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PORTI: REGOLE INCERTE, FUNZIONI INDEFINITE, DANNI PER L’ECONOMIA DEL PAESE

Uno scorcio del porto di Genova: «La produttività di molti scali italiani è analoga a quella dei più avanzati porti europei; il tallone d’Achille sono estrema fragilità delle infrastrutture stradali e ferroviarie, scarsa accessibilità, norme, burocrazia, modelli operativi: tutto ciò è di grande ostacolo alla crescita qualitativa del nostro sistema portuale»

I porti italiani dovrebbero rappresentare il fulcro di un sistema di logistica integrata. Le luci e le ombre di questo anello fondamentale per l’economia del Paese, con i risvolti sociali e imprenditoriali nel territorio di tutta evidenza, sono strettamente correlate al condizionale. I porti italiani, infatti, presentano numerose potenzialità inestricabilmente fuse con problemi irrisolti, gestioni modestamente efficienti, localismi penalizzanti. Ne emerge un dato sconsolante: un potenziale di attrattività economica e di flussi di traffico significativi viene disperso a favore di altri grandi approdi del Mediterraneo o del Mare del Nord, proprio a causa della mancanza di un sistema portuale integrato, capace di potenziare pochi porti realmente strategici, concentrando su di essi risorse economiche e investimenti, senza che prevalgano micro interessi corporativi, conflitti tra autorità portuali, antitesi tra regioni e politici. Il tutto con un Governo largamente distante, da troppi anni, sul fronte della marineria e portualità italiana.
L’Europa, forse all’insaputa di molti, ha già tracciato lo scenario che dovrà caratterizzare lo sviluppo portuale italiano. Molti fingono di non saperlo e reclamano a tutt’oggi interventi, investimenti, attenzioni su scali di modesta levatura che non potranno crescere ulteriormente, e che oggi rappresentano un’autentica zavorra per il sistema. L’Italia dovrebbe privilegiare sei o sette scali strategici e ridefinire le funzioni di tutte le altre portualità. Questo richiede decisioni politiche forti che nessun Governo si è preso la briga di assumere. Genova, Napoli, Ravenna, Gioia Tauro, Trieste, La Spezia, Livorno, Palermo, Bari e Venezia costituiscono, come ha rilevato una pregevole ricerca biennale, la spina dorsale del sistema portuale italiano.
Le cifre dimostrano come la produttività di molti scali italiani sia analoga a quella dei più avanzati porti europei. Il vero tallone d’Achille è rappresentato dall’estrema fragilità delle infrastrutture stradali e ferroviarie, dall’accessibilità, dalla regolazione burocratica, da norme e modelli operativi tanto distanti dalle migliori performance da costituire l’handicap più forte per una crescita qualitativa dei porti italiani.
L’effettivo distorsivo di un Paese con migliaia di chilometri di coste, ma incapace di costituire il perno delle rotte mediterranee mediorientali tra l’occidente e l’est, si concretizza in quella mancata visione strategica che ha moltiplicato porti e autorità portuali, costi e centri decisionali, consigli di amministrazione e appetiti sia politici sia economici, a tutto danno di una centralità geografica che ci auguriamo possa in futuro essere recuperata ancorando più solidamente il nostro Paese all’Europa, in modo da farne una cerniera privilegiata dei traffici. Innumerevoli studi degli ultimi venti anni hanno dimostrato che un sistema infrastrutturale efficiente consentirebbe alle merci di viaggiare su rotte mediterranee invece che transatlantiche, con risparmi notevoli di costi e di giorni di navigazione; se ciò non avviene, non è per caso, ma perché il nostro Paese e i porti italiani non sono in grado di fronteggiare grandi volumi di traffico.
La specializzazione dei porti in un sistema integrato per aree territoriali e competenze garantirebbe ad esempio tra alto e medio Tirreno, tra Ionio e alto Adriatico di captare flussi marittimi specializzati con positivi effetti sia sulla gestione sia sulle redditività. Questo comporta peraltro quella integrazione che oggi è assolutamente latente, il superamento di anguste visioni localistiche, di prerogative storicamente costituite ma oggi del tutto irrilevanti o, peggio, negative. Basti pensare a quanto si potrebbe fare integrando in modo migliore Genova con La Spezia, Napoli con Gioia Tauro, Palermo con Cagliari, Taranto con Bari e Ravenna con Venezia e Trieste.
Quella che è una grande risorsa per l’Italia rischia di essere ulteriormente dispersa senza apprezzabili risultati. Bisogna dirlo con estrema chiarezza: al sistema economico italiano ed europeo servono pochi porti nella penisola, moderni, efficienti e ottimamente collegati. Questo richiede interventi selettivi immediati, capaci di sottrarre scali storici, si pensi a Genova o a Napoli, al soffocante abbraccio della città costruita nel tempo attorno al proprio porto ma oggi senza nuove vie d’accesso, un fardello che mette a rischio non solo lo sviluppo ma la stessa sopravvivenza.
Per comprendere dall’interno le frastagliate differenze dei porti italiani è illuminante una recentissima ricerca svolta in due anni dall’Isfort -Istituto per la Formazione e la Ricerca per i Trasporti della Fondazione Banca Nazionale delle Comunicazioni - che mette a fuoco i complessi temi del lavoro nei porti. L’Isfort ha individuato gli ambiti del lavoro nei principali scali italiani; ne emerge un quadro contraddistinto da confini fluidi, regole incerte, ruoli e funzioni spesso indefiniti o sovrapposti. Problemi che finiscono per gravare su un settore cruciale per l’economia del Paese, che richiederebbe regole comuni ed omogenee, in grado di favorire l’affermazione di modelli di gestione più dinamici, in grado di rispondere alle pressanti sollecitazioni del mercato.
Le cifre indicano come, nelle 10 situazioni portuali prese in considerazione nei due anni, la produttività del lavoro sia sostanzialmente in linea - fatte salve le particolarità legate alle tipologie di traffico trattate - con quella dei principali scali europei di Amburgo, Rotterdam e Anversa. Sono circa 11 mila i lavoratori dei porti presi in considerazione, su un totale stimato di 20 mila portuali in Italia; la maggior parte, pari al 53 per cento, sono di imprese terminaliste, il 32 per cento della forza lavoro è invece di imprese di servizi, mentre il pool di manodopera è del 13 per cento.
I modelli organizzativi si articolano su varie tipologie e puntano decisamente sulla flessibilità e sui profili professionali, la cui specializzazione risulta crescente per le mutate esigenze delle attività portuali. La flessibilità non riguarda esclusivamente la disponibilità di personale, ma anche il livello di programmabilità delle movimentazioni delle merci in porto e le modalità con cui i servizi vengono gestiti.
Il livello di formazione dei lavoratori portuali viene giudicato discreto dal 56 per cento degli intervistati, sufficiente dal 22 per cento, ottimo dal 18 per cento. Cifre che evidenziano la capacità degli operatori che tendono a diversificare le specializzazioni per poter disporre di personale più flessibile in funzione delle esigenze produttive. I criteri, infine, di selezione dei lavoratori portuali si articolano per il 20 per cento sulla flessibilità, il 17 per cento sull’affidabilità, pure il 17 per cento sulla multi professionalità, mentre l’esperienza pesa per il 12 per cento e la specializzazione per l’11 per cento.
Oggi le attuali condizioni di mercato, la maturità delle imprese portuali presenti nei porti italiani e la difficile congiuntura economica richiederebbero, invece, una nuova attenzione strategica al settore che, a partire da un quadro di regole comuni ed omogeneo, agevoli l’affermazione di un modello di gestione più dinamico e meno vischioso di quello attuale, capace di attuare la necessaria flessibilità nonché la sua sostenibilità in termini sociali oltre che economici.
La scelta di un titolo forte come «Far West Italia» dimostra quanto lungo e tormentato sia il cammino che attende la portualità italiana. È necessaria una responsabile convergenza di tutti i soggetti in campo per trarre dalle secche i nostri porti, assicurando loro nuovo impulso in una moderna gestione integrata dei traffici internazionali e nazionali, fortemente orientata verso l’innovazione tecnologica, le interconnessioni di infrastrutture e servizi, modelli organizzativi e gestionali totalmente rivisti in una logica di massimizzazione dell’efficienza e di contrazione dei tempi di sosta, di velocizzazione di ogni tipo di operazione portuale attraverso il ricorso alle più avanzate tecnologie informatiche. Solo così i porti italiani potranno riacquisire nuovo appeal e giovinezza, quella che un tempo li rese famosi e fece la fortuna delle città e di alti ceti produttivi e commerciali.
I porti sono il fulcro della logistica e di una rete efficiente di trasporti mercantili. La straordinaria posizione baricentrica dell’Italia e dei suoi molti porti rispetto alle principali linee marittime di collegamento east-bound e west-bound che attraversano il Mediterraneo ha stimolato, ormai da qualche anno, la fantasia di esperti, di enti di ricerca, di politici e di amministratori sulle potenzialità della cosiddetta «Piattaforma logistica italiana».
Mentre l'intelighenzia si prodigava a tracciare linee, stimare flussi, progettare infrastrutture, programmare l’attivazione di servizi intermodali volti a sottrarre il traffico ai porti del Nord Europa per la conquista dei servizi logistici continentali - senza mai arrivare all’attuazione di quanto stabilito sulla carta -, il sistema dei porti italiani non si è trasformato in una piattaforma logistica intercontinentale integrata in parte perché tale ipotesi richiedeva investimenti rilevanti che né il settore pubblico né quello privato sono stati in grado di mobilitare, ma anche perché forse non era poi così necessario farlo.
I porti in Italia sono sempre stati la principale stazione di rifornimento energetico di un Paese «energivoro» ma povero di risorse proprie. I porti in questo senso non hanno mai rinunciato al loro ruolo, rifornendo famiglie e imprese dell’energia necessaria e sostenendo lo scambio internazionale di materie prime, semilavorati e prodotti finiti. Mantenendo salda questa vocazione, la rete dei porti nazionali ha seguito e alimentato l’evoluzione industriale del Paese mettendosi al servizio prima della grande industria, e in seguito di quel tessuto capillare di piccole e di medie imprese, per lo più concentrate nei quadranti centrale e settentrionale della penisola, che colloca l’Italia ai vertici delle classifiche europee e internazionali del commercio estero.
I porti sono a servizio dei territori collocati nelle loro immediate vicinanze. Le merci sbarcate hanno come origine o destinazione finale i territori limitrofi: oltre l’80 per cento dei container transitati nel porto di Genova raggiunge Lombardia, Emilia Romagna e Veneto, mentre il resto della merce viene suddiviso soprattutto tra territorio ligure, piemontese e Valle d’Aosta; la sola Lombardia assorbe circa la metà dei container. Nel porto di Napoli circa il 65 per cento delle merci ha come origine o destinazione il territorio regionale, la restante quota si distribuisce tra le regioni contermini. Mentre i contenitori sbarcati nel porto di La Spezia sono diretti per il 28 per cento in Lombardia, per il 26 per cento in Emilia Romagna, per il 15 in Toscana, per il 12,6 in Veneto, per l’8,6 in Liguria, per il 5,3 per cento in Piemonte e solo per il 4,5 per cento verso altre destinazioni soprattutto nazionali.
Nel segmento dei contenitori si assiste tuttavia a un discreto concentramento dei traffici. Nell’anno passato i contenitori sbarcati nei porti italiani, al netto dei traffici dei porti di transhipment di Gioia Tauro, Taranto e Cagliari, sono stati meno di 6 milioni (5.777.300 TEU); e circa sette container su dieci, pari al 67,5 per cento di tale traffico, sono stati movimentati nel quadrante tirrenico settentrionale: Savona-Vado, Genova, La Spezia, Livorno. Il resto dei contenitori è risultato diretto verso altri quadranti: il 14 per cento nel Tirreno centro-meridionale (Civitavecchia, Napoli e Salerno); l’11,7 per cento nell’Adriatico settentrionale (Venezia, Monfalcone e Trieste); il 5,1 per cento nell’Adriatico centro-meridionale (Ravenna, Ancona, Bari e Brindisi). La distribuzione dei contenitori sembra, dunque, seguire la geografia industriale del Paese e si mostra attratta dalle aree dove più elevata è la domanda di trasporto. L’articolazione del resto del traffico non containerizzato (RO-R03 in particolare) sembrerebbe, al contrario, essere influenzata dalla concentrazione degli insediamenti umani.
Guardando ancora la distribuzione del traffico di merci trasportate in modalità RO-RO, i porti della zona centrale e meridionale dell’Adriatico, così come tutta l’area centrale e meridionale del Tirreno da Salerno a Civitavecchia, registrano valori di traffico niente affatto residuali come accade per i container, ma, al contrario, piuttosto interessanti.
Sono oggi un dato di fatto l’imponente crescita dei global carrier mondiali e il loro interesse per una gestione diretta, senza il ricorso a intermediari, dei percorsi logistici integrati che hanno come origine o destinazione l’Italia. Di fronte a tale scenario l’astuzia, la creatività, l’ingegno e il radicamento storico, nei contesti portuali, delle piccole imprese nazionali potrebbero non bastare nel confronto con quelle globali. La portualità nazionale si trova dunque di fronte a una nuova congiuntura critica, per certi versi simile a quella da cui nacque il progetto di riforma del 1994.
Di fronte a questa prospettiva, tale mondo ha ancora le capacità e le competenze per gestire con intelligenza l’ingresso dei percorsi logistici integrati nei porti senza essere spazzato via. Serve, oltre alla volontà di farlo, anche la convinzione che tutti i principali pezzi dell’attuale configurazione dei sistemi portuali - autorità di Governo, imprese e lavoratori - sono necessari per superare tale congiuntura. Concluso, dal 1997 in poi, il processo di ristrutturazione, anche grazie alla crescita del volume di merce movimentata nei porti italiani, la forza lavoro in porto è tornata a crescere, tanto che nel 2006 il totale degli addetti diretti ai servizi portuali si attestava nuovamente intorno a 20 mila unità (19.965), mantenendosi sostanzialmente inalterata fino al 2009, considerando i dati delle ex compagnie portuali e delle associazioni dei terminalisti portuali.
Ciò che è sostanzialmente cambiato è l’organizzazione del lavoro. Infatti, mentre nel 1983 dei 21.824 addetti, 20.831 erano soci delle Compagnie portuali e solo 993 dipendenti di altre imprese, nel 2009 dei 20 mila addetti solo 3.644 sono soci o dipendenti dei pool di lavoro temporaneo, tipologie di imprese previste dall’articolo 17 della legge n. 84 del 1994. La riconversione degli addetti in porto non è servita tanto a ridimensionare gli organici, quanto piuttosto ad articolare meglio la loro distribuzione tra gli addetti alle dirette dipendenze delle imprese e quelli avviati al lavoro con l’intermediazione dei pool di lavoro temporaneo.
Si tratta di una mutazione notevole che si misura con i nuovi ritmi del servizio al trasporto e con la riduzione del tempo a disposizione per caricare e scaricare una nave. I costi di gestione, sia in navigazione che in porto, sono notevolmente cresciuti così come il valore economico dei danni subiti da merci e mezzi. L’innovazione tecnologica ha modificato qualità e intensità del lavoro in porto, ma non ha eliminato, né tanto meno ridotto all’osso, l’esigenza di addetti specializzati nel trattamento delle merci. La riforma portuale ha aperto i servizi portuali al mercato sottraendoli al monopolio pubblico. Il lavoro in porto è stato parte di questa mutazione, anche se oggi è difficile stabilire se i risultati positivi e negativi dello sforzo compiuto dal complesso degli attori dei sistemi portuali siano stati equamente ripartiti.
La Commissione e il Parlamento europeo hanno in più occasioni manifestato il proprio interesse per la rete portuale continentale e per le condizioni di lavoro degli addetti presenti in porto. Le comunicazioni pubblicate sull’argomento e gli studi commissionati esprimono in modo sufficientemente chiaro la preoccupazione, più volte ribadita dalle istituzioni comunitarie, circa l’effetto sociale e economico dell’evoluzione delle attività portuali sul mondo del lavoro. La percezione delle difficoltà dei sistemi portuali non ha però impedito di affrontare questioni piuttosto «spinose» legate alla tutela della libera concorrenza all’interno delle aree portuali per quel che riguarda l’uso dei pool di lavoro temporaneo e l’opportunità di autoproduzione dei servizi portuali da parte delle compagnie di navigazione. Si tratta di nodi ancora aperti rispetto ai quali non si è riusciti a trovare un punto di accordo in grado di mantenere saldi i principi liberali che sono alla base del patto comunitario e le peculiarità dei contesti portuali continentali.
L’associazione dei porti europei, nella sua ultima indagine sui modelli di gestione dei propri associati, rileva sostanzialmente quattro funzioni dell’autorità portuale: tre di tipo tradizionale (proprietario, regolatore, operatore) e una di tipo innovativo (community manager). Le prime tre funzioni garantiscono la valorizzazione degli asset (demaniali e immobiliari), il rispetto delle regole e la libera ed equa concorrenza; la quarta funzione mira non solo alla gestione e alla salvaguardia della pace sociale tra i soggetti presenti in porto, ma anche all’integrazione tra le attività portuali e la comunità più vasta in cui esso è collocato.
Di fronte all’avanzamento di un mercato fortemente concentrato nell’ambito di pochi global carrier, il compito delle autorità preposte alla gestione del sistema portuale nazionale dovrebbe sostanzialmente riguardare, da una parte, l’inserimento della comunità portuale nei percorsi logistici integrati, dall’altra il controllo delle conseguenze dei mutamenti in corso sull’indotto portuale e sul contesto territoriale di riferimento. Gli enti pubblici dovrebbero pertanto, e finalmente, assumere il ruolo che gli compete, ovvero di Autorità indipendenti: senza scendere nell’arena delle contrapposizioni tra le lobby locali e senza volersi costruire un ruolo di agenzia commerciale o di promozione, che invece potrebbe essere svolto da strutture tecniche dedicate.
Serve invece una «regia» in grado di orientare le dinamiche commerciali presenti nel porto verso gli obiettivi di sviluppo e di crescita sociale del territorio in cui esso è inserito, oltre che un «arbitro» in grado di garantire l’equità della competizione, il rispetto delle regole nonché la tutela dei diritti: un «civil servant» capace di promuovere il porto e di misurarsi con i cambiamenti in atto salvaguardando, nello stesso tempo, gli interessi della comunità locale, tutelando il territorio e verificando gli effetti sociali ed economici delle attività portuali nelle aree retro portuali.
L’Autorità dovrebbe essere un faro che illumina la scena portuale, sgombrandola dai coni d’ombra, mettendo in risalto il valore degli attori presenti e consentendo una maggiore integrazione tra porto e territorio. Nascondersi o confondere le acque serve a poco, gli interessi in gioco sono troppo rilevanti e l’opportunità di evitare il confronto o la competizione risulta poco credibile.
Oltre a consentire di gestire senza subire l’ingresso o l’interessamento dei principali operatori mondiali, la compattezza del sistema portuale servirebbe poi per affrontare con maggiore convinzione alcune questioni fondamentali per lo sviluppo dei porti, che possiamo sinteticamente riassumere: costi esterni generati dai transiti in porto delle navi e dal loro stazionamento in banchina, ingresso e uscita dei camion, uso più intelligente del sistema ferroviario ad esempio per agevolare l’integrazione con le aree di lavorazione logistica delle merci al fuori del perimetro portuale, formazione degli addetti volta ad accrescere le competenze per contrastare la riduzione dei posti di lavoro, più determinata e soprattutto omogenea attenzione alla sicurezza del lavoro in porto.
Se intendono approfittare delle opportunità legate al mercato nazionale e internazionale dei trasporti, i sistemi portuali nazionali devono recuperare quello spirito di collaborazione e di pace sociale che gli ha consentito di superare le difficoltà che, nella loro millenaria storia, hanno dovuto affrontare.
Serve una comunità portuale più coesa, attenta più alle prospettive del porto di domani che ai contenziosi attuali. Solo attraverso uno sforzo comune sarà possibile accogliere i percorsi logistici integrati in partnership con i grandi operatori della logistica globale. Altrimenti la portualità nazionale, così come già è avvenuto per buona parte della logistica di terra, rischia di essere «annessa» all’interno di schemi e di priorità strategiche decise altrove.
L’Italia tornerà a crescere e rafforzerà la propria posizione sociale ed economica attraverso una partecipazione, alla responsabilità, di lavoratori, famiglie e di tutti i cittadini. Uno sforzo comune che investirà anche i porti e la marineria italiana dando luce a bandiere che hanno fatto la storia dell’Occidente.

Tags: Ottobre 2012

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