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LA CRISI ECONOMICA E LE SUE CONSEGUENZE SUL GOVERNO DELLA SANITà

Ivan Cavicchi

di IVAN CAVICCHI


Dobbiamo rilanciare il welfare tradizionale europeo, il nostro modello basato su pensioni e sanità non basta più, deve essere più universalistico e meno corporativo aiutando i più bisognosi», sono le parole del discorso programmatico del presidente del Consiglio Enrico Letta al Parlamento il giorno della fiducia. Non so esattamente cosa vogliano dire queste parole, perché possono significare tutto e il contrario di tutto. Tuttavia «più universalistico e meno corporativo» potrebbe significare semplicemente più eguaglianza o, se si preferisce, più equità. Il senso comune addebita la crescita delle diseguaglianze nella sanità al fallimento del federalismo, agli squilibri territoriali, alle storiche differenze nord-sud ecc. Quindi riconduce la questione dell'universalismo a quella strutturale della governabilità del sistema e, quindi, al modello di governo che sino ad ora ha funzionato. Parlare di diseguaglianze relativamente alla governabilità significa discutere del ruolo delle Regioni. Cioè i soggetti istituzionali con più poteri sulla sanità. Se è vero che il federalismo è fallito, allora è anche vero che la riforma del Titolo V della Costituzione, quella che ha riconosciuto alle Regioni i loro poteri, è a sua volta fallita.

Politiche restrittive e neo-centralismo
 
Se questo ragionamento ha un senso, allora non è sbagliato dire che, se il sistema è messo male, la causa principale va ricercata nel «manico». La non governabilità favorirebbe le diseguaglianze o, se si preferisce, non aiuterebbe a risolvere il problema della sanità, anzi sarebbe paradossalmente un fattore di aggravamento. E la crisi? I tagli lineari? I disavanzi? Sembrerebbe più logico addebitare i problemi della sanità ai problemi finanziari; in fin dei conti le Regioni in qualche modo sono le vittime delle restrizioni finanziarie, e a catena tutto il resto. Naturalmente i problemi finanziari della sanità hanno il loro peso ma, se guardiamo meglio le cose, ci accorgiamo semmai che le restrizioni economiche hanno l'effetto di delegittimare le forme di governo esistenti, nel senso di favorire politiche restrittive neo centraliste che spiazzano Regioni, Aziende e tutto il resto, cioè spiazzano le soluzioni di governo decentrato e delegato. Del resto onestamente le Regioni non hanno dimostrato di saper gestire le crisi e le difficoltà. Anche in Inghilterra la riforma attuata dal primo ministro David Cameron sta a significare che i problemi finanziari si scontrano con i modelli di governance esistenti, al punto da azzerare tutti i precedenti poteri istituzionali. In Inghilterra, ad esempio, le istituzioni equivalenti a Regioni e Aziende, che sono sempre state i capisaldi della governabilità inglese, sono state letteralmente sostituite con una governance completamente diversa, affidata interamente ai consorzi gestiti da un intreccio costituito da medici e da cittadini.

 

Le responsabilità politiche delle Regioni

Oggi è facile criticare le Regioni. Da una parte ne hanno fatte di tutti i colori, dall'altra non hanno fatto quello che avrebbero potuto fare, cioè governare il cambiamento con il cambiamento. Meno facile è stato durante il loro massimo splendore, e ancor più difficile è stato criticarle senza pagare pegno. Il potere sa essere molto vendicativo con i propri critici. Titolari di un immenso potere sulla sanità sono state sorde alle necessità del cambiamento; vivendo alla giornata, hanno piazzato nei posti chiave uomini mediocri che alla sanità non hanno dato niente, hanno conteso decisioni importanti allo Stato centrale, condizionato il Parlamento, mortificato ministri, e tutto ciò non in ragione di un’autorevole leadership o di una strategia all'altezza dei problemi, ma di poteri esibiti come «muscoli» e di una politica generalmente decadente e maneggiona.
Di tanti assessori che ho conosciuto non ricordo uno che avesse un'idea politica di sanità che non fosse semplicemente quella di amministrarla. Molti sono stati e sono bravi amministratori, ma nulla di più. Oggi le Regioni sono delegittimate in tanti modi diversi, anche quelle che non se lo meriterebbero perché male non hanno fatto. Tra loro tuttavia non ce ne è una che abbia un pensiero riformatore capace di governare il difficile momento che sta vivendo la sanità.
Quando vedo che le Regioni non si sono rese conto di quanto, in questi anni, gli accordi finanziari fatti con i Governi hanno sottratto loro sovranità, che chiedono di fare altri patti per rifinanziarsi senza cambiare la struttura della loro spesa, mi chiedo dove sia finita la politica. Quando leggo che le Regioni litigano tra loro su come fare i costi standard, non su come definire qualcosa che le rappresenti come peculiarità, mi chiedo come non si rendano conto che la trappola è proprio quella di avere una «regione standard» che, proprio perché standard, può essere gestita da Roma con un computer.
Se le Regioni sono standard, che senso ha dare in gestione la sanità a 21 assessori regionali? Quando sento certi assessori che, alle restrizioni finanziarie imposte loro dal Governo, rispondono con restrizioni chiamandole «misure di riordino», mi chiedo che fine ha fatto il riformismo. Quando leggo che da una parte le Regioni rubano, speculano, approfittano, e dall'altra per pareggiare i conti mettono tasse sui cittadini, aumentano i ticket ecc., viene da pensare che sarebbe giusto ridimensionarne i poteri. A tutt'oggi solo 8 Regioni garantiscono i Lea, i livelli essenziali di assistenza, cioè le tutele di diritto. Nonostante queste ingombranti evidenze, sulle inettitudini delle Regioni io penso che le loro colpe principali siano principalmente due, ed entrambe di carattere politico.
O non essere riuscite a «diventare Regioni veramente» per essere adeguate ai loro poteri; o non essere riuscite a onorare quel contratto politico che, in cambio di poteri, chiedeva loro una capacità riformatrice. È vero che le Regioni sono state tartassate dai limiti finanziari, ma è altrettanto vero che i limiti da sempre fanno parte della sanità, e che i limiti in ogni caso sono culturalmente resistenti a qualsiasi pensiero debole, e poi in futuro avremo non meno, ma più limiti. Le Regioni oggettivamente non hanno saputo rispondere alle sfide del cambiamento di cui i limiti sono solo una parte. Esse non sono riuscite a trasformare i limiti in possibilità, quindi a non cogliere le opportunità della post modernità e meno che mai le sfide proposte dal post welfarismo. Oggi, se le Regioni avessero davvero fatto le Regioni, se fossero diventate veramente Regioni, non saremmo in questa drammatica situazione. La principale responsabilità politica delle Regioni per me, è quindi politica.

 

Le responsabilità delle aziende

Ma non solo le Regioni hanno delle responsabilità, anche le aziende non sono da meno. L'Azienda nel tempo si è rivelata inadeguata alla complessità della sanità pubblica e, in particolare, come soluzione alla governabilità del sistema. Per cui non si può parlare di governabilità senza affrontare anche i problemi dell'Azienda. L' Azienda ha indubbi meriti, rappresenta una significativa novità, e va collocata dentro una problematica istituzionale finanziaria e sociale più grande. Ciò che è in discussione non è l'Azienda tout-court, ma è la forma, è il genere di Azienda che abbiamo avuto sino ad ora. Il problema non è rinunciare all'Aziendalismo, ma è riformarlo e profondamente. L'attuale modello di Azienda non è idoneo alle complessità sanitarie della governabilità. A testimoniarlo sono una serie di paradossi:
- indeterminazione, una norma istitutiva (502) che non ha mai specificato il genere sanitario dell'Azienda, da qui la necessità di definire una sorta di «Azienda sui generis», cioè qualcosa che si specifichi attraverso le complessità medico-sanitarie;
- inconseguenza, avere come obiettivo formale la salute della gente e come obiettivo reale l'equilibrio di bilancio, la gestione delle compatibilità, il risparmio a tutti i costi;
- carattere contro teorico cioè l'essere teorizzata in un modo e l'essere realizzata in un altro;
- la razionalità aziendale, cioè il pensiero tipico che c'è dietro all'Azienda, pieno di anacronismi e grossolane debolezze culturali;
- regionismo, la distorsione del regionalismo causata dalla riforma del Titolo V e dalle crescenti restrizioni finanziarie, che ha fatto saltare la distinzione tra gestione e politica;
- l'economicismo, la negazione dell'economia quale scienza della complessità e la sua banalizzazione a puro amministrativismo contabile.
Ed altre cose, come il non essere orientata alla domanda, il considerare gli operatori come lavatrici obbedienti, la gestione gerarchica tipica delle aziende manifatturiere, l'essere una nuova forma di burocrazia ecc. Quando è nata l'Azienda, non si aveva la minima idea di cosa essa dovesse essere, per cui si impose alla sanità quella universalmente applicata dalla teoria economica, chiedendo alla sanità di adattarvisi. Oggi si tratta ragionevolmente di fare il contrario, cioè di chiedere all'Azienda di adattarsi alla complessità sanitaria.

 

La questione istituzionale: l'articolo 117 della Costituzione

Per tutte le ragioni che si rifanno tanto alle Regioni che alle aziende, la questione del governo della sanità dovrebbero rientrare tra le questioni istituzionali di cui il Governo Letta dovrebbe occuparsi. Che almeno si preveda un collegato ai lavori della «convenzione» perché in ogni caso si tratta di modificare l'articolo 117 della Costituzione. Tale articolo prevede il riparto delle competenze tra materie in cui lo Stato ha una «potestà legislativa esclusiva» e materie in cui tra Stato e Regioni vi è un «potere normativo concorrente» (riforma del Titolo V).
Modificare l'articolo 117 significa modificare i rapporti tra «legislazione esclusiva» e «legislazione concorrente», e quindi modificare i rapporti complessi tra government e governance della sanità, quindi l'idea di sanità in questo Paese. La posta in gioco è tale da richiedere un coinvolgimento democratico il più ampio possibile. Vorrei ricordare che la riforma costituzionale del 2001, in cui era compresa la riscrittura del Titolo V, ebbe una forte legittimazione democratica perché fu confermata dal referendum del 7 ottobre 2001, che un altro referendum del giugno 2006 rigettò invece una proposta di modifica costituzionale in cui, tra le altre cose, si prevedeva, per la sanità, la «competenza esclusiva» delle Regioni.
La necessità di modificare l'articolo 117 della Costituzione è venuta fuori soprattutto durante il Governo Monti come questione parallela ai tagli lineari, quale esigenza imprescindibile e ricollegabile di governabilità del sistema sanitario, e suona come una critica inappellabile a chi, come le Regioni, renderebbe i tagli lineari inevitabili ma solo perché non sono riuscite a governare i problemi economici della sanità. Ma, ammesso che ciò sia vero, si può risolvere un problema di strategia riformatrice dislocando semplicemente poteri dalle Regioni al centro? E la strategia qual’è? Aristotele non separava mai la «forma di Governo» dalle «capacità di comando», come lui le chiamava, e che, come dimostra la storia, non dipende mai dai poteri tout court ma dall'incontro felice tra comando, pensiero, contesti e azione.
I controriformatori dell'articolo 117 quindi, coloro che vorrebbero cambiare il Titolo V della Costituzione per la seconda volta, per ridare poteri allo Stato centrale togliendoli alle Regioni, dovrebbero dirci prima cosa intendono fare della sanità oggi per domani, e poi, semmai, si potrebbe discutere della «forma di Governo» e della «capacità di comando» più adatta. Ma giocare ai poteri istituzionali senza strategie non è così convincente.

 

Da soluzioni a problemi

Il problema di correggere l'articolo 117 oggi non si porrebbe se non vi fosse stato un grande ribaltamento: in poco più di un decennio le Regioni e le aziende da «soluzioni» come sono state viste nel 2001, sono diventate «problema». La spending review, i piani di rientro, i commissariamenti, i patti per la salute dicono che oggi le Regioni e le aziende siedono sullo stesso banco degli imputati sul quale, negli anni 90, sedevano i Comuni, cioè quelli che proprio le Regioni consideravano i «titolari abusivi» delle funzioni sanitarie, rei di non essere riusciti a coniugare un pensiero riformatore, capacità gestionali e problemi finanziari.
Il copione si ripropone tale e quale, e un periplo sembra concludersi perché tutto tende a tornare da dove si era partiti, cioè al centralismo sanitario. A rendere ancor più pesante la situazione delle Regioni è stato il loro incessante potere di interdizione nei confronti di tutti coloro che, in questi anni, hanno tentato di fare qualcosa per la sanità. Praticamente tutti i ministri della Salute sono stati contestati nelle loro iniziative legislative, per non parlare delle Commissioni parlamentari. Il risultato è stato spesso paralizzante, le inerzie regionali finivano per imporsi e per bloccare tutto senza però che le Regioni compensassero l'esplodere dei problemi con altre soluzioni. Oggi, potere della crisi, tutti i nodi vengono al pettine. Durante il Governo Monti esponenti di spicco del Pdl e dell'Udc hanno presentato proposte per togliere la legislazione concorrente alle Regioni e riassegnarla in modo esclusivo allo Stato centrale.
Oggi il Governo Letta non sembra interessato a mettere le mani nelle questioni istituzionali della sanità, ma il problema esiste e sarebbe sbagliato ignorarlo. Le Regioni tirano un sospiro di sollievo e si preparano ad andare di nuovo all'attacco per chiedere soldi e rifinanziamenti. Si torna a parlare di «patto per la salute» con riferimento alle risorse e alle prestazioni. La netta sensazione che ho è che le Regioni intendano praticamente mettere Monti tra parentesi, dimenticandolo come un brutto sogno, per continuare con il solito tran tran. Mettere Monti tra parentesi in pratica significa poter chiedere, a Letta, di ridare loro le risorse che i tagli lineari hanno tolto alla sanità, o comunque di rifinanziare in qualche modo la sanità. Trovo questo modo di ragionare non solo irrealistico, ma anche un serio ostacolo alla governabilità di Letta, e molto poco riformista.

 

Spending review e cambiamento

La spending review che il Governo Monti ha avanzato è un concetto giusto se inteso in modo corretto, è invece scorretto il modo lineare come è stato declinato. L'obiettivo di ridurre la spesa sanitaria, in un momento come quello che sta vivendo il Paese, non è antipopolare perché è possibile liberare nella sanità un mucchio di soldi mal spesi e rispettare i diritti delle persone. Quello che è sbagliato è finanziare il sistema scaricando i costi sui cittadini e soprattutto sui più deboli. I piani di rientro non vi è alcun dubbio che sono devastanti, ma l'obiettivo di tornare in pareggio e di governare la spesa sanitaria non è devastante.
Bisogna avere programmi che intervengano in tempi ragionevoli nei sistemi di spesa per cambiarli. Non è sbagliato parlare di rigore, è sbagliato interpretare il rigore con il rigorismo alla Monti, senza sviluppo e senza equità. Anzi sono convinto che, nei confronti in particolare della sanità, il presidente del Consiglio Letta dovrà fare proprio quello che Monti non ha fatto, cioè coniugare «emergenza con cambiamento» chiarendo le condizioni di compossibilità tra «rigore, sviluppo ed equità».
Quindi ho l'impressione che per le Regioni andare da Letta mentre perdura la recessione e il prodotto interno continua a calare, e chiedergli dei soldi per la sanità, non sarà facile. Ma a parte tutto, non esiste solo il problema delle risorse e delle prestazioni. Chi può negare che c'è un problema di governance? Che il Titolo V ha prodotto gravi effetti collaterali? Che le aziende, così come sono, non possono andare avanti? Che i patti per la salute sono falliti uno dietro l'altro? Che il modello attuale di finanziamento alle Regioni non sta più in piedi? Per cui sarebbe oltremodo saggio porre il problema del governo della sanità.

 

Tornare al centralismo statale non è una soluzione

In ragione di tutto questo e di molto altro, se proprio volessimo dare una mano al ministro della Salute Beatrice Lorenzin, secondo me dovremmo non solo assorbire i tagli decisi con dei tempi adeguati e con una ben ponderata spending review, ma trovare il modo di intervenire sulle antieconomicità strutturali del sistema, tutte riconducibili a modelli, schemi, logiche, soluzioni, culture ampiamente superate. Per questo la questione del governo è cruciale. Se proprio vogliamo aiutare Lorenzin, è necessario che si punti a quella parolina che tutti fanno finta di non sentire e che si chiama «compossibilità», cioè un cambio di logica per cambiare un sistema da dentro e fare in modo che la sanità costi il «meno compossibile» con i diritti.
Questa è la sfida per il riformismo, cioè un Governo della compossibilità. Se proprio volessimo aiutare Lorenzin, non dovremmo limitarci a fare patti su risorse e prestazioni per tenerci un sistema comunque iniquo, sprecone e mal governato, ma dovremmo proporle di ripensare un sistema pubblico a anti-economicità zero, che addirittura liberi risorse. Se andiamo a proporgli più spesa e se la spesa pubblica continuerà a crescere, prima o poi si metterà in qualche modo la sanità pubblica tra parentesi.
È questo che mi preoccupa più di tutto. Insomma, più che patti che mettano tra parentesi il «cambiamento», si tratta di fare patti che mettano tra parentesi «l'invarianza». Per questo serve un’idea rinnovata di governo. Oggi la sorte della sanità pubblica è legata alle nostre capacità riformatrici. Ciò che è insostenibile non sono le quantità di risorse in gioco, ma le qualità del governo che le dovrà spendere. Ma le nostre capacità riformatrici a loro volta dipendono da come si scioglie il nodo della governabilità. Non si tratta semplicemente di togliere dei poteri, ma di risistemare un complesso sistema di relazioni tra cittadini e sanità e tra operatori e istituzioni. Anche se tutta l'operazione si limitasse a trasferire poteri legislativi e gestionali, le ripercussioni sul sistema sarebbero rilevanti.
Penso che sia regressiva la scelta di tornare al centralismo amministrativo degli anni 70. La mia, quindi, non è tanto una preoccupazione metodologica ma politica. Ho il fondato sospetto che coloro che propongono di modificare l'articolo 117 siano persone che la fanno troppo facile. In loro per certi versi si intravede ancora una volta la logica lineare che ha ispirato i recenti tagli alla spesa pubblica: «La spesa sanitaria è un problema regionale… le Regioni sono un problema finanziario… allora tagliamo le Regioni…per tagliare la spesa»: è come risparmiare acqua travasandola da un secchio all'altro, ma senza curarsi dei buchi che sono in fondo ai secchi e senza curarsi dell'orto da annaffiare. Ma perché prima non tappiamo i buchi che perdono?
C'è qualcuno tra noi disposto a credere che il Ministero della Salute, il centralismo amministrativo, la legislazione esclusiva, siano secchi senza buchi? È vero le Regioni avrebbero bisogno di una buona stagnatura, ma non vorrei che per ridiscutere l'articolo 117 si «svuotassero» le Regioni per «svuotare» il diritto alla salute e quindi privatizzare il sistema. Questo sarebbe tragico. Penso quindi che servano calderai e stagnai di buona volontà che ci dicano come riparare i buchi alla nostra malridotta governance. Credo anche che certamente si debba partire dal Titolo V perché è innegabile che di buchi esso ne abbia diversi, ma che il loro esame venga esteso a tutto il sistema istituzionale. Penso anche che non si debbano subire le modifiche costituzionali decise dallo spending power, perché con la Costituzione non si scherza. Credo, infine, che se i buchi non si riparano, rischiamo di perdere non solo l'acqua ma molto molto di più e di rovinare irrimediabilmente l'orto. Cerchiamo, quindi, di darci una regolata. Ma a che punto siamo con la discussione? Il Governo Letta che cosa vuol fare?
Tra le questioni che la «Convenzione per le riforme istituzionali» dovrà affrontare rientrano o no i nodi dell'articolo 117? Già Monti aveva presentato un disegno di legge su «Disposizioni di revisione della Costituzione e altre disposizioni costituzionali in materia di autonomia regionale». Alcuni presidenti regionali hanno visto in questa proposta «una riforma radicale, nella quale le Regioni tornano, sul fronte del potere legislativo, subordinate allo Stato in tutte le materie».
In realtà nella proposta di Monti le materie sanitarie non erano comprese nel ripensamento, anche se è indiscutibile che «l'esprit des lois» era il superamento del regionalismo. Nella relazione che accompagna la proposta di legge si dice, a proposito dell'articolo 117, che i rapporti tra leggi statali e leggi regionali sono da rivedere. Ma non si dice come. Le materie sanitarie, comprese nelle disposizioni di cui tratta l'articolo 117, si trovano così tra legislazione esclusiva dello Stato e legislazione concorrente ma, a differenza del 2001, dentro un progetto di deregionalizzazione. Alcune forze politiche -Udc e Pdl - hanno presentato o comunque appoggiato a loro volta dei disegni di legge specificamente sull'articolo 117 per togliere alle Regioni le competenze sulla sanità.

 

Quale governo? Dalle cose alle persone

Ma quale idea di governo della sanità? Da «chi» governa la sanità, da «come» è organizzato questo governo, dai «modi» di governare, dipende quell'universo chiamato «sanità». Il governo della sanità sino ad ora, ad ogni livello, non ha creduto nelle capacità dei soggetti, operatori e cittadini, esprimendosi solo come amministrazione di persone. Ha funzionato? E come ha funzionato? Vi è un'altra idea di governo che, invece, crede nelle capacità delle persone e che però implicherebbe un’idea di governance estesa e diffusa. Chi ci dice che questa non sia migliore della prima? Ma come farla? Governo «degli» uomini o governo «con» gli uomini? Lo chiedo ai medici che pongono la questione «dell'indipendenza, dell’autonomia e della responsabilità». Agli infermieri che pongono sostanzialmente le stesse questioni ma in concorrenza con i medici. Ai direttori generali che le stesse cose le chiedono alle Regioni. Alle Regioni che al Governo non chiedono nulla di diverso.
Tutti vogliono «indipendenza, autonomia e responsabilità». Bene, ma quale governo? Vi è chi restringe l'idea di governo della sanità ai poteri gestionali tra Stato e Regioni; siamo propri sicuri che il problema sia davvero questo e solo questo? Nella sanità abbiamo livelli diversi di governo, ai quali corrispondono forme diverse di governance, ad esempio, come detto più avanti, abbiamo malamente aziendalizzato le Usl ma restando in un sistema fondamentalmente burocratico. Siamo sicuri che non si debba ripensare qualcosa? Abbiamo dato un mucchio di poteri alle Regioni senza condizionarle ad una riorganizzazione dei loro Assessorati e qualcuno propone di togliere loro questi poteri per darli al Ministero.
Ma anche in questo caso, senza condizionare il Ministero con un’analoga riorganizzazione sembra logico questo modo di pensare? Sappiamo che la sanità è governata male, ma come governarla bene? È sufficiente modificare l'articolo 117 della Costituzione? Governare male la sanità è inutilmente costoso, ma allora come si risparmia governando meglio la sanità? Sappiamo che il lavoro dei medici, degli infermieri, di tutte le altre figure professionali è funzione di un certo tipo di governance, ma se una funzione è null'altro che una relazione tra governance e professioni, quale governance per quali professioni e quali professioni per quale governance?
Lo dico esplicitamente ai medici e agli infermieri, e alle loro potenti organizzazioni. Cioè mi rivolgo a chi rappresenta all'incirca 800 mila operatori. Per voi «autonomia e responsabilità» è un problema di profili e di competenze, o prima di tutto una questione di governance? Oppure pensate che tutto questo non c'entri niente con la ridiscussione dell'articolo 117? E siccome da anni siamo pieni di conflitti inter-istituzionali, tra Regioni e Ministero, tra Regioni e Parlamento, tra Aziende e Regioni, tra Servizi e Aziende, tra Aziende e cittadini, non pensate che, oltre a discutere dell'articolo 117, si debba fare uno sforzo per definire un sistema integrato di poteri con il più basso grado di conflittualità interna?
Potrei continuare a snocciolare quesiti come questi all'infinito, ma non è il caso, mi limito a dire che: 1) come cittadini e operatori non possiamo disinteressarci del problema del governo della sanità; 2) è una semplificazione affrontare tale questione solo controriformando il Titolo V della Costituzione, anche se questo a mio avviso va sicuramente aggiustato; 3) gli schemi di governo, qualunque essi siano, non possono e non devono essere indipendenti dalle strategie che si vogliono perseguire.

 

Multi level governance, la soluzione Montesquieu

La chiave di volta che propongo è «equilibrio». È davvero troppo semplice credere che basti cambiare l'asino per tirare meglio il carro e, per giunta, senza chiarire né il carico, né dove si vuole andare, né quali strade percorrere. Come è fin troppo facile riconfermare l'asino che c'è nella stalla. Il governo della sanità oggi è fondamentalmente un sistema squilibrato i cui squilibri causano un mare di costi etici, sociali ed economici, inutili e soverchianti. Nella sanità sono squilibrati i rapporti tra legislazione esclusiva dello Stato e legislazione concorrente delle Regioni, tra funzione legislativa e gestione, tra istituzioni erroneamente poste fra loro in concorrenza; penso al ruolo degli enti locali ma anche al Parlamento, tra sistema sanitario e società civile.
Chiamerei «soluzione Montesquieu» quella che punta a riequilibrare i poteri nella sanità. Ma riequilibrare non basta. Se il governo è funzione dei fini che si vogliono raggiungere, allora questi fini in qualche modo li decidono i soggetti che hanno legittimamente i poteri di guidare la nave, le loro capacità auspicabili, le forme di governo ecc. Aggiungo che questa concezione circa i fini bisognerebbe integrarla con una concezione circa i programmi, nel senso che fini e programmi diventano gli argomenti della funzione di governo. Ma se i fini e i programmi nella sanità sono assicurare la compossibilità tra diritti e limiti economici, quale governo? Vorrei limitarmi non tanto a ragionare sul ripensamento delle funzioni delle Regioni, dei Comuni, delle Aziende, dei Servizi, e questa volta dare meno enfasi agli aspetti istituzionali della questione e più importanza agli aspetti programmatici:
- gli obiettivi di compossibilità implicano un ripensamento degli strumenti di programmazione, ma anche dei soggetti di programmazione e delle loro visione politiche;
- si rende necessario ripensare attraverso la programmazione i rapporti tra i ruoli delle istituzioni centrali e quelli delle istituzioni periferiche, magari riequilibrando le competenze dello Stato centrale e di quello regionale;
- la programmazione, se vuole fare compossibilità, non può limitarsi a svolgere compiti di mera manutenzione del sistema, ma deve assumere una vera e propria funzione riformatrice;
- l'idea di compossibilità ci obbliga, attraverso la programmazione, a ripensare i rapporti tra quello che si chiamava ambito nazionale, regionale e locale, cioè ad uscire definitivamente dalla logica del decentramento amministrativo, e ad entrare in quella autenticamente federalista nel senso che i poteri decentrati devono permettere una condivisione sociale del governo con i cittadini e un sistema interdipendente di autonomie diverse. Insomma esistono problemi istituzionali, di rapporti di potere tra le istituzioni, cioè il Titolo V, ma anche questioni programmatiche. Cioè il sistema istituzionale va riequilibrato certo, ma bisogna anche ridefinire la forma di governo, la sua organizzazione, i suoi rapporti interni, la sua organizzazione e, infine, le sue strategie programmatorie.
Penso che nella sanità vi sia bisogno di un multi level governance, cioè di un governo che in realtà non divida e non separi government da governance, ma tenti di riunificarli. Government tendenzialmente si riferisce maggiormente agli aspetti istituzionali del governo, mentre governance comprende anche le relazioni informali attraverso le quali soggetti non istituzionali concorrono alla determinazione delle scelte politiche e programmatorie. Quando penso al multi level governance, penso all'Europa, alla globalizzazione ma anche alla complessità sanitaria, una complessità che, per essere governata, necessita di soggetti nazionali, regionali, aziendali, di servizio e professionali. Una cosa è certa: ormai nella sanità è matura la necessità di un cambiamento profondo che riguardi la governabilità del sistema sanitario. Rinviare la questione sarebbe davvero tragico.

Tags: Giugno 2013 sanità Ivan Cavicchi

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