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I giovani e l’occupazione che non c'è

di GIORGIO BENVENUTO  presidente della fondazione  Bruno Buozzi

Le cifre non danno scampo. In base ai dati dell’Istat nel 2012 sono senza lavoro 5.720.000 persone: 2.975.000 gli inattivi e 2.745.000 i disoccupati in senso stretto. C’è un’ecatombe delle piccole e medie imprese. La cessazione di attività è stata nel 2012 di 403.923 imprese di cui 122.899 artigiane. Le maggiori chiusure di attività produttive hanno riguardato le apparecchiature elettriche (7,8 per cento); l’elettronica (7,6); i mobili (7,1); i prodotti in metallo (6,8); la meccanica (6,3). In percentuali complessive la situazione è disastrosa. Il tasso di cessazione dall’attività di imprese è pari al 6,6 per cento; quello di crescita è inferiore allo 0,3. Per i giovani tra i 15 e i 24 anni ecco alcuni raffronti in percentuale tra la situazione di oggi e, tra parentesi, quella del 1982: occupazione 18,6 (35,9); disoccupazione 35,3 (25,4); inattività 71,3 (51,9); laureati 3,5 (0,3); diplomati 43,7 (23,0); scuola media 52,8 (76,7).
Siamo il Paese con il tasso di attività più basso, poco lavoro per le donne e tra i giovani vuoti enormi. Ci sono anche i disoccupati cronici. Siamo un Paese malato. In più mancano le proposte che consentano di passare dalla denuncia del problema alla sua soluzione. Ancora dei numeri. Siamo alla crescita zero, anzi alla recessione; la disoccupazione giovanile è raddoppiata rispetto al 1977: è senza lavoro il 35,3 per cento degli under 24. Per non parlare di chi va all’estero. Le cifre non spiegano completamente il disagio perché vi sono i valori che vengono violati. Il lavoro non è semplice mezzo di sostentamento e di dignità, valorizza la persona. All’inizio si è lottato per fermare l’emigrazione, la gente fuggiva dall’Italia per disperazione. Oggi è diverso, si va all’estero per vedere riconosciuta la propria professionalità. Sono cambiati tempi e condizioni, ma tutto ruota sempre attorno al lavoro.
Esistono tre problemi. Uno di metodo: si moltiplicano le iniziative per i giovani, ma non si parla ai giovani e con i giovani. Il metodo è sbagliato, serve un canale di condivisione, ci si spreca in tavole rotonde che non portano a nulla. Il secondo è la normativa. In Italia abbiamo una legislazione ossessiva. Esistono 54 tipi di contratto. Fatta la legge, bisognerebbe affidarsi poi ai sindacati per trovare le soluzioni. Le leggi di solito sono rigide, complicate, a volte oscure. Non sono flessibili. Tutto questo sistema ha determinato l’attuale deriva. Bisogna ritornare alla contrattazione. La fabbrica ha il problema della competitività.
Ecco perché, invece di riferirsi a modelli generalizzati, si deve fare riferimento a forme di flessibilità definite sul posto di lavoro. Il confronto tra sindacato e imprenditore serve non solo a migliorare i salari ma anche ad aumentare l’occupazione. Sulla base del semplice principio dell’esigibilità: una volta fatte le scelte bisogna creare gli strumenti per verificare che tutti le rispettino. Il terzo problema da risolvere è il carico fiscale. Abbiamo un sistema squilibrato, si tassa tanto il lavoro e si favorisce poco l’occupazione. Abbiamo un’imposta, l’Irap, che frena gli investimenti perché tassa il lavoro a prescindere dai risultati economici dell’impresa. Per reagire a un sistema così rozzo e primitivo di tassazione l’imprenditore vende la fabbrica e investe i quattrini nella finanza: paga meno tasse, ha utili e ha meno grattacapi.
Cosa fare? Guardiamo agli altri Paesi. Per rilanciare l’occupazione giovanile occorre tenere presenti le esperienze e i risultati ottenuti in Europa. In Francia si sono rivelati efficaci gli interventi sul credito d’imposta come lo sconto fiscale sulle retribuzioni al di sotto di una certa soglia con l’obiettivo di aumentare il potere di acquisto dei lavoratori; e la staffetta generazionale, ossia incentivi alle imprese che assumono giovani e nello stesso tempo conservano il posto a un senior fino alla pensione. Particolarmente interessanti anche le soluzioni realizzate in Spagna basate su sgravi fiscali parziali o totali per aziende che assumono lavoratori, e rimborso dei contributi; e in Germania, con incentivi e sgravi fiscali per le imprese che assumono i giovani apprendisti.
E le risorse? Ci sono: l’economia sommersa in Italia è il 27 per cento del prodotto interno, per un valore di 420 miliardi di euro, con mancate entrate fiscali per 180 miliardi. Va modificata la politica fiscale. È ossessiva sul lavoro. È tollerante sulla speculazione e sulla finanza. Lo spreco pubblico non è stato debellato. Si sono fatte e si fanno solo molte chiacchiere. Non c’è stato nessun risultato tangibile. Alcuni esempi. Lo Stato italiano, secondo una recente indagine di Panorama, ha in affitto dai privati 10.108 immobili con un costo annuo di un miliardo 215 milioni di euro, poco meno di un terzo del gettito dell’Imu sulla prima casa. È una stima per difetto, se si considera l’immenso capitolo degli affitti passivi delle Regioni, delle Province e dei Comuni. Voci che possono essere moltiplicate per dieci, facendole salire a un valore di 12 miliardi, il triplo dell’Imu sulla prima casa. Secondo l’indagine citata, la casistica è sterminata. Ad esempio il Comune di Roma, proprietario di migliaia di immobili, spende 14 milioni di euro l’anno solo per affittare i locali e i servizi delle Commissioni e dei Gruppi politici del Consiglio comunale.
La politica fiscale è insensata. Occorre un cambio di rotta. Vanno ripristinati i principi fondamentali contenuti nello Statuto del contribuente e in modo disinvolto violati negli ultimi anni per quasi 500 volte. Si tratta della semplificazione fiscale e dell’attuazione scrupolosa del principio della non retroattività delle norme su tasse e imposte. La lotta all’evasione fiscale deve aggredire i paradisi fiscali, deve portare all’emersione di base imponibile, deve contrastare il sommerso, deve colpire la criminalità economica e finanziaria. L’accanimento normativo e la persecuzione nei confronti delle fasce di contribuenti più modeste ha compromesso lo spirito di collaborazione tra contribuenti e Amministrazione fiscale, ed ha riesumato il modello ostico di uno Stato debole con i forti e forte con i deboli. L’Imu si è rivelata una tassa devastante. Ha compromesso la ripresa. Ha precipitato il Paese nella recessione. Non ci sono solo problemi di equità - famiglie, pensionati, lavoratori -, ma si corre il rischio di compromettere definitivamente la sopravvivenza delle imprese.
Massimo Giannini su La Repubblica ha citato un’indagine de Il Sole 24 Ore sugli ostacoli che impediscono la ripresa e lo sviluppo. Particolarmente significativa è la batosta per gli immobili strumentali aziendali. Tra aumento del coefficiente moltiplicativo dell’imposta e variazione della riserva statale sul gettito, per un capannone di 2 mila metri quadrati in un’area industriale milanese, l’Imu di giugno dovrebbe costare il 51,1 per cento in più rispetto al versamento dell’anno scorso, e il 175,6 per cento in più rispetto a quello del 2011, quando c’era ancora la vecchia Ici. Una follia nella follia, visto che la stangata colpisce non il «patrimonio», ma uffici, negozi, alberghi e capannoni, cioè investimenti d’impresa e dunque beni strumentali alla produzione del reddito, già tassato dal fisco.
Il secondo esempio nell’indagine de Il Sole 24 Ore riguarda la Cassa Integrazione Guadagni. Per coprire i costi del suo rinnovo in deroga servono non meno di 1,8 miliardi. Le coperture sarebbero già state trovate: parte nel taglio dei fondi per la formazione, e parte nella riduzione dei fondi residui per la detassazione dei salari di produttività. «Dunque per garantire ancora un po’ di ammortizzatori sociali si chiudono i rubinetti della formazione e della produttività–commenta Massimo Giannini–. Se si aggiunge l’ulteriore giro di vite dei prestiti alle imprese a marzo, ridotti del 2,8 per cento, appena certificato dalla Banca d’Italia, si ha il quadro completo del frutto avvelenato della politica economica negli ultimi 5 anni».
Invece gli obiettivi dovrebbero essere l’efficienza e l’aumento della produttività. Ecco perché molte soluzioni bisogna trovarle nei posti di lavoro, puntando sulla contrattazione. La legge può fornire un quadro di riferimento generale garantendo la tutela dei soggetti deboli, ma poi le soluzioni vanno calibrate sulle diverse realtà. Per i giovani oggi è tutto diverso. Sono soli in mezzo ad una folla. Partiti, sindacato, istituzioni faticano a tenersi in contatto con la società. Prima i giovani avevano voglia di studiare, perché lo studio era una conquista, un modo per differenziarsi, per migliorare rispetto ai propri genitori. Era un fatto di crescita.
«Non voglio vivere, non voglio accontentarmi, non voglio accettare la realtà, come hanno fatto i miei genitori», era la frase più comune. Oggi i giovani sono più bravi, anche più preparati di quelli di allora, ma più fragili. Sono tutelati, protetti dalla famiglia e hanno poca voglia di battersi perché pensano che non si possa cambiare, e si rassegnano. Hanno paura di perdere quello che hanno, temono di dover tornare indietro. Prima invece si lottava per conquistare posizioni, per sé e per i propri figli. Non è così, non deve essere così. Siamo in una fase di enormi cambiamenti. Bisogna reagire. Invece di affondare nella decadenza, ci si deve impegnare nello sviluppo, nella crescita, nella valorizzazione del lavoro.
La politica ha compiuto scelte in buona fede. Quando il problema ha cominciato a manifestarsi, ha fatto un ragionamento di buon senso: in un mercato globale abituato a trasformarsi in continuazione, non ci si può impiccare alle rigidità, bisogna inserire elementi di flessibilità; il mercato è volubile, bisogna tener dietro a un’organizzazione del lavoro in grado di adattarsi alla domanda, di soddisfare le esigenze imposte dalle richieste dei consumatori e dalle mode. Ecco perché è divenuta inevitabile la flessibilità. I guai sono cominciati quando la flessibilità è stata trasformata in precarietà. La politica ha fatto anche un’altra valutazione: meglio un lavoro precario che un ragazzo per strada, totalmente senza reddito.
Il controllo della situazione è sfuggito di mano: la precarietà per una, probabilmente due generazioni, è diventato l’unico modo per lavorare. Uno sbocco avvilente perché non incentiva i giovani, obbligandoli ad accettare quel che capita e non quel che è in linea con la loro preparazione culturale e professionale. Questi ragazzi si ritrovano davanti dirigenti allo stesso tempo immortali e immobili, persone che fanno grandi aperture sul piano delle dichiarazioni ma che non lasciano spazi nelle strutture sociali e politiche. Con i giovani si è instaurato un dialogo tra sordi. Generazioni neglette e rifiutate, considerate inutili sul piano del cambiamento, della rivoluzione delle idee. Per trasformare la moltitudine dei precari in classe bisognerebbe sfoltire le tipologie contrattuali. Sono una vera e propria foresta. Ci si deve aprire a forme nuove.
La legge 30 ha complicato la situazione anche perché ha ripercorso la strada che troppe volte è stata battuta in Italia con insuccesso: quella dei due tempi, prima la flessibilità, cioè la giungla contrattuale, poi il welfare che non arriva, lasciando i giovani nell’incertezza e nella solitudine. Quel che doveva essere un’eccezione si è trasformato nella regola. Creando un paradosso: i contratti a tempo indeterminato si fanno per gli immigrati, perché il permesso di soggiorno è condizionato a una posizione lavorativa stabile; i giovani italiani, invece, restano precari. A loro la nazionalità e la residenza non possono essere negate, gli viene però negato un altro diritto di cittadinanza, quello a un lavoro sicuro e appagante, una negazione che porta alla mortificazione civile. Si può ricorrere a un riferimento ardito e anche un po’ provocatorio: i giovani italiani precari sono i nostri Sans Papier. A loro viene riconosciuto un unico diritto: essere incasellati in stereotipi che nulla hanno a che vedere con la realtà dei fatti. Sono i giovani oppressi da una tecnocrazia resistente a qualsiasi rinnovamento - quella sì, veramente a tempo indeterminato - che scruta il mondo dal buco della serratura dei più triti luoghi comuni.
Ci si può riferire alla leggenda di Faust di Goethe. Faust decide di attuare un grande progetto: strappare al mare una striscia di terreno fertile per insediarvi molti milioni di uomini liberi e attivi. Durante i lavori di costruzione, Faust tratta gli uomini che lavorano per lui alla stregua di sudditi ottusi, senza neppure informarli delle proprie intenzioni. «Perché l’opera grandissima si compia, uno spirito solo varrà per mille mani». Quel che vuole Faust a nessuno è mai lecito scrutare a fondo. Grida ai propri schiavi: «Servi fuori dal giaciglio, in piedi, uno dopo l’altro». I lavoratori devono essere incitati ai lavori più gravosi con il bastone e la carota. A Mefistofele, Faust comanda: «Per quanto sarà possibile, raccogli folle su folle di lavoratori, stimolali con le ricompense e con la severità; pagali, allettali, stai loro alle costole! Ogni giorno voglio che mi si dia notizia di quanto s’allunga il fosso che s’è cominciato». Ascoltando il rumore delle vanghe, Faust dice degli uomini al lavoro: «È la folla che mi serve!».
La libertà dei lavoratori è prevista, per Faust, solo per l’avvenire. Il lavoro di costruzione che deve rendere possibile la comunità futura è compiuto prima da servi, che potranno divenire solo in un secondo tempo uomini liberi e attivi. E per aver ridotto i giovani in schiavitù, senza che mai si intravvedesse il traguardo finale della libertà, finì miseramente il sogno di Faust. Auguriamoci che invece finisca finalmente, con una seria e concreta riforma del lavoro, l’incubo dei giovani condannati a lavorare senza soddisfazioni, sicurezza, diritti. Parafrasando John Kennedy, si può dire: «I problemi del mondo non possono essere risolti da scettici o da cinici i cui orizzonti siano limitati dalle realtà oggettive. Abbiamo bisogno di persone che possano sognare cose che non sono mai esistite e chiedersi: perché no?»    

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