CONTINUA la fuga dagli investimenti

La fuga di capitali dall’Italia è diventata un dato di fatto? Riferiva settimane fa un comunicato dell’Ansa: «Milano. Fuga dei risparmiatori dagli investimenti finanziari. Da inizio 2010 a settembre 2012, complici la crisi e la sfiducia, gli investimenti finanziari sono crollati del 36 per cento a 1.269,9 miliardi di euro. Gli investimenti in azioni, obbligazioni, Btp e altri titoli, come emerge dal bollettino della Consob, sono diminuiti di 715 miliardi». Possiamo chiederci dove sono finiti quegli euro? Non sono andati certamente ad aumentare i depositi bancari, né sono stati investiti nel mattone.
La lezione di Cipro è stata in poche giornate assai più chiara di ogni morale che si voglia trarre da due anni di crisi finanziaria di Italia, Spagna, Slovenia, Irlanda, Grecia e Portogallo: la caduta di fiducia dei risparmiatori e degli imprenditori provoca un’immediata fuga dei capitali, minaccia la tenuta dell’economia del Paese che li perde, oltreché la divisa nella quale erano espressi. Questo dato di fatto rischia di risultare molto più determinante di tutti gli altri temi politici ed economici di attualità, sia per il fatto che in un’economia moderna è materialmente impossibile arginare la fuga dei capitali, sia perché gli investimenti, che si fanno solo con i quattrini, sono fondamentali per la tenuta dei livelli occupazionali.
Per comprendere la necessità di giungere quanto prima possibile alla soluzione della crisi politica, in sostanza ad avere un nuovo Governo, basti pensare che, senza un prossimo avallo politico, nella seconda metà dell’anno la Banca Centrale Europea potrebbe vedersi costretta a moderare i propri aiuti e a rientrare nei ranghi, proprio mentre l’Italia starà attraversando il suo momento peggiore. Qualche cattivo presagio riguarda in particolare la possibile crisi del sistema bancario italiano.
Le agenzie di rating annunciano una tempesta che minaccia seriamente tanto i Buoni del Tesoro poliennali quanto le banche italiane che li sottoscrivono: l’autorità bancaria europea continua a conteggiare le centinaia di miliardi di euro che mancano all’appello del capitale di rischio del sistema, qualora i conteggi fossero fatti con le disposizioni dell’accordo Basilea III. Poi ci sono le poste in bilancio dei crediti concessi alla clientela non ancora adeguatamente svalutate, sebbene siano spesso controbilanciate da ingenti garanzie che non risultano adeguatamente rappresentate nei bilanci delle banche.
Ma se non si sono aperte le cateratte, può essere anche merito della relativa tenuta del mercato immobiliare italiano, sul quale poggiano i valori delle garanzie in mano al sistema bancario. In questo però «casca l’asino», perché il mercato immobiliare non è ancora crollato soltanto a causa degli scarsissimi volumi delle transazioni in essere, dal momento che a certi prezzi nessuno vuol vendere; ma esso sta comunque lentamente sgretolandosi per adeguarsi ai nuovi livelli di tenore di vita degli italiani, livelli che non possono non continuare a scendere.
È solo questione di tempo o da qui a qualche mese arriveranno una miracolosa ripresa e un fantastico avanzamento del potere d’acquisto? Nessun commento se non qualche ironia: la luce in fondo al tunnel di montiana memoria ormai è chiamata Eurostar, dal nome di un treno che rischia di piombarci addosso molto velocemente e dal sapore tanto mitteleuropeo. Più che di presagi si tratta, dunque, tutt’al più di elaborazioni del lutto, ossia della presa d’atto che le condizioni per un rilancio dell’economia consistono in improbabili stimoli effettivi alla ripresa, lanciati da un cauto futuro Governo, figlio di qualche nuova coalizione.
Le condizioni per un rilancio in questo momento non esistono nemmeno a livello globale, figuriamoci per un’Italia il cui debito pubblico ha superato i duemila miliardi di euro e il 130 per cento del prodotto interno. I cattivi presagi riguardano i veri punti deboli del sistema economico nazionale: il debito pubblico, il mercato finanziario, la disoccupazione e, per completare l’elenco, le scarse infrastrutture. Il debito pubblico cresce soprattutto perché non viene tagliata la spesa pubblica, e l’avanzo primario dato dalle alte imposte è in buona parte riassorbito dal minor gettito fiscale di un’economia che decresce molto più velocemente di quanto il solo dato statistico del prodotto interno possa dare a vedere, principalmente a causa di una fuga dei capitali che ha paragoni solo con quella della Grecia.
E insieme al prodotto interno, al reddito disponibile e agli investimenti produttivi, si riducono i capitali da investire, i posti di lavoro, il salario medio, il credito disponibile, il merito di credito del debito pubblico e la competitività dell’industria nazionale. In questo scenario il rating del sistema Paese Italia non potrà che continuare a deteriorarsi, andando a colpire soprattutto il sistema bancario, la sua credibilità, la sua capacità di finanziarsi sulle piazze internazionali, la sua stabilità, la sua capacità di capitalizzarsi maggiormente.
Il rischio è grande perché alle sorti del sistema bancario restano collegati il sistema dei pagamenti, la tutela del risparmio, il credito alle imprese e ai cittadini, la partecipazione alle aste dei titoli del debito pubblico. Senza le banche italiane, ancora oggi in possesso di notevole liquidità derivante dai crediti messi a loro disposizione dalla Banca Centrale Europea, quelle aste andrebbero certamente deserte.
Potrebbe trattarsi della classica buccia di banana sulla quale scivola, e si rompe l’osso del collo, l’intero sistema economico del nostro fragile Paese, vista anche l’impermeabilità del sistema bancario all’ingresso degli stranieri nel capitale. Scongiurare questo pericolo dovrebbe essere il primo atto di governo di ciascun politico con un po’ di sale in zucca, oppure di un nuovo tecnico, magari di provenienza finanziaria.
di STEFANO DI TOMMASO
amministratore delegato de La Compagnia Finanziaria
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