali radici nazionaliste o risorgimentali, o ancora peggio imperialistiche, ma certamente non può far finta di nulla. Né può prevalere la logica del rifugio, o peggio della «fuga con la cassa» dei più furbi.
Certamente, il pesante inasprimento fiscale che ci ha colpito, specie in questi ultimi mesi, rappresenta un primo assaggio dei costi «bellici», pagato dai cittadini onesti, in attesa che la «chiamata alle armi» raggiunga anche i più renitenti alla leva, ancora troppi visto il divario tra molte dichiarazioni dei redditi e il tenore di vita dei dichiaranti, visto l’ammontare dei capitali in fuga verso le solite mete estere vicine e lontane. Mentre attendiamo, fiduciosi, che il Governo e la Guardia di Finanza facciano il loro lavoro a tutela della lealtà sociale smarrita, è urgente provvedere alla ricostituzione della fiducia pubblica. Le istituzioni sono chiamate a dare il buon esempio e non solo in termini di contenimento dei costi.
Ragionevolezza imporrebbe che in tempi difficili i ranghi vadano rinsaldati, i vari poteri costituzionali si concentrino sull’interesse generale, si ricordino di Adam Smith: se tutti lavorano, per la stessa finalità, tutti staranno meglio. Non dovrebbe risultare difficile condividere le priorità sostenibili difendendo la ricchezza esistente dagli assalti esterni, tutelando l’immagine del Paese, il suo potenziale imprenditoriale, la sua presenza nei mercati internazionali, in buona sostanza il nostro prodotto interno lordo. Ebbene questa logica, questa impostazione non sono generalmente accettate.
Riaffiora il «male oscuro», tutto italiano, della difesa delle primazie. Molte istituzioni, molti poteri forti anche nelle attuali difficoltà sacrificano la ricerca e la tutela dell’interesse generale, o quantomeno più esteso, sull’altare della difesa del potere istituzionale che rappresentano, per non parlare della patologia. È un’abitudine che emerge da comportamenti che contrastano con la consapevolezza della gravità della situazione che il Paese sta attraversando, e quindi delle conseguenze negative del circuito perverso che si può innestare.
Riportiamoci all’ipotesi più semplice: le imprese necessitano di finanziamenti che non riescono ad ottenere dalle banche le quali preferiscono investire in titoli di Stato il cui elevato rendimento impone tassi d’interesse più onerosi. Questa asfissia finanziaria progressivamente si aggrava e finisce per intaccare la produzione che diviene non più competitiva. Dall’espulsione dai mercati delle nostre imprese conseguono gravi problemi imprenditoriali, che difficilmente si risolvono con una ristrutturazione del debito e con una riorganizzazione dell’impresa.
Conseguente ai molti fallimenti, le cui dichiarazioni nell’ultimo anno sono aumentate del 20 per cento, sarà la perdita di posti di lavoro. Fino a che durerà, la cassa integrazione, per quei dipendenti che otterranno questo «paracadute», non costituisce una soluzione produttiva. Gli effetti sono devastanti in quanto, nonostante gli ammortizzatori sociali, la crescente disoccupazione che obbliga a consumi ridotti le famiglie colpite, comporta contrazione della produzione, distruzione del know how, riduzione dell’offerta di lavoro. I guasti sociali così determinati nel breve periodo si trasformeranno nella riduzione del gettito fiscale, quindi in minori servizi pubblici, minore sicurezza, disordini e movimenti di piazza, riduzione del servizio sanitario e scolastico; e si entra in un tunnel lungo e sempre più buio. In una parola si verificherà un consistente peggioramento dello stato sociale e della qualità della vita.
Ebbene malgrado questo quadro sia già divenuto realtà in economie e sistemi ben più celebrati del nostro; basta ricordare cosa ha prodotto la cosiddetta bolla immobiliare nell’ovest degli Stati Uniti, dove interi quartieri divenuti «fantasma» sono abbandonati alla devastazione dei disperati che si aggrappano, per sopravvivere, ai furti di rame, di impianti sanitari, di finestre, parquet ecc. La mancanza di gettito fiscale derivante prima dal lavoro degli abitanti di quei quartieri che non vi sono più, - mi piace ricordare sul punto il bel libro «La fortuna non esiste» di Mario Calabresi - ha messo i comuni nell’impossibilità di assicurare i servizi di pubblica sicurezza essenziali, mentre i creditori bancari vedono diventare sempre meno vendibili i beni posti a garanzia dei mutui gonfiati, concessi con generosità.
Ebbene anche di fronte a queste prospettive i mali storici italiani non vengono meno, le forze politiche, istituzionali e sociali in campo non riescono a trovare un punto di unione malgrado l’attuale clima bellico che esigerebbe unità per la sopravvivenza contro gli speculatori. Ne costituisce un fulgido esempio l’uscita della Fiat dall’Italia con un sonoro rifiuto di accettare logiche sindacali non sufficientemente aperte alle difficoltà attuali e al confronto globale. È triste leggere di arroccamenti fuori del tempo e solo nominalmente in difesa dei più deboli. In realtà il diritto al lavoro spesso non va d’accordo con il diritto al posto.
Le assenze ingiustificate, spesso legate a futili motivi, ad esempio alle partite di calcio della squadra del cuore, o la sospensione del lavoro con grave lesione della produzione in occasione di determinate occupazioni «secondarie» come la raccolta di pomodori e delle olive in determinate zone, o la vendemmia, secondo il principio che tutto sommato il salario e il posto sono variabili indipendenti dalla competitività dell’impresa, dalla qualità del lavoro, dalla penetrazione nei mercati del prodotto.
La necessità di dover competere porta necessariamente a confrontare i vari sistemi industriali a livello internazionale. Al tavolo siedono realtà produttive estremamente diverse, si pensi alle condizioni di lavoro ben note, in senso deteriore, dei lavoratori dell’Estremo Oriente, e quindi alla competizione basata su costi di produzione estremamente bassi rispetto ai nostri, specie se si considerano anche quelli indiretti per la tutela dell’ambiente, della sanità, della sicurezza, dell’antiriciclaggio e della privacy, la cui cifra globale diviene estremamente alta e spiazza tutta una serie di prodotti rispetto a chi questi costi non li ha.
Ebbene, di fronte alle necessità di trasferire, anche in Europa, molte imprese, incentivata dalle politiche attrattive di molti Paesi, il sindacato sembra insensibile, continuando a ragionare a colpi di scioperi, di cortei, di manifestazioni di piazza. Anche la cultura sindacale oggi dovrebbe acquisire uno spessore diverso, per una soluzione più globale dei problemi, tale da tener conto della prospettiva peggiore e da contribuire a realizzare condizioni di lavoro internazionalmente più simili e costi per le imprese italiane più omogenei rispetto ai concorrenti.
La tutela del lavoro italiano, la prospettiva di maggiore stabilità dei lavoratori oggi si difendono non solo ai tavoli del Ministero dello Sviluppo Economico e della Presidenza del Consiglio, ma soprattutto in ambienti internazionali ora che anche la Russia in questi giorni, oltre alla Cina, al Brasile e ad altre grandi potenze mercantili mondiali vecchie e nuove, è giunta a far parte della World Trade Organization che, a livello mondiale, potrebbe intervenire su questo tipo di disfunzioni affinché condizioni di lavoro e costi di produzione per chi opera negli stessi mercati divengano nel tempo più omogenei.
Ma questa prospettiva appare di lungo periodo e richiede cultura e presenze internazionali da costruire. Si tratta però di un obiettivo strategico al quale dedicarsi con impegno e lucidità al fine di recuperare il divario negativo che ci distingue dai Paesi concorrenti. Ma intanto sul fronte interno teniamoci strette le realtà produttive esistenti, specie quelle che rappresentano consistenti quote di prodotto interno, occupazione e lavoro; privilegiamo una volta tanto l’interesse del Paese, già colpito pesantemente sul fronte internazionale. Basti un dato: il costo del danaro per le imprese tedesche è pari all’1 per cento circa, per quelle italiane è il 7 per cento circa.
È questa discrasia tra il «bene comune» - che dovrebbe costituire il fondamento di ogni istituzione pubblica - e il comportamento di chi ha responsabilità sociali, che ha consigliato la più grande azienda automobilistica ad attestarsi fuori dell’Italia, con un grande stabilimento, proprio per disporre di una valvola di sicurezza che permetta di difendere qualità e competitività, senza naufragare nel mare delle rivendicazioni e dell’intransigenza sindacale, tutte italiane. Anche questa volta l’Italia e noi tutti abbiamo investito sulla Fiat, come avvenuto per decenni; basti pensare alle ore di cassa integrazione erogate, ma non siamo riusciti a raccogliere i frutti; e al gettito fiscale che sarà prodotto dalla nuova iniziativa negli Stati Uniti, e non in Italia.
Di fronte a questo contesto sorprende che anche la Magistratura, intervenuta nella vicenda, sembri insensibile alla difesa degli interessi più diffusi, se non generali. Vanno infatti registrati casi nei quali la qualità, il merito, l’affezione, la dedizione al lavoro dovevano costituire valori da privilegiare, poiché solo la qualità del nostro lavoro può salvare il prodotto italiano; invece si sono avute risposte giudiziarie di segno contrario.
Vi sono pronunce sull’obbligo di riassumere determinati lavoratori che sotto il profilo fiduciario ed «educational» come direbbero gli americani, con il loro comportamento hanno causato guasti all’interno della struttura, creando gravi precedenti negativi. Sorgono spontanee alcune domande. Il diritto del lavoratore al posto va garantito anche se non è in linea con l’interesse degli altri lavoratori a conservare lavoro e stipendio? Quale tutela ricevono gli interessi superiori e più generali dell’impresa e la sua necessità di osservare determinate regole economiche per restare sul mercato?
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