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CHALLENGER BANK ALLA SFIDA DEL MERCATO (E DELLE BANCHE TRADIZIONALI)

Una challenger bank è una banca che compete direttamente - o sfida - le banche tradizionali utilizzando strumenti tecnologici e processi innovativi, agendo senza sportelli e offrendo ai clienti, soprattutto individuali, molti della generazione Z, non bancarizzati, e piccole e medie imprese servizi e prodotti simili a quelli tradizionali ma più personalizzati, più semplici, più veloci e a minor costo: trasferimenti di denaro, pagamenti di utenze, app di gestione della finanza personale.

Le challenger bank sono nate con la clientela consumer offrendo principalmente servizi di pagamento; incrementando la loro attività sono entrate in altri settori e hanno sviluppato core business anche molto diversi tra loro; si sono inserite nel comparto imprese, soprattutto micro e pmi cercando di soddisfare le esigenze non soddisfatte dalle banche tradizionali, offrendo un solo o pochi prodotti come factoring, sconto fattura, oppure attività ordinarie come il conto corrente, sempre in maniera digitale tramite smartphone o app.

La crescita delle challenger bank è abbastanza scontata: in Europa in pochi anni ne sono nate 96, di cui 64 con licenza bancaria completa; l’Italia con 12 è il secondo paese in Europa come interesse del pubblico ma lo sviluppo non è stato prorompente né portatore dei sostanziosi utili per i promotori che molti si attendevano, con alcune di loro ancora lontane dal break even che le ha obbligate, per acquisire una sostanziale redditività, a orientarsi su prodotti più remunerativi, come stanno facendo alcune piattaforme digitali, oppure dotandosi di un canale fisico, ancora preferito dalla clientela che si rivolge a loro ma vuole sempre mantenere un rapporto con il “proprio uomo di fiducia”.

Uno dei vantaggi di cui godono le challenger bank è una regolamentazione bancaria che obbliga, giustamente, gli intermediari tradizionali a rispondere a regole sempre più incisive nella tutela della clientela, nei vincoli di bilancio, negli obblighi di compliance e via dicendo; che li obbliga, in molti casi, a fare una selezione della clientela: non è un caso che in pochi anni, non sempre spontaneamente, si siano avuti mutamenti importanti nel sistema bancario attraverso fusioni, trasformazione delle banche popolari e dei gruppi di banche di credito cooperativo fino alla fortissima riduzione di personale e di sportelli.

La nascita delle challenger bank è dovuta anche, forse è più giusto dire “è stata dovuta”, a una carenza di regolamentazione, situazione “denunciata” dagli altri intermediari che chiedono di giocare con un level playing field in cui il confronto non sia “squilibrato” a favore di alcuni giocatori, particolarmente se questi non saranno più gli attuali “pionieri” ma Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft, o altre: imprese, in qualche modo già presenti, a cui non interessano i centesimi di una commissione e, probabilmente, neppure gli interessi, ma le informazioni sui clienti per elaborare e sfruttare quanto acquisito.

Per le challenger bank la necessità di capitale al momento dell’avvio dell’attività è stata abbastanza modesta ma, completata per molte di loro la fase “pioneristica”, sono emerse realtà meno positive: costi operativi elevati, time to market meno veloce, ritorno economico basso se non negativo ed è stato evidente il bisogno di crescere, di consolidarsi e di aumentare gli investimenti perché se è vera la loro capacità di entrare sul mercato e di offrire nuove soluzioni è anche vero che le risorse degli incumbent, ovvero i “signori” del mercato, sono più elevate e in grado di affrontare momenti di difficoltà mentre le risorse delle challenger bank sono ancora limitate, fino alla scelta di non richiedere la licenza bancaria ma quella di istituto di moneta elettronica o di società finanziaria meno onerosa.

Oltre a vedere gli aspetti positivi e quelli problematici, un’analisi deve affrontare anche gli errori che le challenger bank, troppo presto considerate il fenomeno disruptive del sistema, hanno commesso.

Il primo errore è concentrarsi sullo sviluppo tecnologico e la crescita della clientela non curando la sostenibilità del business utile per la loro stessa esistenza; il secondo l’aver approfittato di regole lasche e tentare di non rispettare neppure quelle: negli ultimi mesi indagini antiriciclaggio hanno coinvolto varie neobank “fortunatamente” non nazionali e la tutela della clientela non è stata sempre delle migliori attirando l’attenzione delle Autorità.

Non un loro sbaglio, ma derivazione anche di errori, è la risposta dei sistemi bancari tradizionali che hanno reagito alla “novità” attraverso scelte utili per far loro mantenere e accrescere l’attività.

Compreso lo scenario e i potenziali sviluppi, gli intermediari storici si sono attrezzati per recuperare il ritardo accumulato, utilizzando tre strade diverse: accordi di collaborazione con le challenger per poter offrire una gamma più completa di servizi e prodotti, costituzione di proprie strutture digitali per entrare in “mondi” trascurati in passato, acquisizione di start up ritenute utili per lo sviluppo del gruppo bancario.

È la chiave, cosiddetta coopetition, per la creazione di un ecosistema finanziario competitivo comprendente banche tradizionali, storicamente radicate sul territorio, con un brand conosciuto e, generalmente, ben capitalizzate, e challenger bank che invece non hanno, o almeno ancora non hanno, un reale radicamento col tessuto socio-economico cui prestano servizi né grandi capitali.

Un nuovo modello di “fare banca” più innovativo di quello storico, a cui si aggiungono al progresso digitale i principi della sostenibilità, dell’etica, dell’ESG e della solidarietà, con un forte orientamento alla soddisfazione del cliente che è però qualcosa di più di un semplice algoritmo. In sostanza, una rivisitazione della banca “vecchia maniera” ma meno speculativa, più orientata al cliente, che utilizza tecnologie che garantiscono sicurezza, efficienza e customer service: finanza integrata o “embedded finance”.

Quando le banche tradizionali offriranno servizi ipercustomizzati e pensati per il singolo e non più per una fascia di utenti o addirittura una generazione, diventerà difficile distinguere le incumbent, le banche sino a “ieri” dominanti del mercato, dalle challenger e si vedrà quali e quanti intermediari “vecchi o giovani” rimarranno sul mercato.

A molti potrà sembrare la quadratura del cerchio potendo avere almeno tre vantaggi: velocità, costi più bassi, un catalogo di prodotti più ampio. La realtà è un po’ diversa sia socialmente sia economicamente. Il sistema bancario sta procedendo, per motivi diversi, alla chiusura delle agenzie, alla riduzione del personale, alla ricerca spasmodica della redditività; allo stesso tempo vive le acquisizioni di importanti gruppi nazionali da parte di gruppi bancari esteri, di intermediari che, per colpa o per errore, non sono in grado di adeguarsi e sono destinati alla scomparsa, della concorrenza di imprese globali con miliardi di clienti e di strumenti di pagamento non sicuri e non protetti come le criptovalute.

Un mondo da cui nessuno potrà fuggire, come non si sfugge al progresso in tutti i campi, per cui è necessario che tutti, legislatori, autorità, intermediari, imprese e consumatori, siano capaci di confrontarsi e di controbattere per il bene comune affinché quanto oggi, a torto o a ragione, viene contestato al sistema bancario e finanziario non debba essere ricordato con nostalgia in futuro.

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