Il nostro sito usa i cookie per poterti offrire una migliore esperienza di navigazione. I cookie che usiamo ci permettono di conteggiare le visite in modo anonimo e non ci permettono in alcun modo di identificarti direttamente. Clicca su OK per chiudere questa informativa, oppure approfondisci cliccando su "Cookie policy completa".

una crisi senza precedenti e senza possibile soluzione

ENRICO SANTORO

Silenziose eppure strazianti. Sono così le «grida di dolore» che ogni giorno si levano dalle pagine economiche dei giornali italiani. Le notizie descrivono una crisi senza precedenti e apparentemente senza possibile soluzione di continuità. Le ricette per superarla si contraddicono. Gli accesi dibattiti che derivano da queste contrapposizioni - per quanto sostenuti da argomentazioni scientifiche di tutto rispetto - finiscono per dare al pubblico quello stesso sapore di anarchia che si percepisce dopo aver assistito ad uno dei mille talk show politici.
Intanto i consumi crollano, il ritmo di acquisto di auto è tornato ai livelli degli anni Settanta, aumenta il numero dei poveri e dei disoccupati, degli imprenditori suicidi e dei colletti bianchi che si rivolgono ai centri Caritas. Crolla il risparmio delle famiglie, ha recentemente ricordato il presidente della Consob Giuseppe Vegas nella sua relazione annuale: negli ultimi venti anni la propensione degli italiani a risparmiare è scesa dal 22 all’8 per cento, con un calo generalizzato pari al 63,6 per cento. Anche se vanno fatti dei distinguo.
L’Eurisko in particolare rivela che è cresciuta dal 12,6 al 13,1 per cento la quota di famiglie che hanno investito in titoli pubblici, mentre è scesa dal 4,1 al 2,9 per cento la fedeltà alle azioni. L’effetto della crisi si percepisce anche da queste variazioni, ma non è ancora sufficiente a rendere pericolante la solidità generale della situazione delle famiglie italiane. Messa a confronto con quella delle famiglie di altri Paesi dell’area euro non sfigura: nell’ultimo decennio ce la battiamo con tedeschi e francesi nel rapporto tra la ricchezza netta e il reddito disponibile.
È logico però che senza risalire la china in cui siamo scivolati insieme a tutti i confratelli europei - neanche la Germania si salva più ormai -, sarà difficile sostenere la situazione economica generale. E i tre passaggi essenziali sulla strada della risalita riguardano il debito pubblico, la moneta unica, il rilancio del sistema-imprese. L’uno è indissolubilmente connesso all’altro: difficile negarlo. E sono tante le accortezze da prendere per evitare che si perda troppo tempo nel trovare le soluzioni adatte.
Difficile sapere se di ciò si sia parlato nel corso del soggiorno in un ex monastero al quale il nuovo premier Enrico Letta ha obbligato i propri ministri. Meglio sperare di sì, sapendo che con un debito pubblico pari al 130 per cento del prodotto lordo, ossia con un debito personale per italiano, neonati e disabili compresi, pari grosso modo a 30 mila euro, la sostenibilità della situazione e la crescita finanche nel medio periodo possono essere compromesse. Tanto più che la nostra moneta è l’euro, fondata su accordi estremamente difficili per noi da rispettare.
Il debito dunque. Bisogna ridurlo. Non siamo come gli Stati Uniti che possono risolvere il problema dell’indebitamento pubblico stampando moneta. Anzi, in virtù del trattato di Maastricht ci siamo impegnati al rispetto di rapporti tra debito e prodotto interno che conducono ad un inasprimento inevitabile della pressione fiscale; e così gravosi che recentemente alcuni Stati membri dell’Unione hanno brigato per rinegoziarli, con grande dispetto degli Stati più propensi all’austerità, Germania in prima fila.
Un’idea per alleggerirlo, che però non è mai piaciuta alla Germania, è stata recentemente rilanciata dal finanziere George Soros. Prevede di consentire a Paesi indebitati di convertire i propri debiti in eurobonds garantiti dalla Banca Centrale Europea: l’Italia andrebbe a migliorare del 4 per cento il proprio quadro debitorio. La Germania rifiuta, ma rischia molto che le spinte centrifughe rispetto all’Unione - rinforzate dalle scelte di austerità collegate alla gestione europea del problema del debito - prendano corpo con conseguenze che molti temono.
Un’idea migliore è stata messa a punto dall’ex ministro per l’Economia Vittorio Grilli e ripresa in considerazione dal suo successore Fabrizio Saccomanni; consiste nella valorizzazione del patrimonio immobiliare dello Stato e di alcuni enti locali. L’attuazione del progetto sarebbe capace di dare nuova vita a un patrimonio potenziale stimato dal Ministero del Tesoro in una cifra compresa tra i 239 e i 319 miliardi di euro, dismettendo beni di pregio in parte già individuati in una lista, pronta dal 2011, di circa 12 mila immobili dei Comuni.
Proposta analoga, merita ricordarlo, era stata avanzata da un gruppo di studio coordinato dal prof. Paolo Savona, che prevede di mettere a disposizione una porzione pari al 20 per cento del patrimonio pubblico italiano, valutato in circa 1.820 miliardi di euro e quindi per un importo di circa 400 miliardi di euro, da cedere ad una «newco» con capitale posseduto da banche ed enti riconducibili allo Stato, e da far digerire al mercato lentamente attraverso l’emissione di obbligazioni con allegata opzione warrant per l’acquisto dei beni stessi.
Il rapporto tra debito e prodotto interno scenderebbe sotto il 100 per cento senza vendita immediata a terzi, ma con una vendita a prezzi certi, con regole omogenee e trasparenti, coinvolgendo investitori istituzionali capaci di garantire regolarità ed equità all’operazione, valorizzando gli asset ceduti e magari dando la possibilità, ai sottoscrittori delle nuove obbligazioni, di pagare con titoli del debito pubblico al valore originario di sottoscrizione, con incredibili vantaggi di bilancio che consentirebbero di ricavare ingenti risorse a beneficio dell’economia produttiva.
E già. Perché è proprio il tema della crescita attraverso il rilancio della produzione che domina in prospettiva qualsiasi agenda programmata allo scopo di rimettere in sesto l’Italia. Entra qui in gioco il fattore euro. Una moneta adolescente, che ha 15 anni e ancora non è adulta. Quando nacque, il 3 maggio del 1998, valeva 1.942 lire. Lo sforzo di adeguamento per gli italiani è stato analogo a quello che schiantò gli argentini quando vollero adeguare al dollaro la loro moneta nazionale. La grande paura è che sia stato vano.
L’Italia soffre molto insieme all’intera Europa. Non essendo stata seguita, l’adozione della moneta unica, da provvedimenti di ulteriore convergenza in ambito economico, fiscale, di cessione di parte delle rispettive sovranità nazionali, l’intera zona di Eurolandia è rimasta fragile, con grande soddisfazione nei continenti concorrenti, in Cina, India, Brasile, Russia e negli stessi Stati Uniti, che proprio nei giorni scorsi hanno mostrato le loro capacità di recupero. E con un’immunodeficienza politico-economica collettiva che espone a rischi di contagio.
Ci si pone poi anche l’interrogativo se la bassa crescita sia riconducibile all’adozione dell’euro. Ma non sembra: i dati dicono che dal 1999 al 2012 l’Italia cresce meno degli altri, ma ciò avveniva anche prima dell’introduzione dell’euro. Con l’euro il gap è aumentato. Un’ipotesi è che l’impossibilità di svalutare e le politiche fiscali austere collegate alla convivenza europea hanno indebolito la competitività del sistema. In realtà il regime monetario esprime, fotografa, sancisce le differenze, non le determina.
Il problema in Italia è purtroppo più ampio. La crisi dell’economia continentale rispetto ad altre aree economiche, la crisi del debito, l’euro oneroso angustiano infatti anche altri Paesi in Europa. Ma l’Italia trova maggiori handicap nei ritardi spaventosi accumulati in vari settori, dalla giustizia alla pubblica amministrazione, dalla criminalità economica all’istruzione, dalla sanità alla mancanza di ricerca e innovazione, dalla burocrazia alla moltiplicazione delle norme, dall’ingiustizia fiscale alla rigidità sindacale.
Il Governo appena entrato in carica, ammesso che duri, si è riproposto un programma di emergenza. Molto ambizioso. Accanto alle necessità di riordino della materia costituzionale - dal rinnovo della legge elettorale alla riduzione del numero dei parlamentari, delle somme destinate ai partiti, della soppressione delle Province - esso pone al primo posto, oltre alla riduzione dell’imposizione sul lavoro e alla soluzione dei problemi creati dalla legge Fornero, la restituzione dei debiti della Pubblica Amministrazione verso le imprese.
A quest’ultimo proposito occorre ricordare l’urgenza del rimborso e la necessità di stabilire criteri equi di ripartizione dei costi dovuti al pagamento dei debiti arretrati delle Amministrazioni e di evitare che l’emergenza si ripresenti in futuro. Ad esempio, chiarendo meglio le procedure, impedendo che si assumano impegni di spesa che non potranno tradursi in pagamenti, adottando bilanci di cassa come prevedeva la riforma contabile del 2009, facendo attenzione a non sopravvalutare le possibili entrate e a stabilire controlli e sanzioni ad hoc.
I controlli richiedono opportune competenze ma soprattutto un’informatizzazione seria. Quelli della Corte dei conti, previsti ma di fatto resi innocui da legislazioni contraddittorie, devono essere implementati, gestiti da specialisti. E poi ancora servirebbe un ripensamento dell’architettura del sistema tenendo separate le responsabilità della formazione del bilancio da quelle del controllo della spesa. Si tratta di prassi regolarmente adottate in altri Paesi, ma che in Italia richiedono un salto di qualità culturale collettivo.
La scelta di restituire alle imprese i soldi loro spettanti - il Governo intende rimborsare in due anni 40 dei 91 miliardi di debiti accumulati da pubbliche amministrazioni verso fornitori - appare promettente, ma dovrà seguire regole rigorose, trasparentemente applicate, senza politicizzare l’intervento. Le banche, ad esempio, non devono essere penalizzate poiché questo si tradurrebbe in ulteriori riduzioni delle linee di credito e in un’intensificazione del credit crunch. Le banche sono imprese anche loro. E se funzionano possono fare da volano allo sviluppo.
La contabilità trasparente, l’applicazione di regole utili ad evitare procedure di indebitamento irresponsabili, ad individuare per tempo i dissesti delle pubbliche amministrazioni, insieme a controlli e sanzioni, devono accompagnare il processo di recupero di credibilità dell’amministrazione stessa. Potranno rappresentare la testimonianza che la spending review è coerente e che le intenzioni di riassetto del sistema Paese non sono solo buone ma sono effettive, concrete, condivisibili.
Un dibattito sta appassionando in questi giorni gli economisti. È partito dalla denuncia di uno studente il quale ha scoperto che i calcoli che accompagnavano la teoria di Reinhart-Rogoff - secondo cui l’elevato debito pubblico in genere ostacola la crescita - erano sbagliati. Gli studiosi hanno ammesso l’errore, ma fino ad un certo punto. In realtà non esiste al momento alcuna prova teorica che il debito alto ostacoli la crescita. Ci sono correlazioni, certamente. Ma la storia insegna che il debito alto può favorirla.
L’ideale resta il ragionare in termini di diligenza del buon padre di famiglia. Che progressivamente si ritorni alla dimensione dell’equilibrio dei conti per affrontare la ciclicità del mercato con armi sperimentate. Probabilmente il salto di qualità culturale è più semplice di quanto si possa pensare. Richiede però un recupero di etica, di correttezza, di senso dello Stato - che non si dica «È volato tutto via con Andreotti» - o forse di semplice buon senso da parte di tutti. D’altra parte le alternative non sono molte, se non si vuole sprofondare nel baratro. 

Tags: Giugno 2013 Enrico Santoro

© 2017 Ciuffa Editore - Via Rasella 139, 00187 - Roma. Direttore responsabile: Romina Ciuffa